Il secolo che muore/Capitolo XV
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Capitolo XV.
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— Dei sei sepolti, tu ci hai narrato la via che li condusse al sepolcro solo di quattro; di due non sappiamo altro che sono là dentro: ora, questo metodo di far morire i personaggi del dramma prima che siano in certo modo vissuti davanti a me, io lettore giudico addirittura irregolare, ed anco un tantino sgarbato. Mi difenderò domani: intanto noto di passo che il camminare all’indietro non dovrebbe fare specie pei tempi che corrono.
Oggi, buona gente, che siete qui tratta dal desiderio di sapere il fine di Omobono e di Fabrizio, ve la dirò la storia dolorosa: statemi a udire, e certo per loro pregherete, se pure vi sia rimasto briciolo di fede nella vita futura.
Di colta vi devo avvisare che adesso mi tocca a mettere sopra la scena tre personaggi nuovi, se voglio tirare innanzi il mio dramma: e siccome voi sapete che non mi aiutano architetti, nè muratori, nè tappezzieri, molto meno pittori, sartori, scultori e barbieri, e mi tocca a fare tutto da me, così toglietevi in santa pace che io ve li descriva.
Il primo gli è uomo e per giunta cristiano, debitamente battezzato in Duomo, dov’ebbe nome di Egeo Bernazzi. Avendolo a descrivere, incomincio dal capo, membro, come ognuno sa, nobilissimo del corpo umano e domicilio legale dell’anima; in parte egli era calvo e in parte circondato da una maniera di siepe di stipa, pari a quella che costumano mettere intorno all’orto per difesa dei cavoli; presentava tre varietà di colori: ebano in cima, nel mezzo rame, in fondo argento, per la ragione che il parrucchiere traditore gli tingeva i capelli, dove ei, mirandosi allo specchio, se li poteva vedere, gli altri lasciava incolti, senza curarsi se dietro gli sonassero le tabelle: gli orecchi parevano lampioni di carrozza, e ci si notava la traccia del buco, perocchè un dì costumasse portare le campanelle, ed altresì sopra le braccia aveva dipinto a punta di ago tinta in inchiostro un cuore trafìtto e un Amore incatenato, ma non gli si vedevano, tenendo le braccia sempre coperte. Io credo che le ciglia, vergognando degli occhi, gli stessero calate per nasconderglieli. dacchè, quando acceso dalla rôsa di mordere li spalancava.... misericordia! — rassomigliavano, nati e sputati, quelli del pesce-cane. La scienza, lo dice lei, ha trovato che, novantanove su cento ci è da scommettere che l’uomo nasce dal gorilla o dall’urang; per me penso che, una volta rotto il diaccio e messo in sodo che i progenitori nostri furono bestie, si deve negare recisamente ch’essi appartenessero ad una specie sola, e sostengo che per parecchi di noi il vero Adamo dev’essere stato un pesce cane. La faccia di Siila, si legge, che pel colore rassomigliava ad una mora aspersa di farina, quella di Marat al fimo di vacca chiazzato di sangue, questa di Egeo alla vinaccia sbrizzolata a bottoncini neri, come un lavoro di mosaico; il naso, un grumo di mosto, e vi so dire che se lo avesse esposto all’incanto, gli osti se lo sarieno conteso a colpi di boccale per metterlo d’insegna alla cantina; la bocca dava la immagine vera di una gramola lasciata mezzo aperta con un lucignolo di canapa dentro; costui si lisciava, pettinava e ungeva perpetuamente, si lavava poco, sicchè gli durava perenne in cima alle ugne un orlo certo meno amabile, ma non però più nero del collarino che circonda il collo alle tortore.
Questo per ciò che spetta al corpo; e non è tutto, che il meglio resta per via; donde venisse pende incerto; taluno afferma di Nuoro, ed aggiunge che lo notizie storiche intorno alla sua famiglia ed a lui si conservano negli archivi del regno, per la ragione che anche gli archivi delle questure e dei tribunali criminali possono chiamarsi drittamente archivi del regno: giovanetto, dichiarò guerra agli orti, ai vigneti e a quanti panni le massaie ponevano ad asciugare al sole; cresciuto, la mosse ai pollai in concorrenza colle volpi; più tardi alle pecore in concorrenza co’ lupi solo, ai bovi; e questa volta fu agguantato, e se non era certo suo fratello prete, uomo tenuto in odore di santità, che multis cum lacrymis si gettò deprecando ai piedi dei giudici, dalla maglia detto articolo 609 del codice penale sardo non isgattaiolava. E questa flussione delle unghie non arrivò mai a guarire radicalmente, imperciocchè, riuscito deputato, non potendo sgraffignare altro alla Camera, intascava le candele; e siccome altro non sapeva che di tratto tratto schiattire in Parlamento: — Si faccia la luce! si faccia la luce! — un certo bello umore gli tagliò addosso questo epigramma:
Il deputato Egeo con voce truce |
A lui, come ai grandi uomini suoi pari, procede ingrata la patria; ond’egli, sullo esempio di Scipione, si tolse volontario esilio, negandole le sue ossa. Venuto in terraferma, incominciò col sonare il violino nelle osterie, ma poi tirata la somma trovò ad avere buscato più torzoli che soldi, smise, e, sovvenuto da un suo dotto conterraneo, dopo luoghi studi apprese i misteri tutti dell’arte del materassaio, la quale alfine gli increbbe, sentendosi chiamato dalla natura a tosare, non a battere la lana: gli riuscì entrare nella Borsa come custode; e qui parve proprio che la fortuna a un tratto lo tirasse su pel ciuffo, ed ecco come andò la cosa: un tal sensale di un tal quale ministro smarrì una cedola della Banca Nazionale da lire mille; ora il nostro uomo, il dì veniente, mettendo in sesto la Borsa, rinvenne il biglietto: egli si guardò attorno, si accertò essere solo, e, calandosi giù, e da sparvier lo ghermì e se lo pose in tasca. Ripostolo in tasca e continuando a menare la granata, mulinava fra sè: «Lo piglio o non lo piglio? Veruno ti vide; bisogno ne hai; dunque piglialo. Ma mille lire non mi fanno mica mutare stato: mille lire, a sfondare, mi frutteranno settanta, ottanta lire l’anno; non ci entra nemmanco l’acquavite e l’assenzio, mentre se lo rendo, mi acquisterò fama di galantuomo, la quale fama mettendo a interesse in mano alla furberia ci è caso che mi apra la strada a guadagnare mille per la via diritta ed altrettante per la via storta. Bisogna renderlo. Nella stagione dei ladri, cani e galantuomini costano un occhio». In questo modo l’anima o quella cosa in lui che aveva virtù di pensare, gli ciondolava per guisa che, immemore di quanto si facesse, stropicciò con la granata la faccia della statua marmorea del Santo Antonio Abate della Borsa, ond’ebbe poi a faticare un’ora per ricondurla alla sua candidezza di marmo. Conchiuse renderlo. Il ministro banchiere lo pigliò in grazia; quasi tutte le sue qualità gli piacquero, ma una riportò il vanto sulle altre, e fu la faccia, la quale, ormai tinta in chermisi, sfidava ogni assalto aspettato od improvviso della vergogna. Di corto, o fu ricco o n’ebbe il nome; lo tirarono su cavaliere, e naturalmente poco dopo commendatore; all’ultimo deputato. Deputato? Sicuro, e non era dei peggio; e bisognava sentire quale manifesto composero per lui i comitati dei collegi elettorali! Ma che virtù di olio di merluzzo, di orzo tallito, di revalenta arabica, di pillole di Holloway.... anzi di iniezione Brou? Tutta questa roba non gli legava le scarpe. Donde dunque tanto estro più che pindarico? Ecco: Egeo aveva promesso ad ogni membro del comitato elettorale un bel paio di candellieri dì argento se fosse riuscito eletto; fu eletto, e li ebbero: per mala ventura successe che un elettore campagnolo tenesse al suo servizio una contadina, la quale, come le sue consorelle, era fornita di mani atroci; costei, nel proposito di farsi onore, prese a strofinare un candelliere alla disperata, sicchè in breve se lo vide diventare sotto vermiglio; la donna rimase senza sangue addosso come colei che temè averlo scorticato, quindi ricorse al padrone, domandandogli perdono per avere levato la pelle al candelliere. Il dabbene elettore non capiva; visto il candelliere comprese la ragia. Credete voi che l’elettore tacesse il tiro furbesco per non restarne svergognato? Oh! il governo costituzionale ba educato ed educa gli italiani negli esempi della costanza romana; ribolle sulla virtù latina, fitta e granita come il fieno, il trifoglio e l’erba medica in primavera; l’elettore si sentì il coraggio di citare il deputato Egeo dinanzi al tribunale per sentirsi condannare a pagargli in buona moneta il prezzo del voto.
