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FORBICI 133

non esistesse più che la signorina Lelia. Le parole dolenti furono un tocco di fuoco al cuore di Massimo, lo fecero rientrare in sè. Afferrò a due mani un braccio dell’amico, non ebbe pace fino a che don Aurelio non lo baciò in segno di perdono.

Passarono in silenzio fra le casupole tenebrose di Lago. Fuori del villaggio, girando l’alto dorso erboso che porta la chiesa di Sant’Ubaldo, Massimo si aperse tutto all’amico, gli disse l’impressione avuta dalla fotografia della signorina Lelia mentre ancora viveva il povero Andrea, quella riportatane al primo incontro con essa, le vicende strane, tentanti, del contegno di lei, il fascino delle profondità ch’egli intravvedeva in quell’anima, i primordii della passione, il rimorso, l’attitudine inesplicabile del signor Marcello, il crescere dell’ebbrezza, il sogno fisso dei suoi giorni e delle sue notti: uscir del mondo, dimenticarlo, passar la vita con lei, in qualche solitudine di montagna, facendo il medico, servendo gli uomini, praticando la religione colla tacita libertà dell’anima, inespugnabile da qualsiasi dispotismo.

Don Aurelio ascoltò in silenzio. Giunto alla chiesa, ne aperse la porticina laterale, vi entrò a pregare. Massimo lo seguì ma non pregò. Pensò Lelia, malcontento di pensarla in chiesa e tuttavia cedendo al dolce pensiero. La mattina di quello stesso giorno, Lelia, dopo averlo trattato con indifferenza quasi sprezzante, si era improvvisamente seduta al piano, aveva suonato «Aveu» di Schumann. Ferma nel cuore un’acuta dolcezza, egli aveva seguito la deliziosa musica guardando in alto, attraverso la galleria cui salgono le scale del salone, una piccola obliqua punta di dolomia perduta nei vapori azzurrini del cielo, un aereo profilo di sogno. E adesso, nelle tenebre della chiesina, cercava rievocare quel momento inenarrabile, richiamare i tocchi delicati