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FORBICI | 127 |
sua domanda diretta, rivoltale negli ultimi giorni, la ragazza aveva risposto che leggeva di preferenza poeti stranieri. Don Aurelio, poco pratico di poesia straniera, non aveva osato spingersi più oltre colle domande. Gli era poi stato riferito da donna Fedele il frutto di scandagli suoi. Pareva che i poeti stranieri preferiti da Lelia fossero Shelley e Heine. Il primo era interamente sconosciuto a don Aurelio, il nome del secondo gli rendeva un suono di scetticismo funesto. E che nell’anima di Lelia vi fosse un fondo amaro di scetticismo lo sospettava da qualche dì per un discorso spiacente di lei, riferitogli, anche questo, da donna Fedele. Ell’aveva sostenuto contro donna Fedele la tesi che gli atti apparentemente più generosi degli uomini non hanno altro movente che l’egoismo; e qualche sua parola era parsa ferire indirettamente l’atto del signor Marcello che si era portata in casa una memoria viva del figliuolo morto.
Don Aurelio se n’era sdegnato e l’amica, più indulgente, aveva durato fatica a pacificarlo, rappresentandogli l’ambiente nel quale era cresciuta Lelia, le origini dolorose del suo scetticismo. Donna Fedele era meno inquieta di lui circa l’avvenire di Massimo, se questo matrimonio si facesse. Le stranezze della fanciulla non facevano a lei la stessa penosa impressione che a don Aurelio. Ella ricordava l’adolescenza propria, stata fantastica e appassionata la sua parte, comprendeva tante cose incomprensibili a lui. Credeva intravvedere tesori nel cuore di Lelia e provava una simpatia vivissima per quella sua intelligenza tutta penetrata e calda di sentimento.
Finito di esplorare inutilmente i libri della bibliotechina, don Aurelio vide la cameriera affacciarsi alla porta di fondo del salone, movere verso di lui, silenziosa, in punta di piedi. Le andò incontro. Teresina aveva un