Come l’andasse a terminare non mi è noto; credo che il tribunale, non potendo uscire dalla sua perplessità per giudicare chi fosse il più furfante dei due, l’elettore o l’eletto, imitasse l’Areopago, il quale, non potendo condannare la femmina, che nell’impeto del dolore per la strage del suo figliuolo di primo letto, perpetrata dal secondo marito, questo uccise, ordinò all’accusata si ripresentasse al tribunale di lì a cento anni.
Ladri! E chi è che dice ladri? Coloro che appiccano questo brutto titolo ai signori ministri non se ne intendono. Di fatti, sai tu, lettore, rubare che sia? Te lo dirò io: la scienza definisce il furto una contrettazione di cosa dal luogo a quo al luogo ad quem con animo di appropriarsela.1
Ora, vi pare egli possibile che i ministri ed i cozzoni dei ministri vogliano prendere di queste gatte a pelare? Le sono calunnie prette. Dunque i ministri non ci è caso che si avvantaggino su quel del pubblico? E ti basta il cuore a sostenere di questa ragione enormezze? Rispondo a cui mi interroga: io non ho detto questo: ministri io maneggiai di due qualità, patrizi e plebei: voraci i primi, i secondi no, e ciò perchè quelli avvezzi ai bocconi grossi, e a mangiare da due ganasce, questi alla parsimonia e a brucare in punta di labbra: adesso però non entrerei mallevadore che parecchi democratici di marmeggie fossero diventati avoltoi. L’appetito viene mangiando.
Il ministro pertanto (importa metterlo in sodo) non contretta dal luogo a quo al luogo ad quem; il ministro piglia parte della senseria negli imprestiti pubblici, e non se ne vergogna, perchè nel regno sardo ab antiquo costumava così, nè uomo poteva malignarci su, imperciocchè i principi di Savoia, per quello che sembra, avendo eredato da Gesù Cristo non solo la santa sindone e la corona di spine di Gerusalemme, ma i chiodi altresì, si sieno trovati sovente a friggere con l’acqua, e perciò nel bisogno di pigliare di tratto in tratto cinque o sei milioni a usura, per isconficcarseli da dosso: questo veramente non si può dire pagare i debiti, ma sìi di cinque o sei bullette farne un bullettone solo; ma non rileva. Ora cotesti principi, come assoluti, essendo allora padroni di tutto, non solo senza biasimo, anzi con lode di cortesia potevano largire ai ministri il paraguanto pei denari provvisti. Nel governo costituzionale all’incontro è un altro paio di maniche, dacchè i denari non si procurino già pel principe, ma sì per lo Stato, di cui la sovranità componendosi di tre membri, egli è mestieri che tutti e tre si trovino d’accordo a donare come a pigliare: accordo facilissimo nel secondo caso, quanto malagevole nel primo.
Almeno certo ministro di finanze la intendeva a questo modo, e il suo concetto volle scrivere a guisa di prefazio nello imprestito conchiuso durante la sua amministrazione pei bisogni dello Stato, ma un famoso ministro statuario e stradaiolo2 venuto dopo di lui, che diede le mosse ai tuoni, fattosi presentare il libro, letta e considerata la prefazione, si fregò sorridendo le mani, e disse: a questo oremus starebbe bene mettere in fondo, per amen: «imbecille».
Il ministro sgallina negli appalti, intinge nelle forniture, rosicchia nelle ferrovie e in simili altri negozi; ma non piglia mica mance. Dio ne guardi! Da ciò lo tengono lontano la coscienza, e un poco altresì la memoria dello scappuccio accaduto al Teste, ministro di quella perla di re che fu Luigi Filippo. Il ministro, tutto al più, pregato e ripregato, consentirà a stento che nei consigli di amministrazione entrino fratelli, figli, generi, cugini, biscugini e cognati, insomma tutti i suoi congiunti in linea retta e trasversale fino al quarto grado inclusivo: ma, a fine dei conti, o che ci ha da fare egli? Forse non sono essi padroni di governarsi a modo loro? Il ministro potrà, alla più trista, indursi a vendere ai concessionari una sua boscaglia, dieci volte più di quello che costa, ma gli è chiaro come l’acqua che questa vendita non entra per nulla nella strada ferrata, nè manco come appendice o corollario; in vero, la macchia è di legno e la ferrovia di ferro; e poi, o chi ha vietato mai, e volendo lo potrebbe, ai ministri di fare i loro affari e farli bene? Le sono grullerie da dormire ritti.
Il ministro altresì, in capo al giorno, ha mestieri di sollevarsi un’ora o due: o chi sarà l’indiscreto che ci trovi a ridire? Verso la mezzanotte egli se ne va a geniale ritrovo di qualche giocondo uomo, ed anche di gioconda femmina, e quivi si lascia un po’ andare. Diavolo! L’arco teso sempre si rompe. Certo cotesti uomini e coteste donne (io non lo vo’ nascondere) non erano stinchi di santo; tutt’altro, ed egli lo sapeva; ma in chiesa co’ santi, e alla taverna coi ghiottoni: a lui bastava gli ricreassero lo spirito. Colà, di mezzo allo stravizio ed all’allegria, scappava talora dalla bocca al ministro uno enimma, un geroglifico, una sciarada, che cotesti sparvierati chiappavano a frullo tirando a spiegarla, e le più volte ci davano dentro; tanto la fortuna li secondava o l’ingegno. Dove mai, puta il caso, avessero indovinato che stava per aria qualche grossa notizia politica, la quale, appena pubblicata, avrebbe avuto virtù di alzare il prezzo della rendita pubblica, eccoli per tempissimo affacciarsi in Borsa e quivi... sentiamo un po’ se cogliete in quello che ci andavano a fare. — A comprare, voi rispondete, e v’ingannate. — No, signori; ci andavano a vendere. Sgomentati, sgomentano: la rendita tracolla: gagnolano e spariscono; altri subentrano, paiono diversi e pure sono fili dei medesimi ragnateli: questi fingono svogliatezza e paura: il numero dei venditori, pecoreggiando, cresce, e nell’orecchio si vanno mormorando a denti stretti: meglio è cascare dalle scale che dalla finestra; e ti sbatacchiano in faccia la rendita a gran rinvilio.
Ecco l’ora del pescatore che tira in terra le reti; ecco l’ora che l’uccellatore getta il giacchio; ecco l’ora del pollaiolo, che, recatesi nella mano manca le zampe della gallina, le stringe il collo colla destra e tirando forte la sbalestra nell’eternità; ecco l’ora che il prosseneta infila nello stidione i giocatori di Borsa per arrostirli; ecco che li ha begli e arrostiti.... — Non aggiungere parole; io ti tappo la bocca; tregua alle prediche; esse non riscattarono mai un’anima dalla servitù del demonio nè da quella della Borsa. — E poi la Provvidenza ha stabilito ne’ suoi eterni decreti che i pesci si abbiano a pigliare mai sempre con gli ami e gli uomini con gli inganni. Con l’arte e con l’inganno si vive mezzo l’anno; con lo inganno e con l’arte si vive l’altra parte: sentenza d’oro, da scriversi in oro sul frontone delle chiese, delle reggie, dei Parlamenti, dei tribunali, e, per istringere tutto in una parola, sopra le porte di ogni città addirittura.
Gli uccellatori rendevano conto della preda fatta al ministro, il quale, mentre riscontrava i biglietti di banca, borbottava: prima pars mihi nominor quia leo, e si sentiva rimuginare in corpo una voglia terribile di andarsene fino in fondo alla parlata del lione; ma, pensando poi che la medesima storia si aveva a riprincipiare il giorno appresso, e non poteva fare a meno di loro, spartiva in modo da mandarli contenti. — Ebbene, o che questo si può dire rubare? Dov’è, dov’è, la contrettazione dal luogo a quo al luogo ad quem prescritta dal giureconsulto Paolo, come costituente la natura del fuarto? Sfido qualunque procuratore del re a trovarcela dentro. Anco denunziando il caso al Parlamento, forse questi lo qualificherebbe indelicato, e avrebbe torto marcio, imperciocchè delicatezza significhi morbido, liscio e soave al tatto, qualità tutte che assai si confanno alle mammelle delle fanciulle, non già alle mani dei deputati; molto meno a quelle dei ministri, le quali, per governare valorosamente, vogliono essere aspre e forti, e soprattutto indelicate.
