Il Newtonianismo per le dame/Dialogo Secondo
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DIALOGO SECONDO.
Che le Qualità come la Luce, i colori,
e simili non sono altrimenti ne’ corpi.
Dubbj Metafisici intorno alle Sen-
sazioni che di esse abbiamo.
Esposizione de’ principj
generali dell’Ottica.
Avvocati fan della Legge. Non v’â mezzo termine alcuno dinanzi al severo Tribunale della Ragione. Tutti i potenti del Mondo, e tutte le Belle più potenti ancora, non ponno far interpretare a favor loro il menomo Testo, o corrompere in alcuna maniera il rigido Filosofico Areopago. Quella si è una prova, una mortificazione, che vi dà il Descartes nel vostro Noviziato della Filosofia. Ma che? Vi spaventerete voi per così poca cosa? Fatevi animo, non temete nulla. Voi congiungerete alla fine al piacer de’ Sensi anco quello di combatterli, e di non prestar loro fede.
Fin’ora, soggiunse la Marchesa, io non ho, che il dispiacer di vedere, che noi siamo ingannati ad ogni momento, poichè se così pur è, come voi dite, le cose ci appajono ben diverse da quel che realmente sono. I Corpi ci appajono d’un colore o d’un altro, e in loro altro non e che una certa disposizione di parti. Eglino ci sembrano d’un certo sapore, freddi, caldi, o che so io, e nessuna di quelle cose è in loro. Questa mi pare per dir vero una strana condizione. Certamente, rispos’io, che la nostra condizione e strana. Il nostro sapere poco va innanzi senza la scorta de’ Sensi. Eglino ci fan credere tutto giorno cose, di cui poi o un senso più affinato, o la ragione, senza per altro rischiararci, ci disinganna. Voi credete per esempio, che queste vostre mani, che saranno state argomento d’una infinità di Poemi, sieno liscie, e pulite, e voi andreste per avventura in colera chi contrastasse loro questa qualità. E pure se voi ve le guardaste col Microscopio, sareste sorpresa di vedere, che v’â in esse una nità di pori, che ne interrompono la tessitura, che v’â delle squame le une sopra le altre a guisa della pelle d’un pesce, delle cavità, delle prominenze, delle valli, e de’ monti per un popolo di animaletti, che passa vivi forse la sua vita, de’ fiumi, e de’ mari; il che vi recherebbe ancora maggior maraviglia. In somma non ve le riconoscereste più, e sareste forzata di confessare, che’ellono sono ben differenti da quelle che sono state cantate da’ vostri Poeti. Egli è una grazia, disse la Marchesa, che la Natura ci â fatto nel darci grossolani sensi. Mal per noi, se avessimo il tatto così fino da poter sentire tutto ciò, che il Microscopio fa vedere. Noi saremmo, soggiuns’io, senza dubbio infelici, se nel toccare qualunque più morbida e liscia superficie, sensibili ad ogni cosa, il tatto ci abbandonasse a ciascun poro, e a qualunque piccola prominenza si facesse sgricciolare. Il silenzio della Ragione, e de’ raffinati sensi, ci permette di sentire il solletico della Voluttà, e ben la felicità nostra definì colui, che piacevolmente disse, esser lei la possession tranquilla del piacere di esser bene e dovutamente ingannati. In verità, replicò la Marchesa, che noi altre siamo obbligate alla discrezione de’ Filosofi, che non ostante che sappiano come le superficie sono fatte, si diportan però verso di noi come il resto degli uomini. Ma se io volessi piacere a qualche ignorante, io gli proibirei per la prima cosa di tener qualunque corrispondenza con quelli che maneggian Microscopio. Costoro mi potrian fare del grande pregiudizio. Tutti i Microscopj, rispos’ io, e tutta la Filosofia del Mondo non farebbon però, che voi non piaceste ad occhio nudo; e questo è pur ciò, di cui paga esser dovrebbe anco una Cleopatra. Virgilio fa dire da Coridone al suo Alessi
— ò bel fanciullo |
Al tuo color non ti fidar cotanto. |
Ed io posso francamente dirvi
O Bella, alle tue man fidati pure. |
Siccome i nostri sensi per ventura non sono, dirò così, Microscopici, così ne pur Filosofici sono i nostri sentimenti. Guai se il nostro piacere fosse in mano de’ Filosofi, e se una bellezza per chiamarsi bellezza dovesse sostenersi contro tutte le sperienze d’un Fisico. Egli saria come se una Donna per chiamarsi casta sostener si dovesse contro i sospetti, e le più diligenti ricerche di un Marito geloso. Queste due specie an questo di comune, che tutte e due tendono alla distruzione delle cose più rare.
