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FORBICI 131

e discredeva cento volte al giorno, che il signor Marcello, con quel volerlo trattenere alla Montanina nel nome della persona che aveva tanto amato Lelia, con quelle confidenze sulla famiglia di lei, sui timori che lo agitavano pensando all’avvenire della fanciulla, con altre vaghe allusioni, avesse l’intenzione di significargli la speranza che egli volesse prendere il posto del povero Andrea. Ci si perdeva. Per lui non esisteva in quel momento che Lelia, radiante le onde oscure dell’amore, oscura ella stessa e cinta di oscurità, di tormentose dubbiezze. Quando la mano di don Aurelio si posò sulla sua spalla, gli pesava sul cuore che Lelia, durante il pranzo, non gli avesse rivolto nè uno sguardo nè una parola. Intese l’atto del suo amico come un ammonimento.

«Lei ha capito» diss’egli. «Mi tradisco tanto?»

La sorpresa silenziosa di don Aurelio gli rivelò che si era tradito in quel momento.

«Scusi» esclamò turbato, «perchè mi ha posto la mano sulla spalla?»

«Povero Massimo!» rispose sorridendo don Aurelio quando gli parve di aver capito veramente.

«Dunque stavolta è proprio una cosa seria?»

«Dio, Lei ride!» esclamò Alberti.

«Ma sì, ma sì, andiamo, discorreremo.»

Così dicendo, l’uomo cacciato con amara ingiustizia dalla sua casipola d’infimo pastore, prossimo al momento in cui non avrebbe saputo dove posare il capo, prese a braccetto e trasse con sè, per confortarlo, l’amico dimentico di ciò, preso tutto dall’egoismo dell’amore.

«È una cosa, vedi, che fa piacere a me e che farà piacere anche ad altri» gli disse entrando nella buia ombra dei grandi castagni. Massimo si arrestò di colpo.

«Anche al signor Marcello? Proprio? Proprio vero?»