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138 | CAPITOLO QUARTO |
«Ci deve servire più tardi» diss’egli «e io non so nè se vi sia dell’altro petrolio in casa, nè, se c’è, dove sia. Sediamo.»
Oscuri volumi di nubi senza luna macchiavano appena, nell’apertura di una finestra, le tenebre. Don Aurelio, invisibile al suo interlocutore, prese a parlargli sotto voce, colla gravità di un padre.
«Sono io, caro, che resto con te. Non te l’ho detto ma ho tanto pregato Iddio che ti donasse quello che ora ti sta donando, un amore forte, grande, pieno e santo. Tu non sei fatto per il celibato, tu sei fatto per una unione idealmente umana, idealmente cristiana, idealmente bella. Tu sei fatto per avere una progenie forte e pura. La tradizione delle grandi famiglie devote eroicamente al Re è spenta. Bisogna fondare famiglie devote eroicamente a Dio, dove la devozione a Dio si perpetui come un titolo di nobiltà, come il sentimento giusto, tradizionale della nobiltà. Tu ne devi fondare una. È il mio sogno. Era il sogno...»
La voce di don Aurelio discese a sussurrare un nome, tacque.
«Davvero?» fece Massimo.
«Sì, era il sogno, per te, del povero Benedetto.»
Il fantasma di un caro viso macilento, dagli occhi grandi, parlanti, balenò a Massimo nell’ombra della camera. Benedetto aveva pensato a una felicità di amore per lui! Il caro viso gli balenò ancora, supino, senza vita, cereo. Un moto di lagrime gli gonfiò il petto, ridiscese compresso.
«Non puoi allontanarti» proseguì don Aurelio. «Domattina per tempo devi vedere donna Fedele, assicurarla di quello che sai. Non dubita di te, ma siccome le è affidato un incarico, desidera questa parola tua. Poi, domani stesso, parlerà alla signorina Lelia, la interrogherà a nome del signor Marcello che ne l’ha