Il secolo che muore/Capitolo XVI
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Capitolo XVI.
LA CONCESSIONE DELLA FERROVIA.
Ecco il giorno, ecco l’ora della discussione intorno alla legge della ferrovia. Alla Camera occorre ammannita ogni cosa; il presidente messo a sedere col campanello da un lato ed il cappello dall’altro, parafulmini entrambi delle procelle parlamentarie: ecco l’acqua e lo zucchero che si hanno a bere, ed ecco in pronto la eloquenza ch’egli ha da bere: al fianco del presidente il segretario legge, nel suono della pentola che leva il bollore, il processo verbale (una volta si chiamava relazione), il quale viene sempre approvato, per la buona ragione che di ordinario non ci è alcuno che lo possa disapprovare.
Vedi allestita la stanza dove i deputati vanno a rifare, bevendo, la voce affranta dalle lotte della tribuna, nella stessa guisa che i cerusichi tengono in pronto l’ambulanza per medicare i soldati delle ferite riportate in battaglia. Qui in bell’ordine disposti coltelli, sarracchi, tanaglie, maddaleoni e fasce; lì bocce, bicchieri, e bicchierini, e cantimplore, e arnesi altri siffatti.
Taluno afferma che i deputati che parlano meno sono quelli che bevono di più, ma non gli date retta; coteste lingue le sono come la campana del bargello, sonano sempre a vituperio.
E’ vi ha bevande adattate a tutti i partiti; per la destra limonee, acetose ed altre simili acidità; pel centro sciroppo di tamarindi; qualcheduno propose aggiungervi acqua del Tettuccio, ma non attecchì; per la sinistra rhum puro e anisetta, onde mantenerci il fuoco sacro. Egli è negli angoli più remoti di questa stanza che tu miri passeggiare un uomo con la destra sotto il mento e la sinistra dietro la vita, verso il coccige dove alle bestie spunta la coda, con un foglio; è uno degli oratori, che deve correre il palio nell’aringo parlamentario, il quale, ripassa la diceria, che fra poco andrà a improvvisare;1 e perchè la illusione diventi maggiore, la prelodata mala lingua assicura che fino dal giorno innanzi egli ha concertato con certi suoi amici compari le interruzioni, le quali devono parere nate li per li per provocare ex teinpore i frizzi e i motti visti e rivisti e corretti dallo autore. Eh! via, smettetela, cerretani! Credete voi che Cicerone improvvisasse la orazione pro Archia poeta? Demostene quella per la Corona? E Pitt, e Fox, e Sheridan, e Brougham, credete voi che improvvisassero i loro discorsi? Sapete voi chi improvvisa? Chi vagella.
Anche i bidelli secondo il grado hanno indossato le livree, e appeso al collo la catena; i deputati non ne hanno bisogno, perchè la più parte di loro venne al mondo sotto lo influsso della costellazione della livrea, e serva vestita nacque, e serva ignuda perirà. Quando conterete i miei anni, voi che leggete, andrete come me persuasi che nelle dimore degli uomini trovano alloggio tanto il genio della libertà, quanto quello del servaggio, — e ci ha perfino chi li piglia per fratelli. — E rispetto alla catena, io vi voglio dire che non vidi mai deputati destri scendere stretti insieme a combattere una legge ostile alla libertà, senza che mi ricorresse alla mente Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, che, comunque cieco, volendo pure pigliar parte alla battaglia di Czecy, s’incatenò con altri cavalieri, e a questo modo combattendo incontrarono tutti miserabile morte. Dove non basterebbero Titani co’ cantoni di granito credete potercela voi Enceladi di carta pesta, lanciando fagiuoli con l’occhio?
Si alza il ministro, che a quei giorni fu un coso nè brutto nè bello, co’ capelli in parte bianchi ed in parte neri; sentiva altresì del guercio, imperciocchè con un occhio guardasse a oriente donde nasce il sole, e coll’altro ad occidente dove il sole tramonta; non buono, non tristo, ma alla occasione più tristo che buono; nei discorsi suoi limpido come l’acqua piovana, e come lei insipido: insomma un vero ministro costituzionale, creato da madre natura subito dopo il diluvio, e poi messo lì a stagionare: costui pertanto prese a snocciolare adagio adagio uno dopo l’altro tutti gli argomenti in pro della legge nell’ordine col quale glieli avevano imbeccati i segretari; e conchiuse col dire, ch’egli però non intendeva del rigetto di cotesta legge fare quistione di Stato: anzi se qualcheduno avesse a proporre meglio, non si peritasse; approvata o respinta cotesta legge, egli rimarrebbe.
Udendo Elvira (fino dalle prime ore del giorno convenuta insieme alla turba degl’interessati nelle tribune della Camera) coteste strane parole, non potè frenarsi da esclamare:
— Tondo ti conobbi e tondo ti rimarrai. — Bos in patria, asinus undique, come scrisse certo bell’umore per lo epitaffio di un deputato vivo.2
Omoboiio, con parole fumanti più del fiato del cavallo che abbia corso a staffetta, strideva negli orecchi all’Elvira:
— Perdio! Qui giochiamo di noccioli... O questa conchiusione come ci casca? Ci sia caso che costui mangi a due palmenti? Non sareste fra voi tutti di accordo?
Elvira, punta sul vivo, rimbeccava come un aspide:
— O che credete che i ministri si comprino come mazzi di sparagi? Io vi ho ripetuto le migliaia di volte, che quanto a guadagnarci questo ministro col danaro, non bisognava pensarci ne manco; poi non era con dugentomila lire che si sarebbe potuto acquistare; aspettate; forse chi sa che la delicatezza ostentata non sia una figura rettorica, una finta di cartoccio per riuscire meglio nello intento.
— Maledetta virtù, grugniva Omobono, io me la trovo sempre fra le gambe come una veste di fiasco.
— Zitto! soggiunse Elvira; ecco, adesso piglia a parlare il deputato Ramassi.
— Ed è dei nostri lui?
— Figurarsi! Come le dita della mia mano! O non vi ricordate di averlo incontrato venti volte almeno a pranzo in casa mia? E sì, che non si dovrebbe dimenticare tanto facilmente, perchè, masticando nel punto stesso da tutte e due le ganasce, non si sa bene s’ei mangi o stia a modello dei mascheroni da fontana.
Il Ramassi nella commedia del Parlamento so stiene le parti di Rimestino Rodipoco, e non è il solo. Certo non costa molto; si piglia facilmente per la gola a modo dei pesci: amava di amore sviscerato i preti a tavola, perchè ci prendeva i quartieri da inverno con loro, e non meno diletti li teneva fuori di tavola, perchè sovente ce lo invitavano. Se egli si fosse trovato nei piedi di Esaù, avria venduto non una, bensì dieci primogeniture, non però per un piatto di lenticchie. In tutto e per tutto d’accordo col reverendo suo direttore spirituale, in un punto dissentiva ricisamente da lui, ed era: che a suo parere la cena mistica si componeva di troppo poco: pane e vino pei sacerdoti, pei laici pane solo. Ora, Gesù Cristo non ha insegnato egli stesso: non solo pane vivit homo? Dunque, alla più trista, bisognerebbe aggiungere nella Eucarestia una braciuola cotta alla navicellaia coll’aglio e il finocchio; e il bello poi stava in questo, ch’egli lo sosteneva sul serio. Se oltre la gola tu poni uno staio di servilità, un quarto di trivialità e un bossolo di scurrilità, tu avrai messo insieme un altro Ramassi; e nondimeno considerando gli arnesi co’ quali costumava bazzicare, era mestieri dire: per gobbo è fatto bene.
Costui, spifferando uno sciolema lungo quanto la quaresima de’ Greci, accompagnato da lazzi e buffonerie, esagerò in guisa la esposizione fatta dal ministro, da renderla argomento d’inesauribile ilarità: nel delirio dell’adulazione egli chinò troppo la testa, e troppo buttò in alto il turibolo, donde avvenne ch’egli rompesse due nasi: uno fu il suo pel battere forte ch’egli fece della sua faccia in terra, e l’altro del ministro sfracellato dal fiero urto del turibolo. Omobono, smanioso, mormorava negli orecchi all’Elvira:
— Ohimè! Dove diavolo me lo avete scavato? Tanto valeva cercare il male per medicina.