Comecchè Egeo, pari alla iena, si cibasse co’ rilievi del lione, tuttavia dei danari ei ne raccolse, e di molti: ma la farina del diavolo se ne va tutta in crusca. Appena costui aperse l’anima ai raggi del sole della galera a vita, i sette peccati mortali (altri dice otto; contentiamoci di sette) gli ci entrarono dentro con la foga dei contadini, quando, udito l’ultimo tocco che chiama alla messa, prorompono in chiesa: però tre soli rimasero padroni del baccellaio cacciandone via gli altri a perticate; i tre rimasti in casa furono gola, avarizia e lussuria.... Già si sa, la parca torce per ordinario le vite umane con questi fili a tre capi. Dell’avarizia parmi avere detto assai; però, posto in sodo che avarizia vera va composta di due parti uguali di cupidità per acciuffare, e di strettezza per tenere, bisogna dire che in lui la prima maggioreggiava assai più della seconda; anzi questa, talvolta trasportata dall’ardore di passione più veemente di lei, pigliava sembianza di prodigalità. Così vero questo, che nella spesa della mensa non intendeva risparmi: niente gli pareva buono se non costasse un occhio, e nulla gli sembrava cattivo di quanto la fama predicava rado: vizi vecchi di gente corrotta; usanze consuete a coloro che si cibarono troppo più tempo che non vollero di polenta di meliga. Volle altresì magione nobilesca e suppellettile sontuosa: l’arme sua da per tutto; cioè quella che gli fece un pittore da insegne di osterie per venti lire. Egli poi architetto, ornatista e tappezziere: una variante sguaiata della pianta di Omobono Boncompagni, il nostro amico banchiere. Costui aveva conficcato sopra il suo palazzo l’architettura come Cristo in croce; ci spasimava da fendere il cuore a chiunque l’avesse veduta: le belle arti rinchiuse a mo’ di belve feroci dentro il suo albergo, ci si arrapinavano, e in perpetua lite si bisticciavano fra loro: le mobilie di foggie diverse affastellate in mucchio ti davano più che altro testimonianza di saccheggio: pochi i servi e vestiti a nero, ed inguantate le mani di bianco, ministranti ad un padrone che le aveva perpetuamente sudicie.
Così pure negli amori: mandava al mercato per gli amori come pei polli: femmine non illustri per infamia scartava e le mutava spesso: poneva grandissima parte di reputazione comparire in pubblico con cavalli diversi attaccati alla sua carrozza, e con donne diverse attaccate al suo braccio.
Fra le pitture di Pompei ne occorre una assai festevole in vista, la quale rappresenta una jpoìlaiola che vende amorini raccolti dentro una stia, ed è nell’atto di profferirne uno agguantato sotte l’ale, a modo di piccione, allo avventore: ora ciò che un giorno fu argomento di gioconda piacevolezza per un pittore, alunno non meno di Apelle che di Anacreonte, fra noi divenne lurida realtà; e le pollaiolo, non come in antico pei mercati e su i trivi, ma in casa, in chiesa, nei teatri e pei fóri; nè esse femmine volgari o grossiere, bensi gentildonne nudrite co’ profumi della fina educazione. Comunque sia, il nostro Egeo sembrava che, toltosi dal culto di Venere peribasia, avesse gettata l’ancora accompagnandosi con una amante sola; e di vero egli stava attaccato ad una donna, ed una donna a lui, con l’affetto di due fuste che si fossero uncinate per darsi l’assalto.
Dell’uomo vi ho parlato con amore; adesso della donna. Nella prosodia latina corre la regola: derivata patris naturam verba sequuntur, nella prosodia delle famiglie la regola muta, e dice così: — derivatae matris naturam filiae sequuntur; ovvero tal figlia qual madre; e se falla, segnala col carbon bianco. Prosapia patrizia; figlia unica e perdutissima di madre perduta. Il padre suo ne perì di crepacuore, accarezzando unico conforto la speranza che il sepolcro seppellisce con lui la sua vergogna, e ne anche di questo gli volle essere cortese il sepolcro. — Un gentiluomo proprio di sangue purissimo celeste appetì la giovanetta, e la ebbe, che a braccia quadre glie l’affibbiarono i genitori, come ortolano che scaraventa la pianta dello aconito nell’orto accanto. Al marito marchese, poichè l’ebbe provata, non parve esperta a bastanza, onde per compirne l’allevamento l’allogò in un sodalizio di meretrici illustri3 affinchè si esercitasse. Quivi ella apprese dall’arte la pratica e la scienza, e tuttavia, non soddisfacendo le voglie del troppo esigente marito, si separarono di amore e d’accordo. — Egli, inquinandosi in ogni più vile turpezza, si disfece in tabe; ella, furiando nelle libidini, passò in più mani, che non corse mai fiaccola nei lupercali di Roma, e se ne compiacque. A cui leggendo siffatti vituperii, biasimando, dicesse: cotesti sono ditirambi di mente depravata, risponderò con le parole di Tacito, allorchè scrive di Messalina:
«Veggo che parrà favola, che persona ardisse cotanto in città, che tutto conosce e nulla tace.... ma io, senza punto aggrandire, dirò quello che ho letto ed udito dai vecchi»4.
Ed io correggo: — quello che ai tempi miei come cosa notissima l’universale affermava e da veruno negavasi.
E tuttavia, comecchè le levassero i pezzi da dosso dietro le spalle, davanti la incensavano sempre: in pubblico ognuno avrebbe schivato darle braccio, mentre in privato facevan calca di baciarle la mano, e ciò perchè ella continuava a godere credito, o dava ad intendere goderlo. Lo interesse altrui metteva lei nel lambicco; ella dal canto suo ci metteva altri, e ognuno si industriava a stillarne più utile che poteva. L’affetto un dì legava con lacci di rose, ma l’interesse oggi stringe con le manette peggio di una guardia di pubblica sicurezza.
Costei essendo capitata nelle mani di certo famoso ministro, questi, tenutala per alcun poco di tempo, la rimandò dicendo: «Bella mia: conosco che tu possiedi tutte le virtù teologali, e forse avrai ancora le cardinali, ma se tu duri a trattenerti in casa mia ancora un mese, tu me la riduci in cenere.» Così avarizia vinse libidine, ed il conquasso di due vizi venuti in urto fra loro parve virtù. Anco Demostene avendo domandato a Laide quanto faceva i suoi abbracciamenti ed uditolo,5 disse: «Non pago tanto caro un dispiacere.» Gli avvocati furono sempre uguali; non la coscienza, ma il prezzo avvertì costui della turpezza dell’azione che voleva commettere.
Forse veruna femmina al mondo testimoniò meglio di Elvira il simbolo significato anticamente dalla pittura di una donna, la quale nella destra portava una fiaccola e nella manca un gancio, per dimostrare lo schianto della casa donde usciva e la devastazione di quella dove entrava; nei luoghi pestati da lei non cresceva più erba; ella distruggeva per vanità, per esercizio di tirannide, per malignità di natura, per voluttà, per leggerezza; breve, la distruzione era l’aria respirabile della sua vita. Come mai Egeo si fosse tirato addosso cotesto unguento da cancri, è facile immaginarlo da quanto ho avvertito; perchè non se lo levasse dattorno.... non ci era riuscito, e ormai non poteva farne a meno; come l’ellera fa ai muri, lo scassinava, ma ad un punto lo reggeva.
E poichè ella era più furba di un famiglio dell’ Otto, certo dì, passandosi in rassegna davanti lo specchio, ebbe a persuadersi che volendo continuare in cotesta vita un pezzo le faceva mestieri di coadiutore: così i provvidi capitani di lungo corso si muniscono per ogni fortuna di doppio apparecchio, di alberi e di vele. Non ebbe a travagliarsi troppo tempo per trovarlo anco superiore alla speranza: le occorse di colta una giovane bella, alta, bionda e di gentile aspetto: le sfolgoravano gli occhi colore del cielo, ma le ciglia pudibonde glieli velavano in parte, come la mano di Psiche la lampada, allorchè, in mal punto curiosa, mosse a vedere com’era fatto Amore. I cieli (e dichiaro così, perchè davvero io non saprei a cui altro attribuirlo) l’avevano dotata di un dono insigne, che io per me antepongo allo stesso cinto di Venere, ed era la facoltà di arrossire a suo piacimento fino alla radice dei capelli; la voce le spirava dalle labbra fragranti, soave come l’alito vespertino in mezzo ai fiori. Insomma, per farvela breve, sapete che cosa io vi ho da dire? Che se l’arcangiolo Gabriele fosse stato spedito a lei per annunziarle imminente la calata dello Spirito Santo, si sarebbe peritato — seppure non avesse creduto meglio di fare per sè. — A giudicare di colta, o al lume dei doppieri, tu le avresti dato venti, o tutto al più ventidue primavere, ma sopra il suo cuore era passato il freddo di ben ventiquattro inverni.