Ma i Filosofi, disse la Marchesa, non conosco un modo nel distruggere, perché poca altra cosa ponno lasciar a’ corpi dopo d’aver loro tolto i colori, il calore, il sapore, e le tante altre cose che levan loro via. Lascian loro, rispos’io, l’estensione, cioè la lunghezza la larghezza e la profondità,l’esser l’un dall’altro impenetrabili, il moto, e la figura, e tutte quelle cose belle, che i Matematici, e i Meccanici deducon da queste, sulle quali vi mostrerei così spaventosi volumi, che tutto ciò che è stato scritto sulla Crusca vi sembrerebbe in confronto una dichiarazione amorosa d’un Sovrano. Non vi par egli, che ciò basti a’ corpi, che in fine altro non sono che corpi? Senza che egli non è propriamente un distruggere ciò che fanno i Filosofi intorno alle qualità di cui parlavamo. Eglino non tolgono a’ corpi, che quello ch’era stato loro malamente applicato, e che avean lungo tempo a torto posseduto, e lo ridanno a noi, a’ quali direttamente, e di buona ragione compete, non valendo ormai più nella Filosofia, come faceva altra volta, la prescrizione. Se un’amante per esempio dicesse, che in un’occhiata che egli fu dietro al ventaglio lanciata, v’era la speranza; che mal farebbe mai un Filosofo, il quale senza distruggergli né l’occhiata, né la speranza, con carità l’avvertisse nell’occhiata altro non esservi stato, che un certo moto dell’occhio cagionato da certi muscoli, o da un principio di pietà, o di cocchetteria, se volessimo rimontar sino all’origine; ma la speranza essere affatto in lui destata in occasione di quell’occhiata? in quella guisa appunto, che quando noi siamo punti da un’ago il dolore è affatto in noi, e nell’ago altro non è, che un moto per cui egli distrae, e lacera le fibre del nostro corpo, in occasione della qual distrazione noi sentiamo il dolore. In somma i corpi altro non sono che materia, e per conseguente aver non ponno, che quelle proprietà che dalla materia dipendono, le quali i Cartesiani ânno limitato all’estensione, all’essere impenetrabili l’un dall’altro al muoversi, all’esser di quella, o di quell’altra figura, all’aver le loro parti disposte inquel- |
eccitan di quel sapore, o di quell’altro. Queste sensazioni ci sono generalmente destate in occasione di certi corpi, e perchè noi non vediamo nè le loro particelle, nè gli animaletti, che in essi sono, nè i globetti del secondo elemento, nè l’impressione che e’ fanno sopra i nostri nervi, noi non lasciamo d’attribuire ad essi corpi e la luce, e il colore, e il sapore che non sono realmente, che in noi. La Ragione ci fa alla fin conoscere il torto, che ci fa tutto dì l’Immaginazione, e ci assicura che nostro è il delizioso, e non ancora definito sapore dell’Ananas, nostro è il grato verde d’un praticello, e nota è pure quella che ogni cosa ravviva, ed anima, l’alma luce del Sole.