E la Elvira a sua volta, stizzita, rispose:
— Voi dite unicamente; la prima volta ch’ei toma a pranzo a casa, e sarà in breve, io vi giuro di fargli condire le pietanze col sale d’Inghilterra.
— E adesso chi è mai quell’altro che si leva? domandò con trepida esitanza Omobono.
— Gli è un deputato della opposizione, non già della corrosiva, bensì di quella acidula, leggermente purgativa, la quale finisce sempre o per ringraziare il ministro, o per chiamarsi soddisfatta, o per ritirare il suo ordine del giorno.
— Ho capito, notò Omobono, resistenza tanto che basti a salvare l’onore della capitolazione, resistenza che voialtre donne pare abbiate insegnato agli uomini politici.
— Quanto a questo, caro mio, disse di rimando la Elvira, la è quistione sempre indecisa, come quella: ditemi chi fu pria, la messa o il prete.
— Misericordia! continuò Omobono, come costui è avvampato nel viso! Pare un fiasco di vino di Chianti lasciato per dimenticanza sopra la tavola dove desinano i deputati; ditemi, costui parla o mesce?
— Non mesce, no; egli parla, e bene, rispose sorridendo Elvira.
Il deputato dalla faccia vinosa riepilogò con molta chiarezza i molteplici vantaggi della ferrovia in discorso, secondo l’ordine col quale li era venuti indicando il ministro, appiccando però ad ognuno certa sua glossa, nella medesima guisa che nelle litanie ad ogni salutazione tiene dietro: Ora pro nobis. Egli non trovava lodi che bastassero ad encomiare la comunicazione accelerata delle parti estreme d’Italia, ma a patto che gli abitanti loro si trovassero spesso insieme per raccontarsi la scambievole prosperità, mentre non avendo altro a raccontarsi, per ora, che le scambievoli miserie, non distingueva proprio che pro potessero cavare dal vedersi frequentemente. Sicuro, l’agricoltura promossa ed ampliata farà la mano di Dio a questa nostra società messa a soqquadro dagli antichi e moderni scommettitori; ma io non so come la si voglia sovvenire opprimendola co’ balzelli, che ogni di più allungano i denti; lo stesso dicasi per le industrie ed i commerci. Gli è vero, non però in tutto, ciò che scrive il Filangieri, che l’arte del finanziere sta nel mettere il peso al posto dove si possa portare: cento libbre sopra le spalle non recano fastidio, sul naso te lo schiacciano; e va bene; ma poni che il peso sia di una tonnellata, allora poco preme un luogo piuttostochè un altro; dovunque te lo mettano, tienti per ispacciato. Signori miei, il ministero (e parlando di ministero intendo comprendere tutti i ministri che ci governarono, imperciocchè essi tutti partecipino della natura degli enti, che compenetrandosi di tre se ne fa uno solo), il ministero fin qui mi rassomiglia a colui che tagliasse prima le gambe ai cavalli e poi li spronasse a correre. Noi non abbiamo lasciato passare occasione per ammonirlo, ma egli ci ha risposto come quel cuoco il quale costumava scorticare le anguille vive: e’ ce le ho avvezze! E poi il ministro ci ha sbatacchiato su gli occhi lo specchio delle rendite dicendo: — Ecco qui, l’entrate crescono; ed è vero, perchè più stringi il torchio, più spremi sangue dal popolo stritolato.... ma badate bene, che alla fine del salmo viene il gloria. Certo, se tu abbatti la tua foresta in un anno solo, tu ne caverai costrutto maggiore che se tu la tagliassi regolarmente in dieci, ma allora con che ti scalderai dopo il primo anno? Con una secchia di acqua cavata dal pozzo. Mi si allarga il cuore quando volgo la mente ai tanti paduli che voi asciugherete, ma adesso che siamo qui in famiglia, ditemi: o non sarebbe stato meglio a pensare un po’ più che non intristissero quelli che erano di già asciugati? Le strade aperte in mezzo ai boschi, signori miei, sono spade a due tagli; e taglieranno a vostro scapito se non ci manderete prima forze sufficienti ad esplorarle, e dopo con savi provvedimenti non opererete in modo da far toccare al masnadiere, che troverà maggior conto a lavorare che a rapinare; e nel frattempo, per facilitare la intelligenza, un zinzino di forza non farà male a nessuno...
Qui a sinistra uno stridore di denti; a destra un bravo così potente da tirare giù le travi del soffitto. L’oratore continua...
— Chiedo scusa agli onorevoli miei colleghi di sinistra... io, lo sapete, fui sempre con voi a gridai-e: morte alla morte, e guerra alla guerra; mi ripiglio del lapsus linguae, tuttavia confessando che fra la morte allopatica di una dozzina di palle sul petto, e la omeopatica delle celle del carcere penitenziario, non mi sembra che ci corra un tiro di cannone. Se le promesse che hanno fatto alla Italia i ministri, che vi hanno preceduto, voi poteste vendere a una palanca la grossa, voi paghereste gli undici miliardi che ci troviamo di debito, e ce ne avanzerebbe. Volete sapere che cosa dice il popolo di voi? Io non ho soggezione a ripetervelo, a patto che non ve ne arrechiate. Il popolo con lingua dolosa dice: che la menzogna visitava spesso il governo subalpino, ma non ci aveva preso stabile domicilio; ci stava a locanda; fu il glorioso Conte di Cavour che ce l’accasò, anzi ce la impiombò come un cardine di porta, onde dopo lui la menzogna può chiamarsi un cardinale della monarchia...
Gli avversari del ministero giubilano, i suoi amici due cotanti più.
— La linguaccia del popolo aggiunge: le bestie fino ab antiquo ebbero sempre parte cospicua nella istruzione; ai tempi di Achille il ministro della istruzione era Chirone, mezzo uomo mezzo cavallo; oggi questa uguaglianza fra le parti non si è mantenuta....
Scoppi di risa da tutte le parti; l’oratore continua:
— Ed anco la parte del cavallo ha ceduto il luogo a bestie di qualità inferiore.
I nemici dei ministri vanno in visibilio, gli amici pel soverchio ridere piangono; l’oratore imperturbato seguita:
— E dice altresì, che per avere una idea giusta della grandezza dei nostri ministri di Stato bisogna guardarli col cannocchiale alla rovescia; mercè vostra, o ministri di tutti i luoghi e di tutti i tempi, i maligni detrattori della monarchia hanno potuto sbottonare dei re queste parolaccie: Dio, affermano le sacre carte, mutò un re in bestia; bella forza! Si aveva a provare, per far conoscere la sua onnipotenza, di trasformare un re in uomo, e allora anch’egli avrebbe veduto ch’era un altro paio di maniche....
— Onorevole signor deputato, la invito a tenersi al soggetto, lo interruppe il presidente.
— Scusi, io parlava di ministri, e mi pareva non dilungarmi dalla questione.
— Chiedo perdono, ella parlava di bestie....
— La è tutta una, così grida una voce stentorea dalle tribune.
— Silenzio! urlò il presidente. Silenzio! i bidelli. Silenzio! parecchi deputati, e fu. fatto silenzio; ma l’eco di cotesta voce durò a vibrare un pezzo dentro al cranio di parecchie eccellenze.