Donde mai l’andò a scovare la nostra Elvira? Dal limbo forse? Dal purgatorio? Scappucciatevi e riverite. Elvira, la quale talvolta si sentiva pungere da un bruscolo di carità nel cuore, come da un bruscolo di paglia negli occhi, visitando gli infermi all’ospedale, la rinvenne quivi giacente in balia di una Dea.... Per guarirla non ci fu altro rimedio che raccomandarla a un Dio, il quale, trasfondendosi in lei, le ridonò salute. Presela in casa, la rimise a nuovo, e così bene le venne fatto che insuperbì di cotesto restauro, e sulle prime caldezze si decise di darla ad intendere per figlia; pensandoci meglio non ci trovò il suo conto: cugina era poco: si fermò a nipote, figliuola di non so, e non lo sapeva ne anch’ella, qual fratello, morto alla battaglia di Novara; così le parve che stesse a pennello; del resto va da sè, che la fanciulla era nubile e partecipe dello attributo largito da Maometto alle Uri, voglio dire di rinnovare la propria verginità ad ogni quarto di luna.
Adesso che da me sono state descritte le nuove dramatis personae, sta a loro uscire dalle quinte e recitare la parte.
Le cose della ragione di Omobono Buoncompagni e C. andavano troppo peggio che zoppe; a tenerle su ritte non era bastato il barbacane dei biglietti falsi, imperciocchè ormai non se ne sarebbe potuto, senza manifesto pericolo, mettere in commercio copia maggiore. Omobono, quando prima s’ingaggiò in questo partito disperato, sapeva ottimamente che dopo un certo tratto la via si biforcava in due, di cui l’una poteva mettere capo ad una contea, e l’altra alla galera: adesso, tentato per bene il terreno, gli pareva essere senz’altro entrato su quella della galera. Nella tempesta si prova il pilota; ond’ei pensa e ripensa, gira e volta, sbirciala per la diritta e alla rovescia, ecco gli piove una ispirazione dall’alto.... Se arrivasse a comporre una società in accomandita per la costruzione di una strada ferrata! Se la concessione dal governo di fabbricarla! Niente sarebbe perduto, all’opposto salvata ogni cosa: nuovo olio sarà infuso nella lampada, la casa sua rifulgerà di raddoppiato splendore: la massa dei biglietti falsi si dileguerà come nuvoletta di estate nell’orizzonte purificato: dunque qui dentro tutti, coll’anima e col corpo; mano ai ferri subito.
Chi legge facilmente comprenderà come Omobono dovesse conoscere Egeo, e di che tinta! Si amavano svisceratamente, giù per li come Federigo II Maria Teresa, di cui la passione, secondo quello che egli stesso diceva, non si sarebbe quietata se prima non l’avesse veduta ignuda. Adesso trovaronsi insieme; accordaronsi; con forze unite stabilirono proseguire un fine comune, pure guardandosi le mani. Dopo lunghi ragionamenti gittarono le basi della grandiosa impresa come uomini di siffatti negozi intendentissimi; in seguito aggiunsero alle conferenze il Nassoli, il nipote di Omobono ed Elvira, disegnando meglio il concetto; poi presero a colorirlo: ad ognuno fu assegnata la sua parte; diviso il lavoro; pattuito il guadagno; descritte le vie da correre, le terre da coltivare, gli uomini da sfruttare, gli aiuti da conseguire, le reputazioni da impiegare; i banchieri co’ quali negoziare e dividere.
Incominciarono col rendersi per via di doni favorevoli quanti stavano attorno ai ministri, e di leggieri ci riuscirono, imperciocchè anco gli Dei, antichi sieno o moderni, si rallegrano per le offerte dei mortali; ed anco Giove viene pei doni propizio, assicura Omero; e nella Genesi si legge che Dio s’impermalì contro Caino, però che questi gli si mostrasse meno generoso di Abele. Del Dio romano io non parlo nemmeno, che i preti cattolici senza tante invecerie gli hanno appiccato al collo il cartello con la leggenda: point d’argent, point de Dieu. Ora, se anco gli Dei agguantano i doni a due mani, dovranno gittarli fuori di finestra i semplici mortali?
Chi tale pretende non so ne intende.
Nè rimasero trascurati gli imi, i quali a prova sperimentiamo spesso più utili dei potenti, e con poco mantengonsi bene edificati; i pesciolini di vasca corrono a frotta ai bricioli di pane, i tozzi li spaven. tano. Allo sforzo continuo degli interessati irrequieti a soffiare co’ mantici in mano, il metallo prese a squagliarsi.
Il ministro più che volente era entrato nel disegno; se repugnante, sarebbe stato lo stesso, che lo avrebbe travolto senza rimedio lo impiegatume, ai tempi nostri con reo nome, convenevole alla cosa, appellato burocrazia. Questa cancrena degli Stati ti avviticchia e ti attortiglia, non già terribile quanto i serpenti venuti da Tenedo Laocoonte e i suoi figliuoli, bensì a modo di lombricaia schifosa e invincibile.
Io non so se gli impiegati convengano la sera insieme a pregare, ovvero ognuno preghi da sè; fatto sta che tutti, prima di coricarsi, si genuflettono accanto al letto, e con le mani giunte a punta di lancia, sicchè sembra che vogliano sfondare il cielo, cantano sull’aria del Veni Creator Spiritus una invocazione al Genio dei manifesti teatrali, dei discorsi della Corona, delle esposizioni dei direttori delle società in accomandita e dei programmi ministeriali, affinchè si degni stabilire dimora permanente in Italia, e sì gli dicono:
«O nato da un tagliacantoni in Ispagna, battezzato in America, dove gli fu compare Barnum, e nudrito da una spaccamonti in Francia, deh! non aspettare (poichè la prima volta hai potuto scamparne per miracolo) che i prussiani ti attrappino la seconda e ti taglino l’ale: che cosa diventereste allora? Un passerotto saltellante per casa destinato a cibarsi di pappa ed a morire del male del calcinaccio; passa le Alpi e vieni ad abitare fra noi; in Roma ci puoi stare anche tu; noi ti aspettiamo a braccia aperte: quasi vergine qui troverai il terreno: insegnaci tu a ridurre a cultura le immense pianure della bugiarderia e la virtù dei concimi della sfrontatezza e della impudenza: portaci di quel prezioso seme di balordo, che, sparso a tempo con le regole delle società in accomandita, fa, come abbiamo udito da persone degne di fede, delle cento per uno: ammaestraci a segare la messe degli azionisti babbei. Scendi, o invocato, scendi. Il genere umano non si mostrò mai ingrato ai suoi veri benefattori; mira! Trittolemo, che insegnò ai mortali l’arte di seminare il grano, e Cecrope quella di raccogliere le olive, e il Cavour quella di piantare carote, ebbero devoti, sacrifici e simulacri. Noi saremo tutto per te; qual più vorrai intorno al tuo capo corona di alloro o berretto da notte; che se ti piacesse avere le mani in pasta, noi ti procureremo il portafogli dell’agricoltura, o se piuttosto ti talentano gli onori, ecco qui, tu ti puoi sfiorire. Vuoi croci di Corona d’Italia? vuoi commende dei santi Maurizio e Lazzaro? Parla, non peritarti: solo non ti promettiamo collari, perchè cotesta la è roba da cani». La industria degli abbindolatori consiste nel mescere il vero col falso, ed anco nel metterti il paraocchi prima di mostrarti un negozio, perchè tu veda la strada piana innanzi a te, ma ti rimanga nascosto l’abisso che ti si scoscende allato. Però in questa faccenda gli ufficiali potevano assai di leggieri dimostrare al ministro che la impresa proposta era migliore a pane che a farina: ed ora gli magnificavano il concetto di porre, per virtù di queste strade, in comunicazione celerissima fra loro le parti più remote d’Italia: l’agricoltura ampliata, accresciute le industrie, i commerci promossi: paduli sterminati convertiti in campi fiorenti di ogni bene di Dio: bonificato l’aere maligno, le maremme scomparse: in mano alla madre natura messo un pettine d’avorio, laddove prima ravviava i capelli ai suoi figliuoli coll’erpice: le boscaglie infami un dì per latrocini ed omicidii, ora ridotte in dilettosi recessi dove le coppie innamorate vanno.... a far funghi.
La burocrazia cala un’altra veduta del mondo nuovo, e mette sotto gli occhi al ministro i benefizi della secondata corrispondenza, non pure d’interesse, ma si d’intelletto e di affetto fra le molteplici generazioni della gente italica, donde ha da nascere la fusione vera di tutte in una famiglia sola; perchè, caro mio (i segretari generali danno del caro mio al ministro), la non si confonda, i vari pezzi di cui va composta l’Italia per ora stanno cuciti a filzetta, mentre prudenza consiglia ad assicurarli a sopraggitto. Di più, consideri quali e quanti vantaggi ridonderanno dai quattrini stranieri risucchiati qui da noi. E ci hanno cervelli malsani che temono possa perpetuarsi a questa maniera la dominazione degli avventicci, surrogando in certa guisa la prepotenza del danaro a quella delle armi; non dia retta, le sono fisime coteste. Il concetto del Danton, che il cittadino non si porta sotto le suola delle scarpe la patria, non è pensiero, bensì dolore di corpo dei repubblicani di quei tempi: oggi non usa più, e i repubblicani dei giorni nostri cantano a squarciagola il coro degli zingari del Turco in Italia: «Nostra patria è il mondo intero.» Ad ogni modo, se non ce la porta il cittadino, ce lo porta il banchiere: patria per lui ogni paese dove il denaro frutta dal venti per cento in su. Di fatti gli ebrei furono chiamati a Firenze dalla repubblica a patto che, oltre il diciotto per cento sopra la moneta prestata, non avessero a pigliare per usura. Tanto vero che pel banchiere patria è quella dove fiorisce l’usura, che gli ebrei non sono voluti tornare in Gerusalemme: per la fabbricazione del tempio avrieno potuto aspettare, ma per la Borsa no: è indispensabile che ce la costruiscano prima. Edificata che sia, quel Dio che precede il popolo d’Isdraele verso la Terra Promessa dentro una colonna di fuoco, lo ricondurrà a Gerusalemme avvolto in una nuvola dove si leggerà scritto: «interessi al 50 per %, netti da provvisione e senseria.»
