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FORBICI 137

e, occorrendo da Vicenza a Milano, dove, nella peggiore ipotesi, avrebbe chiesta l’ospitalità, offertagli più volte, di un suo amico prete. Non ci fu verso di fargli accettare di più.

«Queste dodici te le avrei domandate» diss’egli. Poi, arrossendo molto, mostrò a Massimo il cassettone dove teneva le biancherie, documento segreto della sua povertà. Avrebbe scritto da Vicenza indicando il luogo dove spedirgli quelle poche robe e le fotografie di Subiaco. Quanto ai libri, pensò che il miglior partito fosse incassarli e affidarne a donna Fedele la custodia. Erano da incassare anche i pochi mobili. Gli tornò in mente che la Lúzia gli aveva detto una volta: «S’el va via, don Aurelio, el me lassarà el leto, vero?». Ecco, valeva meglio lasciarle il letto e non vendere la sveglia. Povera Lúzia, dopo quel primo discorso, insinuava dolcemente, a ogni occasione, che il suo letto era un strazzon, «un covile da bruciare».

«Ma, caro amico» esclamò Alberti per una ispirazione subitanea, «come posso restare io se Lei parte?»

Il natìo fuoco generoso dell’anima sua diede, attraverso e sopra gli egoismi dell’amore, una improvvisa vampa:

«Ah, don Aurelio, perchè non l’ho pensato subito? Parto con Lei! L’accompagno!»

Don Aurelio aperse le braccia, se lo strinse al petto.

«Mi perdona» disse piano il giovine «di non averlo pensato subito?»

Don Aurelio lo strinse più forte e non rispose. Alfine lo scostò da sè dolcemente, lo baciò in fronte.

«Non ti voglio, sai» diss’egli.

«Non mi vuole? Perchè non mi vuole? Vengo anche se non mi vuole!»

Il lumicino a petrolio accennava a venir meno, Don Aurelio lo spense.