Il deputato dalla faccia vinosa, sempre con quel suo piglio beffardo, riprese:
— Signori, io era rimasto ai briganti; e però dico ai ministri, che se non penseranno sul serio alla sicurezza del transito, i malandrini, in grazia della opera vostra, si vedranno provvisto il mercato da svaligiare; e avvertite, che potrebbe darsi il caso ch’ei per ceppo vi mandassero i capponi a casa. — E di questo tenore cotesto cervello bizzarro continuò per parecchio altro tempo, mettendo sempre davanti con fino accorgimento obietti facili a vincersi, nel modo stesso col quale nei circhi dei giuochi equestri vediamo porre dinanzi al pagliaccio cinque cerchi impannati di carta o sei, perchè di rincorsa quegli li sfondi tutti, con meraviglia non meno che con diletto degli spettatori. Infatti il ministro, ripigliando mansueto il suo dire, passò in punta di piedi sopra la poca cura posta dai suoi predecessori a mantenere le conquiste fatte sopra i terreni paludosi, e deplorandola la scusò, notando esserne stata colpa i tempi grossi nei quali troppo maggiori cure dava la salute d’Italia, che quelle dei bonificamenti dei paduli non sono. Adesso la negligenza non avrebbe scusa; essere disposto a compire con tutta alacrità il debito proprio: lo consigliassero i deputati, lo sovvenissero; egli non desiderare di meglio; da tutto e da tutti potersi ricavare del bene, anche dalle vipere.
Questo ultimo tratto andava diritto a colpire il deputato dal viso di vinaccia, che pronto rimbeccò:
— Sicuramente, se ne cava il brodo, che fa bene ai tisici: — ma si chiamò soddisfatto, e finì col dire che, riponendo ogni fiducia nel ministro, avrebbe votato per la legge.
Il popolo ridendo di cuore esclamò: gli ha dato il pane con la balestra. Qualche destro disse: bravo! La sinistra, arrapinata per cotesto voltafaccia, come se a questa ora tanti suoi sozi (avverta il proto nel comporre questa parola a metterci una z sola) non ce la dovessero avere assuefatta, mostrò i denti e il pugno chiuso, come la la scimmia quando le rubano le noci.
Il pallone ormai è gonfiato: una sottile corda lo trattiene appena sopra la terra; l’orizzonte s’indomenica3 per fare onore al volo trionfale.
Chi è colui che sorge come vapore da paese guasto a spandere dintorno la desolazione e la morte? Egli ha nome Probo Seigatti. La natura, dicono, stava per fabbricare una nuova specie di avoltoio monaco, e già lo aveva quasi condotto a fine, quando, sul punto di agguantare un’anima di bestia qualunque e ficcargliela in corpo, sbagliò barattolo, e prese un’anima umana. Così nacque costui; ma egli, sentendosi a cotesto modo non finito, per completarsi tolse in prestito un altro paio di artigli, e se ne fece due mani; poi negò restituirli, opponendo la prescrizione all’uccello di rapina, che gli aveva dati in accatto. Nella prima gioventù il suo istinto di avoltoio lo condusse a ghermire quanto gli si parava davanti; mise gli artigli dentro la filosofia ed anche dentro la poesia, diede di becco nelle lingue, si avventò alla gloria, e stette a un pelo di cavarle gli occhi: ma, accortosi di breve come ben potesse sgraffiare tutte le cose buone ed oneste, non però staccare da loro il minimo brandello per proprio uso, prese a maledirle, e per giunta a struggersi d’invidia contro tutti quelli che, attendendo religiosamente allo studio delle discipline umane, ne riuscirono felici cultori. Allora la invidia, siccome costuma, piantò sopra la faccia di lui la sua bandiera colore di bile, ci risucchiò il sangue, nè si rimase finchè non l’ebbe convertita in insegna di morte. Se mai avveniva ch’egli stringesse la mano a qualche creatura, ecco tale c’insinuava un diaccio di tarantola, che per qualche minuto ci sospendeva la circolazione del sangue; se toccava fiori si seccavano; fiatoso aveva l’alito; l’anima due volte più: pesi come il piombo cascavano i suoi occhi colore di piombo sopra la gente; se accadeva che i fanciulli venissero a fissarli, fuggivano a rimpiattarsi dietro le gonnelle delle mamme: così i pulcini presentendo la cornacchia si rannicchiano sotto l’ale della chioccia. Probo viveva giorni fastidiosi, a sè grave, in abominio altrui, quando Abramo, medico e sensale ebreo, considerandolo un di male disposto della persona, lo volle visitare sottilmente, ma non ebbe mestieri specularlo a lungo, che, appena tocco il polso, esclamò quasi rapito in estasi:
— Dio di Abramo! Esulta, o popolo d’Isdraele; il tuo soccorso è nato: ecco il promesso Messia: poi lo baciò in fronte, e prosegui: ah! tu non sai qual tesoro tu racchiudi in te? Me fortunato, che venni eletto a rivelarti la tua missione sopra la terra! Da’ retta.... e ascolta nell’alto una voce che grida: tu sei il figliuolo delln mia predilezione
— Ma insomma, interruppe Probo impazientito, o Abramo, tu mi hai preso a godere.... ch’è questo che tu trovi in me?
— Trovo, rispose solennemente l’ebreo, che il polso ti batte con le pulsazioni dell’ottanta per cento.... sangue purissimo dell’usura.... nelle vene del Rothschild non circola migliore; e qui fece per inginocchiarsi dinanzi a lui.
Allora Probo Seigatti ebbe una visione: come dentro al raggio di sole che penetri per un foro nella camera oscura vediamo mulinare miriadi di atomi luminosi, così a lui fu rivelata la moltitudine infinita degli scrocchi, dei barocchi, dei retrangoli e dei lecchifermi; gli si schierarono davanti le specie innumere dei babbi morti, dei carrozzini, degli stellionati, dei finti telegrammi, delle false novelle, dei supposti corrieri; vide le coperte insidie, le segrete trappole, le suste, le carrucole, le corde, onde la rendita pubblica ed ogni valore si alzano e si abbassano: gli fu aperto il segreto di impietrire il sangue del popolo e darlo ad intendere diaspro; di congelare le lacrime e farle passare per pelle, di colare i gridi di disperazione traverso il vaglio di giornalisti traditori, e giurarli applausi entusiastici, anzi frenetici. Al fine della visione una lingua di fuoco gli cascò sul capo, e quivi cominciò a bruciare alimentandosi con tutto quanto avanzava nel cuore di Probo di palpito
che costui escogitò e mise in opera per procacciarsi moneta l’animo rifugge raccontare; da questo uno argomenta gli altri: si fe’ mezzano per provvedere danaro alle faine d’Italia, a&finchè, pagando il soldo ai nibbi stranieri, prolungassero il martirio di questa nostra povera patria.