E non ci ha dubbio, i pensieri e gli atti di banchieri rassomigliano a capello agli atti ed ai pensieri dei tarli; ma come ai tarli avviene trovare per ordinario la morte nel buco ch’ei fanno rodendo, così dai corpi dei banchieri strani, morti nel nostro paese, la natura caverà l’umo, o vogliamo dire terra vegetabile per piantarci cavoli nazionali. Vantaggio strepitoso, incalcolabile! Arrogi che ingegneri e scienziati, così inglesi come belgi, francesi e alemanni, qui accorrendo ad esercitare le loro professioni, le insegneranno agli italiani; e come degli ingegneri dicasi degli operai, e perciò dobbiamo aspettarci di veder sorgere qui industrie doviziose, non mai più viste nè conosciute in Italia....
O segretario generale caricato per compire la tua sonata fino all’ultima nota, tu pigi troppo e corri rischio di sfondare l’organo. Quando la più parte d’Italia si reggeva a repubblica, ricorda che a Firenze fiorivano le arti di Porsammaria e di Calimara, mentre la Inghilterra ci mandava le sue lane gregge ai tempi di Enrico VIIF, e la sua figliuola, la potente regina Elisabetta, non usava calze. Le grandi e nobili industrie risorgeranno fra noi quando tutte le arti maggiori non consisteranno nello scorticare e nel frodare; e quando frutterà più onore scoprire una stella che una baldracca al regio scannatoio, o una taglia pel regio erario; quando finalmente il premio alla virtù non si butta per terra, affinchè ella nel raccattarlo s’infanghi... Oh! scusino, signori: io mi batto il petto e mi chiamo in colpa, se in un impeto di passione mi è cascata la maschera; torno a riallacciarmela subito ed a mostrare di ridere perchè altri rida.
Approssimandosi il tempo di tirare in terra le reti, gli amici Omobono ed Egeo ebbero insieme questo ragionamento.
— Egeo, io ti ho da dire una cosa.
— Amico mio, dimmene due.
— Io ti ho da dire che più ci penso, e più sembra non sia stato ammannito abbastanza il terreno parlamentare.
E questo osservava costui per paura, perocchè sapesse pur troppo di far del resto sopra l’ultima carta; mentre Egeo, il quale credeva di aver mestato più che Carlo in Francia, rispose:
— Di più non si poteva; non sono mica terre da conciarsi col guano i deputati, nè con la pollina, nè con altri ingrassi.
— Che vuoi tu? È meglio avere paura che toccarne. Per me, se fossi papa, metterei la indulgenza plenaria a chi mi pestasse dentro ad un mortaio quei cialtroni di deputati repubblicani; to’, ci pestarono un filosofo, potrebbero pestarci anche costoro, che non sono filosofi.
— Eh! la garberebbe anche a me; ma non usa più adesso pestare la gente nei mortai, e bisogna adattarci ai tempi. Tu, però, affoghi dentro un bicchiere d’acqua: dimmi, hai tu mai pensato cotesti repubblicani che sieno? Come le femmine, le quali dopo essersi arrabattate molti anni invano a farsi tentare, per disperazione si vestono monache, così certuni deputati, poichè rimasero due o tre sessioni in mostra su gli scanni della Camera, a mo’ dei mezzi cocomeri sopra la scalinata, senza attirarsi carezza o sguardo del governo, per disperati si gettano al repubblicano. Essi si cullano nella fiducia che veruno conosca il fatto loro, e invece tutti li conoscono dall’a fino alla zeta, e li deridono; di costoro, va’ pur sicuro, la voce, da qualunque parte del corpo la mandino fuori, è stimata del pari.
— Di parecchi io non contrasterò che tu abbia ragione da vendere, ma per altri poi.... noi che di virtù c’intendiamo.
— Noi conoscitori di virtù! Si vede espresso che tu hai oggi, Omobono, alzato il gomito a tavola.
— No, non è questa la ragione; vieni qua che te la dirò dentro un orecchio: — per conoscere i galantuomini non ci è quanto i furfanti; basta metterci accanto a loro per vedere subito la differenza. Persone che s’incocciano nella onestà ce ne fu sempre, e ci sono.
— Gua’! ci sieno; il nostro mestiere sta nello annientarle, non col pistello, ma in altra maniera consentita dalla odierna civiltà. Osservale bene e vedrai come le si distinguano in due categorie: in iraconde ed in flemmatiche: le prime di più facile cottoia, sicchè quando esse tutte infervorate favellano, e noi o tossiamo, o stranutiamo, o sbadigliamo, od esclamiamo in diverso tono le cinque vocali, o buttiamo là una buffonata.... insomma fraus arma ministrat per confonderle; se mostrano i denti accennando a mordere, e noi componiamo a gravità il sembiante, ma sotto ai banchi lavoriamo di piedi. Di siffatti tiri noi possediamo un flagello, e non ci accade mai di votare il sacco; per ordinario non siamo giunti al terzo, che le iraconde pigliano il cappello, sfogansi in fulmini di parole, che non hanno mai incenerito alcuno, e se ne vanno via colla spuma alla bocca. Buon viaggio! A nemico che fugge ponte di oro. Co’ deputati flemmatici si desidera un altro governo. Tu sai come la polizia, sotto gli stoppacci dei suoi calamai, allevi un semenzaio di giornalisti; è patto fra noi e la polizia che ad ogni nostra richiesta ce ne abbia a fornire un corbello: sovente ce li dà a mezza gamba, purchè facciano un viaggio e due servizi, vale a dire calunniatori per noi, per lei spie; ma talvolta ci tocca pagarli a noi soli, e sarebbe un guaio se non rinviliassero ogni di, stante la portentosa loro moltiplicazione. Io non so di anatomia, ma li credo di natura di cimice, che ha i due sessi, così almeno dicono. Costoro valgono oro quanto pesano: nel riferire ch’ei fanno in succinto le orazioni di questi deputati che voglionsi demolire, se ne sopprime con diligentissima cura il buono e il bello; se ne arruffano gli argomenti, i raziocini si alterano; le parole si mutano così che paiono matte o briache. Quei dessi che le profferirono, rileggendole, forza è che esclamino: possibile mai che noi abbiamo sciorinato tante melensaggini? No, voi non le avete discorse, ma come ne chiarirete il paese? Intanto il ragguaglio doloso, stampato sopra centomila fogli, il vapore con lena affannosa trasportò da un capo all’altro d’Italia; dentro ventiquattr’ore si lesse a Susa e ad Otranto. La Gazzetta Ufficiale seguita i nostri giornali alla lontana, come san Pietro Gesù quando lo trasportavano al pretorio; e poi chi la legge? Ovvero vorranno riparare con le proprie forze alla botta proditoria? Fuori danari, e quando la tua orazione vedrà la luce, riveduta e corretta, sarà tardi: il vortice perpetuo dei casi quotidiani avrà tolto ogni importanza ai fatti passati: il paese accorrà il tuo discorso come un cavolo a merenda. Possediamo altresì un altro segreto, e questo consiste nella congiura del silenzio: ai Piombi di Venezia e al Canale Orfano sostituimmo la pratica di non profferire mai il nome della persona a noi infesta, non cenno circa i suoi scritti, non allusione sopra i suoi gesti... tenebre ed oblio intorno a lui... in breve ti comparirà una figura deforme nel fitto alla caligine.... figurati una maniera di sfinge più che mezza affondata nella sabbia del deserto. Vorrà ostinarsi a stare? Che cosa importa a noi? Invece di scomparire di schianto, lo disfaremo in limatura di ferro; per noi la messa torna a mattutino. Il popolo è con noi. A cui afferma il popolo grato ai suoi benefattori, elleboro e doccia di acqua fredda sul capo. Il popolo non ama alcuno, nè manco sè; egli odia ed obbedisce unicamente chi ha potenza di fargli del male....
