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144 CAPITOLO QUARTO

testa di scendere nel Parco anche quella sera. Supplicò, scongiurò, minacciò di parlare, si prese un rabbuffo terribile, finì con accontentarsi della speranza che quella sarebbe stata l’ultima volta. Ella doveva recarsi, l’indomani mattina, a Schio. Lelia levò dal cassetto della scrivania una lettera chiusa, che vi stava presso l’altra spiegazzata dalle sue mani la sera dell’arrivo di Massimo.

«Il solito» diss’ella, consegnandola alla cameriera. Era denaro che Lelia mandava a suo padre. Faceva queste spedizioni per mezzo di Teresina, da Schio, temendo che, per indiscrezioni degli ufficiali postali di Velo d’Astico o di Arsiero, il signor Marcello venisse a sapere. Teresina godeva delle confidenze che le permettevano di salire un poco dalla devozione verso l’amicizia. La confidenza di quella sera le servì per avviare piano piano un rivoletto di chiacchiere simile ai rivoletti naturali che piegano e girano fra gl’inciampi e trovano sempre un varco a quell’acqua grossa cui mirano. Incominciò, molto timidamente, a dire del guardaroba assai manchevole della signorina che spendeva troppo poco per il vestire. Anche il padrone se ne accorgeva e rimproverava lei. Ma che ci poteva far lei? Dirlo alla signorina. Ecco, lo aveva detto. Non lusso, no; il lusso sarebbe stato fuori di posto, alla Montanina; ma un po’ di eleganza! Il padrone consigliava di rivolgersi a donna Fedele per la scelta di una buona sarta. Donna Fedele si serviva a Torino, sì, ma, secondo Teresina, da una sartuzza di quart’ordine. Lelia, che si serviva a Vicenza, le domandò se avesse a raccomandare una sarta di Schio. Teresina protestò, piccata. Non c’era Milano? Sì, Milano! E quale preferiva, la dotta Teresina, fra le grandi sarte di Milano? Qui il rivoletto non trovò uscita da nessuna parte e fece uno stagno. Teresina tacque. Salito alquanto lo stagno, il rivoletto ne rise a un orlo.