Costui pertanto incominciò dal discorrere in succinto dei vantaggi che doveva partorire la nuova legge, confermando pienamente quanto avevano accennato gli oratori precedenti, poi sollevandosi a sfere più sublimi mise i deputati dentro alle future cose. — L’Asia, egli disse, voi lo vedete, sta in procinto di riversarsi sopra l’Europa per novelle vie, o piuttosto per le vie del vecchio mondo, rinnovate adesso; il Mediterraneo ritorna la fiera delle produzioni di tre parti del globo; molto, fin qui, averci sovvenuto la provvidenza di Dio, presidio immortale dell’alma madre Italia; ma avvertiamo, signori, non ne abusiamo, che a lungo andare sta la sentenza:
Chi si aiuta, Dio aiuta; ei si corruccia con gli accidiosi: ed anche quelli che ogni loro fiducia ripongono nella fortuna sogliono dire: ch’ella non si forma a bussare le porte chiuse; se non le trova aperto tira di lungo pel suo cammino. La nuova ferrovia mi sembra destinata a servire di spina dorsale all’Italia, lo molteplici ramificazioni che si partiranno da lei la muniranno di costole; il portentoso porto di Brindisi restituito alla pristina magnificenza; le Alpi Cozie forate, dopo le Marittime, e le Retiche, e le Giulie, e le Carniche, mentre laveranno la nostra contrada ad inaudita prosperità, faranno fede al mondo del genio italico, il quale, se per inclemenza di fato, durante molti anni, non parve fuora, ei si rimase sotto terra come il grano nei giorni iemali, vo’ dire per cestirvi e trionfare in primavera. Ed anco bisogna riflettere a quest’altro: l’America per lo passato fu uno dei gusci della bilancia dell’universo, ora però, estendendo l’azzurro della sua bandiera a nuove stelle, è chiaro che di guscio aspira a diventarne l’ago, però a noi altresì corre l’obbligo di levarci in alto per produrre lontano il nostro sguardo nei tempi. Signori, ponete mente; sentite voi lo strepito pari a quello di venti cascate di Niagara che precipitino dentro uno abisso di tenebre? Lo udite? Ebbene, sapete voi da che cosa nasce? Dal brontolio delle moltitudini che ripetono: la natura ci donò la terra come il sole: il sole tuttavia possediamo, perchè veruno ce l’ha potuto togliere; la terra no; ce l’hanno rapita; ripigliamola. Signori, diamo opera indefessa a studiare il come per noi si possano chiamare le moltitudini a parte del retaggio costituito dal Creatore alle sue creature, mercè la scienza ed il lavoro. Certo, le moltitudini strascinano la ignoranza come una palla di ferro ribadita al piede del condannato, ma ricordate che i pugnali di Spartaco e degli altri servi ribelli furono fatti col ferro delle loro catene; ora poi le moltitudini hanno interesse più di noi perchè il civile consorzio non vada a soqquadro; per noi il tumulto significa mezzo pane; pel popolo, fame intera; dunque mettiamogli in mano la scienza come una lucerna, affinchè s’illumini il sentiero e miri dov’abbia a posare il piede, per procedere con sicurezza non meno che con utilità. Lodando dunque con pienezza di cuore l’alto concetto di questa magnifica arteria di vita italiana, ed affrettandone il compimento con tutti i miei voti, siami, o signori, concesso separarmi dal governo intorno alla convenienza di costruirla piuttosto co’ danari stranieri che co’ nostrani. Io, che soglio aprire ingenuo e schietto quanto sento nell’animo, non mi sembra come ciò possa fornire ne anco materia di dubbio; perchè ecco in qual modo ragiono: noi prevediamo che questa impresa produrrà danno, ovvero utile agl’interessati; nel primo caso non sarebbe onesto, e lasciamo l’onesto a casa sua; non sarebbe di utilità alcuna precipitare in impresa ruinosa i capitali così nostrani come forestieri; — i forestieri, a modo che un dì ci chiamarono terra dei morti, oggi ci saluterebbero col nome di terra dei naufragi. Ma io pongo che abbia a giovare; e allora con qual consiglio, con qual giudizio faremo sì che, esclusi i cittadini, abbiano ad avvantaggiarsene gli avveniticci soltanto? Ognuno ripari all’ombra del suo fico e della sua vite. A questo arrogi: noi figli d’Italia, che tante fatiche durammo, tanti pericoli corremmo, tanti sacrifizi patimmo per rivendicare la patria dalla oppressione potica degli stranieri, soffriremo con animo quieto vedercela mancipia della tirannide economica dei medesimi? (Movimento prolungato su tutti i banchi e nelle tribune).
Intanto Probo stendeva e ritirava gli artigli, dai quali si vedevano pendere brindelli di pelle scorticata.
— Per verità, proseguiva costui, non può negarsi che taluno di questi ospiti morisse mentre stava dintorno a rosicchiare l’Italia; e certo gli eredi suoi non si fecero vivi per riscattarne le ossa, ma scesero giù di rincorsa a raccoglierne la eredità, se prima di morire i parenti non l’avevano fatta ricapitare a casa. Come! versammo fiumi di sangue per isfrattare di casa nostra inquilini molesti, ed ora non sapremo stemperare un po’ di calce per imbiancarcela? E nel presagio di vicini irreqiùeti, nemici naturalmente di pace, di cui parte intende a ricuperare una signoria, ed altri ad acquistarne una nuova, consentiremo noi che un nugolo di essi venga a studiare palmo a palmo le nostre pianure, i nostri monti e le nostre valli? Per me credo che se noi altri permettessimo questo, ci avremmo a proibire la via San Gallo, dove occorrono la stamperia del giornale la Nazione e lo Spedale dei Matti, perchè temerei che il dottore Bianchi mi agguantasse pel petto in vicinanza di Bonifazio, dicendomi: «Passi qui dentro per farsi raccattare due maglie al suo cervello.» Ma ora sento obiettarmi: quanto ella dice è oro rotto; ma in Italia ecci volere? A questa domanda io mi sento tutto rimescolare dentro, e rispondo: e come siffatto dubbio può uscire da labbri italiani? In qual modo l’Italia vinse la barbarie dei secoli? Col volere. Come la lunga, varia e greve dominazione straniera? Col volere. Come ricostruire la perduta unità? Col volere. Quando Umberto dalle bianche mani, affacciatosi alle Alpi, stese il suo sguardo per quanto è lunga la Italia, sclamò: tutta mia! tutta mia!4 E fu questo magnanimo volere, che trasfondendosi di secolo in secolo nei suoi non manco magnanimi nipoti, di concetto prese forma di realtà; ed in breve, così giova sperare, noi lo vedremo compito. L’astro di Casa Savoia non può fallire...
Applausi dalla destra, dai due ventrìgli ed anche dalla sinistra.
— Certo, in qualche contingenza, non saremo noi che lo impugneremo, anzi più degli altri ci sentiamo disposti ad affermarlo in buona fede, ci sovvenne la Francia, in qualche cos’altro la Prussia; forse... a squattrinarla ben bene, con le debite riserve e proteste, le agitazioni popolari, l’opera di taluno agitatore, di taluno letterato, di taluno filosofo... tarabaralla... un po’ di aiuto somministrarono pure essi, ma tutto ciò sarebbe stato uno aguzzarsi il cavicchio sul ginocchio, se non ci fosse stata una forza sapiente, la quale riunisse tutte queste verghe in un fascio solo, stringendole insieme con legami di affetto di gloria e di prosperità, e sè ponendo in mezzo come una scure per difesa... insomma, chi fece il fascio romano della unità italica? Gli è chiaro come l’acqua: fa la monarchia sabauda; ed io vorrei guardare in faccia chi si attentasse negarmelo qui.....
Il Ramassi, lo stesso Ramassi, che pure si reputa estratto essenziale della più abietta servitù che abbia germogliato al mondo, non potè stare alle mosse, e saltò su con otto o dieci destri, i quali tutti uniti insieme si misero ad urlare:
— La monarchia, sì, ma sovvenuta e protetta da noi.
I ventrigli destro e sinistro si mareggiano come una mazza di gelatina e mormorano:
— E noi? E noi?
I sinistri sbuffano come leoni e mugliano:
— E senza noi dove sareste voi?
Di qui uno schiamazzo, un frastuono, un rovinio da mandare sottosopra sala, banchi, deputati e ogni cosa; le guardie nazionali posero le baionette in resta; i ministri consultarono il ministro della guerra se fosse caso di ritirata; le signore ammannirono i sali, i cavalli stessi dipinti sopra le pareti pareva che, aombrati, stessero per iscappare; il presidente, venutogli meno ogni partito, si mise Nettuno in capo, vo’ dire il cappello, e la tempesta parlamentaria quasi per incanto tacque.
Probo si accorse avere commesso una papera; il soverchio aveva rotto il coperchio, però non gli parve di avere a gingillare, onde, agitando un fascio di carte, di subito con voce stridente riprese a dire:
— A cotesta gente di poca fede ecco come si risponde: voi non conoscete quali e quanti tesori rinchiuda in se l’alma terra che ci è patria.... in verità io vi dico ch’eglino non ponno venire superati, eccettochè dai tesori che si accolgono nel seno dei suoi generosi figliuoli (e qui si accennava alla parte dove il cuore ha la gente, avvertendo a non batterci sodo, per paura che dal suono non si accorgessero ch’egli era vuoto). Signori, io, subito dopo le parole bugiarde, odio le vane; le arti oratorie non appresi mai, e non le curo; fatti voglionci; di cose abbisogna la patria nostra; lingua corta mano lunga. Ebbene, io, pieno di fede come Moisè, ho percosso la rupe, e tale ne ha prorotto un trabocco di acque, che io mi sono trovato a mal partito per moderarne la copia. Ecco qui, io non dirò il morto è su la bara, bensì il vivo sta a cavallo: queste sono sottoscrizioni di cittadini italiani, i quali si obbligano ad accollarsi tante azioni per l’ammontare del costo della ferrovia, e più; queste altre sono fedi di deposito delle somme richieste per fornire la guarentia della puntuale esecuzione della impresa, presso i primi banchieri d’Italia; le quali, dove taluno non reputasse bastevoli, io, a nome dei miei rappresentati, dichiaro raddoppiare.