— Tu predichi ai convertiti, Egeo, soggiunse Omobono; di questa tua roba in magazzino ne ho delle moggia ammuffite: generalità che in pratica troviamo sempre corte, o da capo o da piedi. Senti me; sai tu quando mi son fatto le stincature? Quando reputai la cosa certa. Dammi retta, poichè noi co’ nostri grimaldelli abbiamo aperte molte serrature, ci ripromettiamo schiuderle tutte, e ci inganniamo; quando te l’aspetti meno, ne incontri una con la quale non si scavicchia nè per Dio nè pei santi. — Poichè il tempo ci avanza, industriamoci a spianare ogni difficoltà: mandiamo attorno e andiamo noi stessi a spillare se possono elevarsi contrasti, e quali; rimoviamoli, attiriamoci la più parte dei deputati; tutti se possiamo: non lasciamo aperta fessura donde possa entrarci in casa la disgrazia. Bisogna riuscire, capisci, bisogna riuscire.
— Non accenderti il sangue; mettiti in calma; se tu avessi dei deputati la conoscenza che ne ho io, tu dormiresti fra due guanciali. Tu ti hai a figurare ch’ei sono come la pasta di cui fanno il pane: parte di loro è infornata e parte sta sulla pala; ora, se non è da dubitarsi della prima, come quella che attende zitta e chiotta a godersi della beatitudine della biscottatura, molto meno si dorrà della seconda, che arrangola di essere infornata per cocere; avanza l’altra, che adesso il governo rimena, e questa giudico la più sicura di tutte, perchè chi ci tiene le mani dentro, a seconda del bisogno o del talento, ora di tonda la fa quadra, di gobba convessa, ovvero l’allunga a coda, a mattarello, a maccheronaio, — insomma come gli pare e piace; dunque tu vedi....
— Dunque vedo che tu ne hai lasciata indietro un’altra parte; la più importante e pericolosa di tutte.
— Quale?
— Quella che sta a lievitare nella madia: agguantiamola. Egeo, agguantiamola, che altri non ce la impasti a nostro danno.
— Eh! capisco; non dico di no; ma tu sai che non è becchime quello che domanda questa maniera di polli.
— A manate gitta loro le promesse; a palate gettagliele nella gola e negli occhi.
— Anima cara, a questi lumi di luna nè manco il cerbero di Dante, che fu tanto abboccato da contentarsi di due pugni di terra, si contenterebbe delle promesse: sicuro, la polvere basterebbe, purchè di oro.
— Ebbene, o chi ti para da spargerla?
— Chi mi para? Averla!
— Eh! via, non far marina, che ti conosco, mala erba.
— Senti, io ti confido cosa che, conosciuta, mi butterebbe a terra in un attimo... io sono rovinato.
— Ed io.... soggiunse Omobono a precipizio; ma fu in tempo a mutare frase, dicendo: — io non ci credo, e mi accorgo d’avanzo che tu vuoi giocare sul velluto.
— Omobono, da parte chiacchiere, io ti confermo che mi trovo più presso al laus deo di ogni mio avere che tu non credi.
— Ma qui vedo argenti a profusione; la tua signora, tra gioie, perle e preziosità di ogni maniera, da 350 a 400 mila lire se le ha da trovare.
— Mira come sei informato! O che mi hai già fatto l’inventario? Quanto dici è vero, ma io preferirei levare un tigrotto dalle mammelle della tigre anzi che un gioiello di sotto all’Elvira... Provati, se ti basta l’animo.
— Io mi sbattezzerei a pensare dove tu abbia sperperati i quattrini che devi avere guadagnato.
— E che guadagno... aggiungi; ma se tu provassi Elvira, conosceresti com’essa è donna da tirare in fondo una flotta di navi di sughero. Insomma mi mancano quattrini e mezzi per farne di corto, e se mi rincresce Cristo lo sa, e in questo tuo consiglio di dare a beccare ai polli in chiostra, mi sembra che stia l’anima del negozio.
— Dunque non resta altro che provveda io, disse Omobono a denti stretti.
— Conteggeremo all’ultimo, rispose Egeo a bocca aperta.
Omobono, nonostante la sua repugnanza grandissima di mandare al palio nuovi biglietti falsi, pure, stretto alla gola, ne trasse fuori dallo scrigno per un duecentomila lire, esclamando: — Il Rubicone è passato da un pezzo; dove andò la galera vada il brigantino: — e li consegnò ad Egeo, il quale osservò che non gli parevano a sufficienza, ma che tuttavia avrebbe cercato di farli bastare.
Da questo fatto però non nè venne male nè bene imperciocchè Egeo veramente in così cattive acque come aveva dato ad intendere non si trovava: poco spese, e dei suoi; i biglietti avuti da Omobono, dopo averli ben contati, lasciò intatti nel portafogli.
Ora nel mezzo tempo erano accaduti due casi, che importa riferire.
Egeo, compiacendo alla sua prava natura, ed anco a un vago desiderio di sottrarsi, potendo, alla servitù della Elvira, che incominciava a provare leggera quanto un pane di piombo sopra lo stomaco, prese a blandire più che non soleva Amina, la nipote di lei: se veramente ella fosse tale non sapeva; ne dubitava; tuttavia, poco premendogli di venirne in chiaro, lasciava andare tre pani per coppia. Di Amina non si poteva dire che versasse acqua diaccia nella pentola, ma ne manco ci metteva legna sotto: lasciava che cocesse così lemme lemme senza spiccare il bollore: — spesso mi trovo imbrogliato a esprimermi come vorrei, forse ci rasenterò dicendo ch’ella provocava pudibondamente le carezze, molto più che ogni carezza le fruttava un regalo. Ora, le carezze di amore, od egli sia di sai fine, ovvero di sale grosso, si sa, le sono come le ciliege, di cui una tira le quattro e le quattro, venti; così Egeo, non avvezzo neppure agli assedi regolari, un bel giorno, trovata sola Amina, volle di punto in bianco baciarla in faccia.
Mi chiamo impotente a descrivere la maraviglia, il furore, il rossore della castissima donzella, e ci rinunzio; dirò solo che in breve ella pensò se doveva urlare, o disperarsi, o svenirsi, o che cosa altro diavolo fare: — deliberò con atto dignitoso respingere da se il novello amatore, e significargli con fermo accento:
— Signor Egeo, la prego a tenersi bene a mente che Amina non sarà baciata da altri, che suo marito non sia.
Ella aveva letto questo esempio in un libro dove si narra di certa figliuola di uno speziale che tal fece risposta al Re, impronto sollecitatore di un bacio da lei; e le fu ventura, che per tal modo si procacciò dote e marito; ma se n’era dimenticata da un pezzo, ed ora le tornò alla memoria come un cibo indigesto alla gola. Egeo, che da qualche giorno in poi aveva cominciato a spillare alcun che dei fatti suoi, stette a un pelo per isbottonare; poi lasciò correre per non guastare le uova nel paniere.
Diversamente accadde al giovane Omobono, il quale di frequente usava nella casa di Elvira, molto per necessità di conferire ogni sera o con lei o con Egeo, intorno al grave negozio che avevano per le mani, e troppo più per genio, perocchè Amina, vedendolo di persona ben formato e di modi gentili, diede spesa al cervello ed attese a ridurselo marito: Arrogi che ella lo immaginava straricco; e adesso nella grandiosa impresa in cui egli andava a mettere le mani ella vedeva aprirsi una sorgente inesausta di opulenza. Si mise tosto a fabbricare un’anfora di elisir di amore, il quale troppo bene le venne fatto, come colei che ne era maestra, se non che questa volta ci pose maggior cura e ne raddoppiò le dosi.
Dicono (ma nella Genesi non ci si legge) che il diavolo in persona ne insegnasse la ricetta ad Eva, subito nella prima conferenza che ebbe con lei, e che accresciuta, diminuita, rivista e corretta, giungesse alla perfezione nella quale noi oggidì la vediamo. Basta, anche a rischio di fare cosa inane io vo’ metterla qui: non fosse altro per dimostrare quanto grande sia la premura ch’io pongo mai sempre a rendere servizio alle mie leggitrici.
Recipe. — Scrupoli 24 occhiate languide. Idem occhiate ardite. Idem occhiate velate. Idem occhiate scoperte. Idem Occhiate diritte. Idem di traverso. Dramme 6 risi assortiti a mezze labbra; a scopridenti; modesti, immodesti e imbecilli.6 Idem sospiri caldi e sospiri scorrucciati. Once 9 lacrime in parte risucchiate e in parte lasciate andare pel verso loro. Libbre 2 lettere di amore senza senso comune.7 Mezza oncia di lettere col senso comune. — Misce in acquavite di libidine colta in primavera e stillata co’ lambicchi di Venere celeste, co’ lambicchi della fabbrica del canonico messer Francesco Petrarca; amministra per una settimana a tre cucchiaiate da tavola per dì. — Alcune fabbricanti ci aggiunsero non so quali dosi di piè percossi, di fazzoletti stracciati e di ventagli rotti, anzi ardirono mescolarci perfino le cascate in sincope, le canterelle e i temperini vibrati verso i paesi del cuore, ma questi ingredienti, massime i due ultimi, furono scartati addirittura dal costume elegante. La ricetta dello elisir di amore dura adesso inalterata nel modo che ho detto.
