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FORBICI 177

la spugna e il lavoro fatto, si fece piuttosto scuro, consigliò Massimo di non continuare perchè altrimenti gli potevano toccare dei dispiaceri.

«Da chi, questi dispiaceri? Da Voi?» fece Massimo, risoluto. Quegli rimase un po’ sconcertato, brontolò «eh, non signor» se n’andò con altri sommessi brontolii.

«Signorina» disse Massimo, nel tono indifferente del primo saluto, «Lei prosegue o scende?»

Lelia lo guardò, attonita.

«Io devo restare ancora un poco» diss’egli, leggendole in viso ch’ella temeva di udirsi offrire la sua compagnia. I nuvoloni che pesavano sulla fronte della turchina Priaforà diedero un tuono. Non c’era da temere di pioggia prossima, il sole splendeva, oltre il piede della Priaforà, sui casali e sul verde, i denti del Summano ardevano dorati nel sereno, ma quel tuono aiutò Lelia nel suo imbarazzo.

«Scenderò» diss’ella.

«Allora, signorina» riprese Massimo «La prego di avvertire il signor Marcello che devo partire alle sei per Vicenza e, probabilmente, per Milano. Ora mi trattengo qui per un incarico di don Aurelio e poi verrò a congedarmi.»

Si levò il cappello.

«Non Le do la mano» diss’egli. «Non lo merita.»

Lelia trasalì.

«Dico la mia mano sudicia!»

Il giovine sorrise mostrando la mano che aveva tenuto la spugna. Lelia salutò con un solo breve chinar del capo e prese la scorciatoia che scende direttamente dalla chiesa. Avrebbe pianto di rabbia, sicura com’era della intenzione insolente di lui, irritata con sè stessa per aver sottolineata l’ingiuria con quel trasalire. A Lago trovò Teresina che, ritornata da Schio, le veniva incontro per ordine del padrone, recando la chiave del Parco di