Parecchie voci rabbiose ecco si fanno sentire, chiedendo che si leggessero i nomi dei sottoscrittori. Misericordia! Pareva una seconda edizione dell’Esodo; ebrei tutti: fra l’antico e il nuovo Esodo la differenza questa, che nel primo fu Moisè il conduttore d’Isdraele allo acquisto della terra, nel secondo era Probo il condottiero del popolo ebreo alla conquista della ferrovia. Ma ebrea o no, la moneta è contata; e il busillis adesso sta nello esaminare, non già se sia circoncisa, bensì se tosata. A me non riuscirebbe descrivere la confusione e il turbinio delle diverse passioni dei deputati, quando Probo, orgoglioso, drappellando le carte, andò a depositarle sul banco della presidenza, come l’alfiere pianta la bandiera sopra lo spaldo della rocca nemica. Neè qui si ferma costui, che, tornato al suo stallo, muta di un tratto sembianza, e con gesto e voce umili adesso chiede scusa di abusare della pazienza della Camera; non poterne fare a meno; colpa dello argomento, non sua; rimanergli a dire il più e il meglio, ma questo poter fare in brevissime parole. Ciò detto, ecco leva la faccia minatoria e il braccio destro; la mano stringe in atto del fiocinatore, che ritto su la prua del palischermo agita il rampone per avventarlo nel fianco alla balena; ei l’ha vibrato, il mostro marino fulmina via pei mari, minacciando sprofondare nella corsa imperversante uomini, barche e nave; però invano, che il ferro gli s’incaverna nelle viscere, sicchè mano a mano perdendo balìa, è mestieri che si lasci rimorchiare a terra.
— Affermano altresì, continua Probo con baldanzosa sicurezza, che il capitale non ha viscere, che non conosce patria, che il banchiere si gode a ruzzolare la propria sostanza come lo scarabeo la pallottola di fimo, e in quella depone le sue uova per mantenere e crescere la specie... Sapete voi come si ha a definire siffatta zizzania? Insalata d’invidia condita coll’olio della malignità e l’aceto della nequizia....
— Uh! che sazievole, si attentò a bisbigliare Elvira; può dare due punti allo emetico; con tutti i suoi riboboli ben mostra essere un contadino del Valdarno di sotto o di sopra: a me sembra udire ragionare un diavolo del Malmantile...
— Silenzio! urlano arrovellati quanti si trovano nella galleria, lasci parlare; lasci la lingua a casa, o la venda al beccaio.
— Ecco il guadagno, brontolò Elvira mordendosi il labbro inferiore per la stizza, che abbiamo fatto a lasciare Torino; se la capitale dura anche sei mesi a Firenze, noi ci troveremo ad avere perduto fino l’ultimo briciolo della civiltà piemontese.
Probo non udiva il dialogo, e quindi continuava sereno:
— La campana si conosce pel suo suono; il mio è questo: ho l’onore di dichiarare nel nome della compagnia che rappresento, e nel mio, che noi ci obblighiamo a imprendere la costruzione della ferrovia di cui è proposito a venti milioni di meno, dico, con venti milioni di ribasso sul prezzo stabilito dal signor ministro dei lavori pubblici col consorzio degli imprenditori stranieri....
— Che! Che! Come? strillarono ad un punto Omobono ed Elvira con la caterva dei loro clienti, spendolandosi fuori dalle tribune. — Che ha detto? Quanti ha detto? domandava l’uno all’altro come dubbioso di avere male inteso; e i compari che si scoprirono parziali a Probo ripotevano in quilio: venti milioni! venti milioni! Sicchè gli echi della sala andavano ripetendo: venti milioni! venti milioni!
Probo scese dallo stallo per portare la stupenda obbligazione sul banco della presidenza. Il deputato Anussi, isdraelita e trapelo del Seigatti per le salite, nel contemplare il passo trionfale di costui verso il banco presidenziale con la dichiarazione in mano, quasi rapito in estasi esclamò:
— O bello! grande! A te gloria... a te onore... per vita mia, non par tutto Giuditta che torna in Betulia con testa di Oloferne in mano?
La testa tagliata di Oloferne, nel concetto del brigante ebreo, significava, già s’intende, la società composta di Egeo, di Omobono e compagni.
O di Egeo, che ne fu? Avete mai veduto fra le quinte di un teatro di marionette Tabarrino, dopo finita la sua parte, attaccato a un chiodo? Giù penzolone le braccia, rigido il corpo e il capo abbandonato sul petto. Tale era fatto Egeo, il quale però non dormiva, bensì mulinava se ci fosse verso di trovare per se una gattaiola donde salvarsi piantando gli altri nel bertovello.
Probo poi, se avessimo dovuto giudicarne dal celere muovere delle gambe, si sarebbe scambiato con Mercurio, o per lo meno creduto che Mercurio per quel giorno gli avesse dato i suoi talari a nolo.
— Ed ora, conchiuse tornato al suo posto, altro non mi resta che pregare la Camera e il ministero a volersi compiacere di eleggere una Commissione, la quale, esaminate le proposte da me fatte e le guarentie che l’accompagnano, riferisca se lo schema del mio contratto sia da preferirsi a quello esibito dagl’imprenditori forestieri; onde la Camera dopo matura discussione possa deliberare quello ch’è spediente a farsi pel maggior vantaggio dello Stato. Ma innanzi che io ponga fine al mio ragionamento, sento il bisogno di scaricare l’animo mio. Della mia proposta io confido che non possa ne deva arrecarsene alcuno; non il gruppo degl’imprenditori stranieri (e tu nota, amico lettore, e notalo bene, come oggi costumi ingenuamente appellare il consorzio dei banchieri gruppo, ch’è quel nome col quale significhiamo il turbine generato da venti contrari, che cielo e terra rimescola, e il mare sconvolge coll’eccidio di quanti ci si trovano a pericolare sopra) spettabilissimi tutti, dell’amicizia di parecchi dei quali altamente mi onoro; essi non hanno debito alcuno verso la nostra patria: per loro la impresa non presentava e non doveva presentare altro aspetto tranne quello di un utile impiego dei propri capitali; ora, se consideriamo la immensità della impresa, le vicende a cui andrà pur troppo esposta, le fatiche e le cure, i venti milioni ch’essi calcolavano di guadagnare non parranno per avventura troppi a quelli che hanno fiore di senno e pratica di simili negozi; e non mancherà chi li giudichi discreti, anzichè no. Per noi è evidente che la faccenda procede diversa: sicuramente noi porremo ogni studio per guadagnare, o almeno per non rimettere; e se questo non ci riuscisse, ebbene, fin d’ora ci professiamo lieti e contenti di potere aggiungere anco questo ai tanti sagrifìzi da noi patiti in pro di questa nobile patria...
La sfrontatezza (non la verecondia, la quale non ci bazzica più da gran tempo) la quale si trovava a stare nella tribuna della Camera sedata accanto a Elvira, sentendosi a coteste parole mareggiare lo stomaco, ebbe a fuggir via più che di corsa, ed avendo incontrato per le scale la impudenza sua sorella, che andava a darle la muta, le raccomandò che andasse su presto ad annacquare il vino a Probo, il quale lanciava all’aria campanili da mandarle fallite dentro una settimana.
— Molto meno, continua il Seigatti, deve e può arrecarsene il ministero, imperciocchè chiamati a serio esame le infinite comodità della impresa e i vantaggi portentosi, non ebbe a credere improvvido il largheggiare di un venti milioni agl’imprenditori: per me lo giudico addirittura provvidissimo; arrogi poi che a lui non erano state sottomesse profferte migliori nè in paese, nò fuori; onde la prudenza persuadeva che non si lasciassero scappare quello che avevano già in mano; per le quali cose, tutto bene considerato, se qualcheduno qui ha torto, confesso averlo io, perchè non fui lesto abbastanza a preoccupare il passo; ma voi, o signori, sapete timamente, che ve lo insegnò quel dolce di Calliope labbro, che fu messere Francesco Petrarca:
Rade volte addivien che all’alte imprese |
epperò mi passo fino ad accennarvi quali e quanti contrasti io abbia dovuto superare, quante opposizioni vincere; ma poichè adesso, per sommo della fortuna benefizio, mi sono, condotto in porto anche io, mi trovo disposto a perdonarle ben mille offese.