Quando la nave è stagna all’acqua, resistenti le vele, esperto il pilota, il vento in filo di ruota, gran tratto si cammina in breve tempo sopra il mare di amore, e i nostri amanti ci camminarono molto: già si erano aperti i segreti affanni e mostrate le scambievoli ferite, onde uno fa per l’altro medico a un punto ed infermo; si promisero amore, e per tenerle saldo giurarono conficcarlo e ammagliarlo coi chiodi del sindaco e del prete, e con le funi del codice civile e del sacramento, imperciocchè Amina pendesse allo ascetico e professasse devozione sviscerata alla purissima Vergine, alla quale non passava sera che ella non recitasse le litanie. Siccome questo amore aveva a procedere placido e sereno, e per così dire in bussola, il giovane Omobono ne fece motto allo zio, il quale non rispose sì, e no neppure; pel momento se ne cavò col solito: ci penseremo. Anch’egli voleva scoprire marina e veleggiare secondo il vento; ma il giovane, conforme persuade la nostra natura, facilmente credendo quanto gli piaceva e gli giovava, la tenne per cosa fatta e lo disse all’Amina, che per la contentezza n’ebbe il capogiro. Allora Omobono, non già col piglio di Arsace quando canta: Eccomi alfine in Babilonia, come aveva fatto Egeo, bensì in sembianza umile, con voce da pigliare per soavità sotto gamba quella del flauto, che nello notti di primavera si diffonde sulla tremula superficie del lago... — e qui fo punto, perchè altrimenti la similitudine romantica minaccia di vincere in lunghezza la più classica di Omero, — egli, Omobono, la scongiurò a permettere che con un casto bacio i suoi legittimi ardori suggellasse; ma ella intemerata a lui supplichevole rispose come ad Egeo arrogante: veruno uomo l’avrebbe baciata, tranne il marito dopo celebrate le nozze; lì per lì s’impossessò di Omobono una maledetta rapina, che l’avrebbe mangiata viva, ma indi a poco, ripensando alla virtù della donzella e al culto professato da lei alla Vergine purissima, un lampo di giubilo gli irradiò la faccia per modo che parve trasfigurata. La moglie casta è una corona di gloria sul capo del marito... eh! lo ha detto lo Spirito Santo, che se ne intendeva, andò per quanto fu lungo il giorno borbottando Omobono.
Ma dunque cotesto vostro Omobono, che pure ci avete descritto giovane elegante, insomma era un ghiozzo da pigliarsi con le vangaiuole? No, signore, Omobono era innamorato; ed ella fu mai innamorato? Se sì, e non le incolse peggio, accenda i moccoli ai piedi del suo santo avvocato, perchè la sua consorte ebbe più virtù che ella giudizio; e però baci la mano alla sua signora, pigli una presa di tabacco e continui la lettura del Secolo che muore.
Ormai tutto è stato ammannito; il gruppo dei banchieri stranieri, capitanato da un caporale coi fiocchi, presentò le sue proposte; le condizioni furono discusse sottilmente, modificate e approvate, le garanzie richieste accertate con tanti biglietti di Banca Nazionale messi in deposito; il contratto, sottoscritto dal ministro e dagli imprenditori, ormai è diventato irretrattabile, salva sempra l’approvazione della Camera, la quale aveva da parecchi giorni a studio lo schema di legge; nè, per quanto si sapeva, negli uffici era sorta nuvola alcuna che turbasse il bel sereno dell’affare. Ogni ora più pigliava piede il prognostico che la legge sarebbe passata senza serio contrasto; intanto i mestatori parevano tanti barberi al canapo per acquistare e palleggiarsi le azioni; fra gli interessati era una irrequietudine, un’allegria da non potersi con parole convenienti descrivere.
La sera precedente al dì in cui si aveva a discutere la legge per la concessione della ferrovia in proposito, Egeo volle ad ogni patto che si facesse cena in casa di Elvira (veramente cotesta casa apparteneva a lui, e come padrone dì e notte ci albergava, quantunque tenesse aperta un’altra casuccia in via del Giardino; tuttavia volle una settimana fa che la Elvira la mettesse in testa sua, cosa che, senza pensare ad altro, la garga8 di leggieri assenti), e dopo cena un ballonzolo così tra i banchieri interessati nella impresa ed i clienti più intimi. Gente tutta volgare: si scorgeva in essa, un miglio alla lontana, il filibustiere, il quale aveva mutato il mare per la terra; eccetto l’elemento in loro ogni altra cosa al suo posto come per lo innanzi. Eccetto la prima parte, tutto il rimanente dello epitaffio di Sardanapalo formava la pratica e la scienza della loro vita.9 Bevevano come tedeschi, fumavano come camini e bestemmiavano come vetturali; taluno di loro aveva titolo di conte, tutti di cavalieri; e veramente meritavano esserlo, ma dell’ordine del Bagno10.
Mangiarono e bebbero a ribocco, alternando arguzie fra loro, delle quali la più mite avrebbe meritato uno schiaffo a cui la profferiva; ma cotesta gente aveva sortito da natura pelle di rinoceronte, e invece che con ira venivano accolte con alte sghignazzate e suono di mani con elle: anzi in cotesta guisa fu aperto il cancello ad una giocondissima tenzone, dove se uno appiccicava sorbe, l’altro non mondava nespole: ogni scudo veniva giusto barattato per cento soldi: riferire tutti cotesti discorsi non parrebbe onesto, basti che il vituperio, arrandellato fuori di finestra il pudore e il tabarro e il cappello di lui, tornò a tavola, e quivi, tiratesi su le maniche della camicia, cominciò a vomitare le più sozze e ree cose che si sieno udite nel mondo.
— Domani, diceva Egeo ridendo, volto ad Elvira, tu cesserai un momento il sacerdozio di Venere per quello di Mercurio....
— Perchè? osservava un convitato; forse questi sacerdozi sono benefizi con la cura delle anime che non permettono il cumulo?
— Ma, entrava a dire un terzo, io porto opinione che la Elvira abbia in un medesimo punto ministrato alla diva e al nume; anzi, giurerei che taluno di noi potrebbe farne testimonianza come di fatto proprio.
— Insomma delle somme, urlava Elvira, dissimulando col riso il vituperio di cui l’abbeveravano, si potrebbe sapere perchè vorreste che io uficiassi domani in tempio diverso del consueto mio?
— Perchè Mercurio è il santo nostro e di parecchi ministeri, come sarebbe a dire di quello delle finanze, dell’altro di agricoltura e commercio, e in particolar modo di quello dei lavori pubblici, da cui dipendono le concessioni delle strade ferrate. Ora, nel modo che fra molti popoli marittimi costuma battezzare le navi, tu, Elvira, battezzerai con le tue immacolate mani la nuova ferrovia.
— Peccato che io non sono turco, chè adesso potrei farmi battezzare da codeste tue immacolate mani.... disse Egeo, ed alle sguaiatissime parole aggiunse atti anco più sguaiati.
— Ma che tu sii cristiano non è ben sicuro, gioia mia; onde, per levare ogni dubbio di mezzo... ecco, ti ribattezzo; — e così favellando afferra in un attimo la caraffa dell’acqua e tutta glie la rovescia sul capo. Egeo, di rosso cremisi, diventò colore di fegato, e ciò per colpa della tinta dei capelli stemperata nell’acqua. Allora si levò un baccano di risa scompisciate, di convici e di salutazioni un po’ diverse da quelle che le divote inviano a Maria piena di grazie; rizzaronsi, acciuffaronsi, si corsero dietro, con plebei colpi di mano si offesero.
Amina e il giovane Omobono, assorti nei loro amori, per un pezzo non si addarono dello infernale tramestìo: egli, col frequente premere col suo piede quello di Amina, le aveva nabissato lo stivaletto di raso turco, mentr’ella a furia di gomitate gli aveva infranto mezze le costole; così anche le colombe a colpi di ale castigano i protervi colombi appassionati: finalmente, travolti pur essi dal vortice, corsero via per sottrarsi al volgare tumulto, e volando di stanza in stanza ecco giunsero in un corridore buio. Il luogo, la occasione, lo strepito, il calore del cibo e della bevanda, con l’accompagnatura di un diluvio di circostanze attenuanti, come dicono i giudici giurati, diedero balia al giovane di stringere a mezza vita Amina, tutta confusa, recarlasi al seno e stamparle un bacio sopra la faccia; ma ella gli guizzò dalle mani, lo saldò con una solenne ceffata e riprese la corsa; egli, punto sbigottito, dietro focosamente veloce da disgradarne Apollo quando perseguitò Dafne, e la potè riagguantare e imprimerle sopra le nude spalle un secondo bacio con tanto ardore da lasciarci il succhio.
