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180 CAPITOLO QUARTO


Alberti ritornò alla Montanina circa alle quattro e mezzo. Vi trovò un telegramma di don Aurelio coll’annuncio che partiva per Milano e una lettera di un amico milanese, troppo lunga e, com’egli si figurò, anche troppo poco interessante per leggerla subito, in quella ristrettezza di tempo. Fece le sue valigie e discese nel salone. Non v’era nessuno. Guardò il piano, pensò il fiore della memoria caduto dalla cintura di Lelia, la musica di «Aveu», immaginò con impeto di stringere nelle sue braccia la donna che lo aveva illuso così, la disprezzò subito in cuore, con risoluta volontà. Alzò gli occhi alla punta di dolomia, ve li fermò un istante amaramente, diede le spalle a tutto, d’un colpo, si avviò per la stanza del biliardo allo studio del signor Marcello.

«Dunque Lei parte proprio?» disse il vecchio con un imbarazzo di cui Massimo non afferrò il senso che in parte.

«Proprio» rispose. Gli mostrò il telegramma di don Aurelio, gli disse che a Milano don Aurelio aveva un amico ma che, almeno in quei primi momenti, desiderava trovarvisi anche lui, dargli quell’aiuto che poteva. Venendo poi ai ringraziamenti di prammatica, disse che sentiva una gratitudine immensa e non per l’ospitalità sola. Tacque, vinto dalla commozione.

Il signor Marcello, commosso egli pure, avrebbe giudicato che i preti di Velo o erano stati ingannati o mentivano. Avrebbe voluto dirgli: ritorni presto! Ma si contenne. Lo pregò, invece, di scrivergli, di dargli spesso notizie di sè e anche di don Aurelio. Quando Massimo, consultato l’orologio, si alzò per partire, si alzò egli pure, lo accompagnò fuori, dispose che le valigie gli fossero portate alla stazione, lo baciò due volte: «Uno per lui» disse «e uno per me!».