Che almeno qui da sè stessa discorda.
Ed ora concedetemi, signori, che pigli commiato da voi, soddisfatto di avere compito il mio dovere: dubitare che voi non adempiate il vostro è ingiuria che non può cadere in mente in chi tanto come io vi onora e vi stima.
E si assise. I deputati, ronzando simili alle api, gli fecero grappolo d’intorno; chi lo baciava in volto una volta; il Ramassi non si tenne pago se prima non gli ebbe baciato ambedue le guance, e gli volle mettere le mani su le spalle come fanno i cani barboni quando accarezzano i loro padroni; per ultimo gli diè con bel vezzo un colpetto traverso la pancia. Come! Il Ramassi, che non aveva anche digerito l’ultimo pranzo di Egeo? Proprio lui. Eutropio della ghiottoneria, dalle mense tramontanti si voltava alle levanti. Che colpa è in lui se la calamita ha mutato polo? Egli scusavasi conia sentenza antica: Deus fecit nos, non ipsi nos.5
Probo se ne stava umile in tanta gloria; aveva l’aria di un condannato di Sibari, dove per ultimo supplizio costumavano annegarlo sotto un cumulo di fiori: dopo Marat, passeggiato in trionfo per Parigi su di una seggiola, verun personaggio al mondo raccolse più di Probo grossi fasci delle amate fronde,
Onor d’imperatori e di poeti.
Non Mario, non Cesare, non Alessandro, non Garibaldi a Marsala, non Lamarmora a Custoza, e quasi, sto per dire, nè anco Persano a Lissa; dicono che egli stesso ne fu spaventato, temendo che l’ardore della apoteosi lo portasse troppo presto in paradiso...
Hai tu mai visto nel bel mese di maggio la passera delle Canarie in gabbia? Ella scende senza posa e salisce per tutte le cannuccie messe traverso alla gabbia, e scodinzola, e saltabella, e il capo volge a destra e a sinistra cantando a distesa; tu fa’ conto che questa passera coll’Anussi non ci è per nulla; tu lo miravi svolazzante per tutti i banchi dei deputati onde tenerli fermi, o per condurli al piolo; faceva davanti a loro la fiorata di promesse come i buoni cristiani la fanno di rosolacci, di ginestre e di pisciacani dinanzi ai preti, nella processione del Corpus Domini. E il povero ministro? Metteva proprio compassione, stava lì mogio mogio, in sembianza di cavallo accaprettato a cui il maniscalco dia il fuoco alle zampe per guarirlo dalle galle; pure, come colui ch’era formicolone di sorbo, mostrando lieto viso alla rea fortuna, con bel garbo disse:
— In conferma di quanto egli aveva avuto l’onore di esporre sul principio di questa seduta, dichiarava essere arcicontento che il suo schema di legge ne avesse provocato un altro, che pareva avesse a presentare maggiore utilità al paese; acconsentire volentieroso alla nomina di una Commissione, che pregava la Camera a volere ella medesima eleggere: persuasissimo che Camera e Commissione studierebbero e delibererebbaro a norma della scienza, coscienza, prudenza e previdenza di cui avevano somministrato tante e poi tante prove all’Italia, all’Europa e al mondo.
Applausi pochi, tirati con le tanaglie.
Egeo che pensò? Io l’ho già detto, simile alla marionetta attaccata a un chiodo, in sembianza faceva il morto, ma in segreto almanaccava a quale nuovo Santo avesse a votarsi; appena sentì tirarsi pel filo del capo, voltò su la faccia, e vista che era la mano del Seigatti, che maneggiava il fiio, diede in un salto, fece un trillo ed esclamò:
— Commissione cinque per cento, ed uno di senseria, mi vi professo vostro per di dentro e per di fuori:
Sarò quel che più vuoi, ancella o sposa.
E questo tanto più sinceramente egli diceva, in quanto che dugento mila lire di biglietti aveva di già sgraffignato ad Omobono. Certo di potestà diventava sbirro, ma gran parte di prudenza umana sta nello spiegare le vele secondo i venti; così almeno predicano i diplomatici.
Ciò che fa in primavera l’amore nelle vipere, l’interesse opera fra i banchieri; per amore e per interessi ambedue s’ingrovigliano a gomitolo, sicchè riesce più facile schiacciare entrambi ad un tratto: piglia un sasso e buttalo giù sul viperaio, e tu vedrai di qua schizzare capi tronchi, che dardeggiano lingue biforcute, di là code che furiosamente s’inanellano, e si raddrizzano, finchè, scemando adagio adagio cotesta agonia di rabbia, cessino affatto; così accadde dei consorti di Omobono e di lui.
Probo ed i compari suoi subito posero mano a colorire i concerti iniziati; egli convertì i vincoli in catene e le ribad’ai piedi, alle mani e al collo dei suoi fautori; le varie specie delle corruzioni ei praticò tutte; però bisogna dire che, tentato il terreno con la punta della pala, se non si rimaneva, ci sprofondava anche il manico; con alcuni ci vollero biglietti fiammanti (i danari sonanti e ballanti non costumano più), con altri bastarono promesse. Le arti della corruzione sono vecchie, le inventarono i preti e le insegnò la Chiesa: Geezia e Simonia; e questa mercè munus a manu et munus ab officio. Nobilmente plebei, quanti in cotesta assemblea andavano per la maggiore corsero al corno che li chiamava alla pastura. Probo Seigatti, col sacco delle ghiande sotto il braccio, fu Circe per loro; molti vinse la cupidità, ma troppi più il bisogno di calafatare la barca della domestica economia, sdrucita così, che le trombe non bastavano a cavarne l’acqua. Chi si accaparrò la carica di preside, chi fu consigliere, direttore e vice-direttore, chi ebbe a contentarsi dell’ufficio di consulente, avvocato o procuratore: insomma una fiera. L’Anussi, da quello ebreo sparvierato che era, volle cartelle per far quattrini subito; costui professava, più che devozione, fanatismo per la massima antica: meglio un uccello in mano che dieci in frasca. Scelto segretario della Commissione, egli compose un’ode pindarica in numeri arabici invece di versi. I giornali, ognuno secondo la sua specie, presero a stridere, a gracidare, a cantare, o con altre diverse voci a far sentire peani, ed epinici, sicchè per tutto cotesto anno rane, cicale, grilli, con altre parecchie bestie, sbalorditi, non si fecero più udire. Tutto cedeva, se mai ci era pericolo, stava nel troppo abbrivo; la cosa andò giù di schianto; ministri e deputati destri, sinistri e ventrìgli, votarono a gara. Ho sentito dire che taluno, nell’estro del suo entusiasmo, mettesse nell’urna fino a tre pallottole nere. Probo Seigatti, con immensa maggiorità di fave, era bandito imprenditore della proposta ferrovia: e la scattò di un pelo che non fosse proclamato padre della patria.
Ahimè!
Cosa bella e mortai passa e non dura.