Comecchè le spalle non abbiano denti, tuttavia Omobono si senti frizzare da un umore acre entratogli in bocca; e ciò perchè al buio aveva strizzato con le labbra una certa tal quale pustola d’incerta origine, ma d’indole più che sicura...
Ditemi, avete voi mai visto nel porto di Genova l’alberatura dei navigli quivi raccolti quando imperversa il vento di Provenza? Tentennando a quel modo s’incamminarono al riposo i nostri personaggi: chi si buttò sopra e chi scivolò sotto il letto; alcuni mezzo spogliati, altri vestiti. Il Sonno allora, spalancate a due battenti le sue porte, quella di avorio e l’altra di corno, diede la via alla famiglia 52 IL SECOLO CHE MUORE
intiera dei sogni, affinchè andassero a taloccare a loro talento i nostri addormentati.
A Egeo, fra le altre cose strane, parve vedere un Amore, il quale, dopo avergli messo al naso il morso e la briglia, glielo inforcava di un tratto a modo di postiglione, spronandoglielo alla dirotta per ispingerglielo al galoppo: infatti la mattina se lo rinvenne tutto sanguinoso per esserlo stropicciato furiosamente quanto fu lunga la notte.
Omobono il vecchio vide addirittura il diavolo, e siccome erano conoscenze antiche, così lo pregò a dargli un colpo di mano, e il diavolo gli rispose: magari! e subito dopo gli portò con la forca un gran fascio di azionisti, il quale Omobono avendo messo nel trinciatolo, mentre per troppa bramosia lo trita senz’avvertenza, onde ruminarselo a suo agio, si porta via di netto una mano. Fuori di se, dallo spasimo, mugola come un toro, intanto che il diavolo, postasi la mano tagliata al cappello, a mo’ di penna, si allontana uccellandolo: «bietolone! dovevi fare con meglio garbo».
Omobono il giovane allietò la visione di due farfalle di Casimira, che si rincorrevano volando di fiore in fiore, finche incontrata una enorme bocca di lione, non potendo trattenere il volo impetuoso, vi traboccarono dentro; la bocca del lione si chiuse, ed esse vi rimasero imprigionate. Allora Omobono si accorse che la farfalla assomigliava all’Amina e il parpaglione a lui, e non gli increbbe.
All’Amina sembrò le si fosse posato in grembo, come il cigno a Leda, un magnifico fagiano dalle piume dorate, che ella senza ceremonie si mise subito a pelare; e pelava e pelava con un gusto che era un desio a vederlo; quando di un tratto, quasi le piume del fagiano si fossero convertite in aghi, senti pungersi le dita; gittò un urlo, si destò e rinvenne che nel cacciarsi le mani dentro i capelli una forcina l’aveva trafitta. Per quietare la paura che le durava nel lago del cuore, rischiarata dal lume della lampada che ardeva dinanzi la immagine della purissima Vergine, sua santa avvocata, si mescè un bicchierino di liquore della Certosa (ah! quei benedetti frati dove mettono le mani fanno tutto bene), e dopo il primo un altro mezzo. Le parve essere rinata; recitò una avemmaria e si ripose a giacere, gustando le beatitudini del sonno dei giusti.
Se Amina si sognò di essere convertita in Leda, all’Elvira toccò sognarsi di essere mutata in Danae, e standosene a pancia all’aria esultava pel rovescio dei marenghi che le pareva le ci piovesse sopra: a romperle cotesta contentezza sopraggiunse un fischio come di macchina a vapore; declina lo sguardo, e mira un boa sterminato, che, postosele ai piedi, fa prova di risucchiarla, e pur troppo si sente attratta da lui tanto più agevolmente, che conosce giacersi sopra un piano inclinato: guardando meglio, conosce cotesto piano andare tutto composto di capi umani, criniti di capelli bianchi, neri, castagni, e biondi, ovvero zucconi: insomma un esercito: formavano questo esercito tutti coloro che ella tenne sotto la sua disciplina come amanti, e adesso in un batter d’occhio li passa in rassegna. Le parve tornare da morte a vita; due terzi erano cavalieri e nobil gente, dunque la difenderanno; e s’ingannò; veruno si mosse, o battè ciglio, o profferl parola; e poichè il boa sempre e più sempre la tirava a sè, ella, non sapendo in quale altro modo aiutarsi per impedire lo sdrucciolo che di minuto in minuto diventava ruina, prese ad agguantarsi ai peli ed anche alle barbe di cotesti capi.... invano! che la fiera ecco la ghermisce per un piede, le inghiotte le gambe, le coscie; la stringe nei fianchi, la soffoca, non può più respirare. Mercè uno sforzo disperato le riuscì levarsi da giacere supina; allora riprese libero il circolare del sangue, ed ella si destò spaventata e mèzza di freddo sudore. Lume in camera non aveva; si gittò giù dal letto, accese la candela ed aperse una maniera di stipo che si teneva a lato sopra una tavola da notte, pieno dentro di bocce di cristallo con varia ragione liquori: lo sogliono chiamare cantina; scelse la boccia dov’era scritto: Acquavite di Scio, nè stette a cercare il bicchierino per misurarne la quantità; se l’accostò alla bocca, e in una gozzata ne mandò giù più di un terzo; ripreso fiato, ribevve, e per questa volta ne fece sparire mezza; rotta agli spiriti ell’era, tuttavia parecchie lagrime le cascarono giù per le gote. Volle provarsi altresì a fumare un sigaro, ma le cascò subito dalla bocca; e la fortuna volle che, acceso male, si spegnesse quasi subito, altrimenti avrebbe dato fuoco alla stanza: ella ricascò sul letto dove si addormentò di botto.
Sdraiata dorme e russa come un orso.
Tale progresso hanno fatto nelle vie della perfezione le così dette gentildonne (che di rado troviamo essere donne gentili) da Parini a noi.
Note
- ↑ Contrectatio apud Jurisconsultos signilìcat alienam rem manu apprehendere, et amovere furandi causa. Paulus. Diges., l. 12, t. 2, leg. 3 ad finem, et lib. 25, t. 2, 1. 3.
- ↑ Il ministro a cui alludo fu Vincenzo Ricci, patrizio genovese, che io rammenterò sempre con animo reverente e benevolo, comecchè pendesse al bigotto: fu uomo di molteplice dottrina, magistrato, letterato e politico: in molte cose gli fu maestro il celebre barone di Zac, e certo egli non poteva desiderare di meglio. La patria, la quale alzò a dozzine statue al Cavour, onde lo dico statuario, e da lui nominò a ventine le strade pubbliche, onde lo intitolo stradaiolo, non pose al marchese Vincenzo Ricci pietra nè parola; ma io ho ferma fede che un giorno il popolo italiano, aprendo gli occhi, conoscerà il Cavour essere stato non fattore, bensì tosatore della unità italiana, seminatore dell’atroce corruzione che ci affoga e ciurmatore capitale delle nostre finanze, e convertirà le sue statue nell’uso che i greci fecero delle trecento statue erette a Demetrio Falereo, voglio dire in mortai, dove le buone donne pestano il prezzemolo e l’aglio.
- ↑ Per me, mi sono dichiarato sempre nemico mortale dei titoli Demolii il chiarissimo, perchè trovai che i sensali lo applicavano, e bene, all’olio di Lucca: onde a me parve cosa non degna che i dotti venissero a gara di titoli coll’olio di Lucca. Adesso sbraciano con la pala a tutto pasto il titolo di illustre. Lascialo stare, perchè, secondo la testimonianza di Servio, ad Aen. b. v. 758, i romani solevano attribuirlo alle meretrici e ai senatori, desumendolo da lustrum, parola che significa giusto lupanar, o vogliamo dire bordello.
- ↑ Ann. 11, § 27.
- ↑ Mille dramme, o lire codine.
- ↑ Questi ultimi incontrano più di tutti.
- ↑ Anche di queste ci è gran consumo, quasi quanto della revalenta arabica.
- ↑ Per la significazione della parola garga vedi Giusti, Gingillino.
- ↑ Si racconta ciie in Anchialo fosse rinvenuto un monumento rappresentante Sardanapalo, con questo epitaffio sotto: «Sardanapalo tìglio di Anacyndarasse fondò in un giorno Anchialo e Tarso. Mangia, bevi ed ama; il resto non vale un fico». Aristotele dice che la seconda parte di questa iscrizione si confà meglio a un porco che ad un re. Arriano e Cicerone riportano cotesto epitaffio, ma alquanto alterato.
- ↑ Bagno. È nobilissimo ordine equestre in Inghilterra; altrove s’intende l’ergastolo dove si tengono i forzati.