Ho narrato la fine dei consorti briganti con Omobono, ma gli uomini cattivi come i serpenti velenosi non cessano mica per morte di travagliare il prossimo, e prova ne sia lo stivale del fittaiolo di Pensilvania, dove rimase fitto un dente di serpente a sonagli; oltre al padre, costò la vita a due figliuoli, i quali uno dopo l’altro calzatolo, n’ebbero scorticata la gamba, e quindi dopo breve ora morirono avvelenati. Omobono e il suo satellizio si posero il pensiero della vendetta come una corona di spine sul capo; sparsero da per tutto voci di corruzioni, e non dicevano in questa parte calunnia; di mance date; salari pattuiti; voti compri come polli al mercato; ma soli non facevano frutto, o poco; di corto ci si aggiunsero intorno tutti quelli che, abbindolati dal Seigatti, non ebbero nulla, e gli altri i quali, delusi, ebbero poco. Di fatti Probo, finita la festa, aveva levato l’alloro; di umile che fu, ora lo provavano insopportabilmente arrogante: dapprima
si mostrava lungo e disteso come lo spinoso bagnato dall’acqua calda, ed ora si raggruppava di minuto in minuto come cotesto animale, se ascolti latrarsi vicino il cane; e non aveva torto, perchè diversamente la sterminata famiglia delle fameliche formiche lo avrebbe ridotto pulito più di un Cristo di avorio. I giornalisti, il di che si trovarono davanti la greppia vuota, presero a punzecchiare ustolando per nuova profenda. La invidia andava attorno affannosa co’ mantici, accendendo il fuoco dove non ci era, e attizzandolo dove già era acceso, sicchè la voce si moltiplicò in voci, le voci diventarono schiamazzi, e salirono su allagando le aule della Camera, della Reggia, del Senato, dei Consigli e dei Tribunali. La marea del popolo, quando dice davvero, vince in furore quella dell’Oceano, e Probo ed i compari suoi, che da prima se ne ridevano, da un punto all’altro presero a battere i denti per la paura. L’Anussi non si pigliava suggezione di palesare spiattellatamente: gli è vero, e chi lo nega: l’amico Probo mi pagò un milione in premio delle mie fatiche, ma un milione di carta, bene inteso, sul quale, per ridurlo in oro, io scapitai due quinti; dunque, alla fine del salmo, mi entrarono in tasca circa seicentomila lire. O che vi par troppo? Le notti vegliate, i giorni travagliosi, gli studi, le fatiche, i pericoli gli avete fatti e gli avete sofferti voi? E poi ho io forse trappolato il Parlamento? Non gli
ho esposto il vero? Non mi adoperai per la buona causa? Perchè vi lamentate di gamba sana? Ah! voi pretendereste miglior pan che di grano? Badate che all’ultimo non vi abbiate a contentare di pane di vecce.
— Sì, gli rispondevano, ma purchè tu ci trovassi il tuo utile non ti saresti condotto in altro modo quando tu avessi avuto a fare nello erario uno sdrucio da misurarsi col metro.
— Sabato non è, e la borsa non ci è, rispondeva procace l’Anussi; intanto godetevi il bene ch’io vi ho fatto, e non mi rompete più il capo.
Quando poi vide che il cielo si chiudeva minaccioso dintorno, non istette ad aspettare lampo ne tuono, bensì messo ogni suo valsente in moneta, levò le tende e si ridusse in più sicuro porto. Sul partirsi d’Italia non esclamò come Scipione: ingrata patria non avrai le mie ossa, imperciocchè gli ebrei non conoscano patria, e delle sue ossa non avrieno saputo che farsene, nè anco manichi da coltello; — e neppure furono viste seguitarlo fremendo le virtù prische del latino impero; bensì, scodinzolando di qua e di là da vero nabisso,6 non rifiniva dal dire:
— sapete com’è? Chi l’ha a mangiare la lavi, e chi l’ha da friggere la infarini.
Probo anch’egli per un pezzo si raffidò nella utilità che in fine di conto aveva procurato al paese. Se da altre parti avesse scorticato, o scorticasse adesso, questa era faccenda da definirsi fra gli scorticati e lui; certo scorticatore egli, scorticati i soci; ma costoro non erano mica tanti santi Bartolommei; la pugna era fra pirata e corsaro; e tal guaina qual coltello, A chi lo aveva aiutato davvero egli aveva largito o poco o assai la mancia, perchè ogni fatica merita premio, e così facendo aveva soddisfatto alla legge divina ed alla umana: alla divina, dacchè il Vangelo comanda: pagate la mercede all’operaio; alla umana, ordinando il codice che si retribuisca al prosseneta la sua senseria, e non distingue tra sensali baroni o non baroni, deputati o non deputati: ora sta’ a vedere che andando a braccetto con le due leggi divine ed umana si abbia a mettere capo alla galera. I beveraggi profusi da me mi devono procurare favore e reputazione di generoso, non biasimo. E quando mai in ciò fosse stata colpa, ma che dico io colpa? ombra, velo, fumo di cosa menochè retta, la quale valesse ad appannare la squisitezza del senso morale, come mai marchesi, conti, baroni, gentiluomini tutti di cartello, antichi ministri, deputati che vanno per la maggiore li avrebbero ingorgiati a gola di acciaio? Alla più trista, questi dovranno per necessità essere i miei giudici; o staremo un po’ a vedere, se basterà loro l’animo di condannarmi pel boccone ch’essi masticano sempre! Puta il caso ci fosse colpa, non vi potrebbe essere giudizio, perchè i giudici per la massima parte sono miei complici. Qui la è chiara come l’ambra: dubbio non ci può cascare; vorrei vedere anche questa!
E se accadeva che simili fantasie venissero a frullargli nella testa quando stava in letto, si tirava giù il berretto da notte fino su gli occhi e si addormentava nella pace ineffabil del Signore,
Così Probo argomentava fondandosi sul dettato: cane non mangia cane; e sbagliò, però che dovesse all’opposto pigliare per regola di condotta l’altra sentenza, che i lupi danno addosso al lupo ferito e lo divorano. Quindi un bel dì si trovò accusato e tradotto alla presenza dei suoi complici trasformati in giudici. La natura, la quale diede pure ardimento allo scorpione e l’ira al verme, non corteseggiò niente di tutto questo con Probo: respinse da sè come una tentazione del demonio la idea di acciuffare taluno di cotesta nobile ciurma e rotolarlo giù nel rigagnolo a voltolarsi con lui; fermo nella sua ghiacciata abiezione, quanto più lo trafiggevano, ei rifaceva il conto su le dita dell’utile e del danno di rompere paglia con loro: «quando li avrò travolti nella polvere, forse ritornerò io sopra l’altare? Bisogna avvertire bene a questo, che se essi mi si mostrano in apparenza avversi, noil fanno mica per odio di me, bensì per amore di loro, e per bisogno di provvedere alla propria salute: adesso li sperimento serpi; se li irrito li proverò aspidi.»
Gli onorevoli farfanti, voleva dire giudici del Seigatti, altro non facevano che sbottonare contro le arti improbissime dei corruttori; ed anco, per non parere, non risparmiavano i corrotti; però su questi non si aggravavano co’ gomiti. «Che cosa è mai, dicevano essi, questo civile consorzio senza la buona morale? La stessa libertà fra gente fradicia dal mal costume diventa poste.»
Che Dio mi aiuti, parevano muli di condotta, i quali, essendosi affibbiata sotto il collo una sonagliera, ad ogni moto più leggero della persona tintinnassero alla dirotta: probità! probità! probità! Caso mai Socrate li avesse uditi innanzi di morire, ci si sarebbe confessato; e non che altri Cristo, se ci si fosse rinvenuto in mezzo, si saria picchiato il petto recitando il Confiteor.
Uno, che a giudicarne dall’arroganza sembrava dei maggiorenti fra loro, somigliante come due gocciole di acqua al geroglifico egiziano dell’uomo col capo di sparviere,7 colore di stovigli, dagli ugnoli uncinati, cui egli celava con solertissima cura sotto guanti neri, preso a squittire con voce di cagna infreddata:
— Qui non e’ è casi; bisogna venirne all’acqua chiara; buttiamo giù buffa, i rispetti mandiamoli a casa, e chi ne tocca le sono sue: non vi state a confondere, senza forti esempi la libertà non ci si fonda; il maestro della me’ bimba, don Trabocchetto pievano della Decipula, l’altra sera raccontava in cucina ai contadini il caso di Tito Manlio Torquato, senatore, il quale, udendo i legati della Macedonia mettere querela in Senato contro il suo figliuolo Decimo Silano per concussione nel governo di cotesta provincia, chiese ed ottenne giudicare egli solo la causa: due giorni dopo, udite le accuse e le difese, sentenziava: «essendomi provato che Silano me’ figlio abbia estorto danaro dagli alleati, lo dichiaro indegno della Repubblica e di me, e lo bandisco perpetuamente dalla mia presenza.»8 Silano per disperazione nella notte veniente si ammazzò. Capite? A quei tempi non si mondava nespolo. Né voi altri costà mi stato a belare come cotesti esempi si attagliuo a me, predicato da tutti l’uomo di ferro, perchè anche il mitissimo Gesù che cosa lasciò scritto nel Vangelo? Se il tuo occhio ti fa intoppare, cavalo e gittalo via da te, meglio è per te entrare nella vita con un occhio solo, che averne due e andare in perdizione. Dunque voi avete inteso: addosso ai ladri!
Al mal capitato Probo incominciò a entrare in corpo la paura per davvero; si spaventò di cotesto lustre, come il fanciullo impaurisce del compagno che in carnevale si nasconde la faccia dentro un testone di carta pesta; non ebbe più balìa di azzeccare due idee e di mettere insieme quattro parole; si diede a piangere, supplicò a mani giunte pei figli innocentissimi; costui era così avvezzo ad appropriarsi il bene degli altri, che gli parve furto perfino il risparmio dei venti milioni procurato allo Stato! Lo stomaco commosso della sua coscienza ribolliva furfanterie vecchie e nuove; e poi tremava gli rivocassero la concessione, onde avesse a rimanerne in camicia.
La stessa abiezione stette scandalizzata allo spettacolo di tanta viltà.
Quando poi incominciò a conoscere che cotesti neri nuvoloni si sarebbero sciolti in pioggia, e lui uscito pel rotto della cuffia di una censura, spiccò un salto per l’allegrezza, e fra un groppo di riso e un altro esclamava:
— O grullo! Tre volte grullo! non capisti di colta che se io cascava gli altri mi venivano dietro, perchè, o chi avrebbe finito di pagare a costoro il beveraggio? Diamo tempo al tempo: quando la pecora entra nella siepe, qualche bioccolo di lana egli è pur forza che ci lasci. Pieghiamo per raddrizzarci. Niente è perduto se rimane la cassa: renunzierò alla deputazione perchè io, se non la posso adoperare come canovaccio per ripulirmi il banco sudicio, non so che cosa farmene.
Probo, mirabile a dirsi! fini con lodare la prudenza dei complici che si convertirono in giudici, imperciocchè seguitando per cotesta via fossero giunti in certo modo a castrare il mal talento dei nemici suoi.
Per converso i suoi complici si tennero ottimamente edificati di lui, perchè lo ebbero provato uomo sodo e da potercisi fidare, ascrivendo ad astutezza e a prudenza quanto fu effetto nel Seigatti di codardia. Di ora in poi decisero di sostenerlo a tutto uomo, sicchè costui cascò davvero come l’antico Anteo, che da ogni stramazzone cavava argomento per rilevarsi più gagliardo di prima.
Ma siccome in queste faccende ci vuole sempre un becco emissario per iscaricare sopra la sua testa le colpe degli ebrei e dei sammaritani, e consacratolo poi agli dei infernali scaraventarlo in mare, di leggeri lo trovarono nello Anussi lontano, e in certa maniera si può dire che si proferiva da sè: quindi addosso tutti a lui; sinfonia d’improperi a piena orchestra sul giudeo; che più? L’ebreo Zinfi giunse perfino a dire ingenuamente:
— Non ci è casi, con questi ebrei non si può fare un pasto buono!
Così è, cotesti nobilissimi e rispettabilissimi furfanti, imitando il costume dei Curoti, piccliiavano sopra gli scudi menando un rumore d’inferno, onde Saturno non udisse i vagiti di Giove e non mangiasse anco lui; urlavano a squarcia gola, perchè il principe non udisse i gridi del popolo, e non risensasse, ed essi, se possibile era, quello della propria coscienza.
— Che cosa vuol’ella? Qui domando ad un lettore, che mi ha dato uno strettone alla falda del soprabito.
— Scusi, o che mi permetterebbe una parola?
— La ne dica anche dieci.
— Mi fa la finezza di abbassare il capo, perchè mi perito, e glie la vorrei parlare dentro un orecchio.
— Eccolo abbassato.
— Ma che sia benedetto, la le dice grosse come il cupolone del Duomo; o dove vuol’ella che abbiano la coscienza i Sorci, i Nici, i Rami, i Solicari, i Duecancri, i Garidi ed altra gente di siffatta risma? dunque la tiri un frego al grido della coscienza; lei ce lo ha messo per figura rettorica.
— Ecco, i’ ce l’ho tirato; ed ora con sua buona licenza posso ire- innanzi?
— La vada a buon viaggio, che San Giuliano e Sant’Antonio l’aiutino.
Dunque Probo fece come colui che si tira indietro per pigliare la rimossa ad abbrivarsi più innanzi; e gli riuscì proprio com’egli aveva pensato, e così a lui toccò aprirsi le porte del paradiso co’ grimaldelli, laddove altri ci ebbe a rompere dentro la serratura le chiavi di san Pietro.
Lui allietarono principesche nozze; duchi, marchesi, principi e baroni gli redimirono la fronte coi raggi della loro nobiltà, ed anco a lui il regio favore fece scaturire sul capo due corni luminosi pari a quelli di Moisè, e lo rese sfolgorante di luce propria.
In un caso solo gli sdrucciolò il piede, e fu quando si attentò avventurarsi a entrare da capo in Parlamento senza annasare prima se fumo di pudore fosse rimasto sempre là dentro. Si fece uno scappuccio, ma senza sgomentarsi ripose la bandiera nel sacco: non è anco tempo; a quest’altra bellissima ottava.
E la seconda volta procede con maggiori cautele. Annasò prima la sua città, annusò meglio il Parlamento; in quella trovò morto ogni senso di umanità, in questo svaporato qualunque famo di pudore. Di fatti in cotesta città prevaleva allora la setta di coloro i quali avevano segnato umilissima supplica, affinchè la oppressione degli stranieri vi si prolungasse. Poichè in questa vita non vi toccò verun castigo, nè manco la esecrazione del popolo imbestiato, possa Dio, giudice, serbarvi nell’altra i meritati premi!
La Camera dei deputati gli aperse le paterne braccia, quasi al figliuol prodigo; non celebrò la testa di famiglia ammazzando la vitella grassa, perchè vitelle nella Camera non se ne trova. Insomma, tante glie ne dissero e tante glie ne fecero, che egli, guardandosi allo specchio mentre si radeva la barba, talora interrogava se stesso: «ma che io sia diventato davvero un benefattore della umanità?» All’ultimo se ne persuase sul serio; allora prese a portare il capo su le spalle con la religione con la quale il prete sostiene il sacramento con le mani; e talora discorrendo delle sue fortune a tavola, come uomo convinto nell’intimo delle viscere, scappava fuori con questa sentenza:
— Se pari al sole ho comune con lui qualche macchia, come il sole dispenso luce e calore all’alma madre Italia.
Quelli che sedevano a mensa con lui esclamavano:
— Bravo!
Ed il Ramassi conduceva il coro.
Note
- ↑
Che ’n delitto nun è premeditato
Pelchè avanti lo feci anco avvisare.
(Neri Tanfucio, Son. XXXV). - ↑ Così, prima che su la tomba, fu scritto su lo stallo del Boncompagni, deputato, et haud memorabilis compare in Toscana di tutti i consorti e moderati, i quali ci hanno ridotti a tale, che di petto a noi Stenterello pare Agamennone.
- ↑ Indomenicare, vestirsi da domenica, acconciarsi pel di delle feste.
- ↑
Della reggia su la vetta,
Del palazzo sul pendio,
Canti pure la civetta:
Tutto mio! tutto mio!
(Guadagnoli, Poesie) - ↑ Tale mi fece Dio, non io
- ↑ Nabisso vale il ragazzaccio irrequieto, scombussolatore, metti male e fa male; l’enfant terrible dei francesi.
- ↑ Nei geroglifici egiziani, l’uomo col capo di sparviere sta a significare il re.
- ↑ Val. Max., l. V.