Io v’intendo, ripigliò ella. Noi diventiamo ricchi alle specie altrui, e siamo come l’antica Roma, dove si portavano le spoglie di tutto l’Universo. Mal, rispos’io, per la Filosofia, se le sue ragioni non fecero migliori di quelle della Politica, e dell’ambizione. Io veggo bene che voi non ne avete ancora una giusta idea. Acciò veggiate ch’ella non si usurpa nulla, e che non si toglie che il suo, premetevi con un dito l’occhio da un canto, o dall’altro, e voi vedrete dalla parte opposta una fiammetta rotonda di color rossiccio. In quello caso non v’à certamente fuor dell’occhio nè colore, nè luce. Voi gli vedete però niente per altro, che per la pressione del vostro dito su’ nervi dell’occhio vostro. I globetti della luce che vengono dalla superficie de’ corpi, fanno più dilicatamente nell’occhio ciò che il vostro dito non fa, che grossolanamente. La diversa disposizione poi, e la differente figura delle parti di un corpo, è la causa della diversità dell’imperfezione che da’ globetti riceviamo. E in fatti che a quella sola disposizione, e figura delle parti in un corpo si debba attribuire l’eccitare, ch’esso fa in noi l’idea d’un colore, o d’un altro, non si vede egli manifestamente da ciò, che mutando questa disposizione si muta anco il colore? Il che non dovrebbe avvenire, se veramente il colore fosse nelle parti del corpo medesimo. Il Corallo che è d’un bel rosso se si macina e si tritura, divien d’un rosso bianchiccio. Un liquore mescolato con un altro muta colore; le quali cose avvengono, perchè in quel trituramento, e in quella mescolanza si muta la disposizione, e la figura delle parti di que’ corpi, ond’esse rimandan diversamente la luce, e quindi si altera e si muta in noi l’idea del colore. Non da altra cagione procede la veneranda canizie della vecchiaja, la passaggiera bianchezza nell’Inverno di molti animali del Nord, l’essere alcune rose alla Cina nel medesimo giorno or bianche, or d’un bel porpora dipinte, e quella prodigiosa mutazion di colori, che seguono principalmente le vicende degli affetti, e delle passioni nel Camaleonte, sorgente di tante allusioni a Moralisti ed a Poeti, di tante favole agli Antichi, e di tante belle osservazioni a’ Moderni. E che cosa è egli altro, se non una disposizione di parti che fa, che il più di voi altre Dee ci siate nascoste al sorger del letto, e un’altra disposizione, che vi lasciate alla fin vedere, & adorare dopo un’ora, o due de’ sacri riti della Toletta?
M’accorgo, replicò la Marchesa, che non va nulla di chiuso per la Filosofia. Noi possiamo bensì nasconderci agli uomini, ma non già da’ Filosofi. E perchè in fatti volersi ascondere a una gente, che vede ciò che occhio umano non à veduto giammai, de’ globetti con un certo moto, delle fibre e de’ nervi, a’ quali quello moto e comunicato, e portato al cervello? Benchè io vi confesso di aver ancora bisogno che voi mi guidiate in quest’oscuro laberinto. Io non veggo come tutti quelli moti abbiati che fare con un colore, che io concepisco; che è una cosa, mi pare, di questi moti affatto diversa. Concepite voi meglio, le rispos’io, com’abbia a fare l’idea del dolore colla distrazion delle fibre della vostra mano, o l’idea della speranza con un certo moto, che è ne’ muscoli di un occhio? E pure voi vedete in fatti, che queste cose sono insieme legate, e che l’una è cagione, o almeno occasion dell’altra. Voi domandate più, che non vi si può dare. Le più importanti cose all’umano sapere, sono per isventura nostra le più dubbie. Chi vi potrà dire come gli oggetti cagionino certe idee nell’anima, ella all’incontro certi moti nel corpo, come inestesa fa ella si trovi per tutto, invisibil vegga, e intoccabil tocchi ogni cosa? I Filosofi vi faranno facilmente, e colla maggior’ eleganza del Mondo passare il moto de’ globetti della luce, o qualunque altro moto ai nervi, e da questi o per via d’un fluido, che scorra per le cavità di essi, o per via d’un tremore, che in essi si ecciti fino al cervello, a cui vanno tutti a terminarsi, e, se vorrete ancora, ve lo faranno passare per fino a certe parti di esso, in cui ânno immaginato essere la residenza dell’anima, che sente. Ma lo spiegarvi poi come giunti al cervello, o alla residenza dell’anima producano in essa questa, o quell’altra idea, egli si è affatto un mistero. Questo passaggio che in apparenza par si picciolo, si è per li Filosofi, ciò ch’era per gli Antichi, l’Oceano innavigabile. Qual comunicazione, qual legame vi può egli effere tra il corpo, e l’anima, tra un’ertenfìone, e un penQero, tra un moto, e un’idea, tra la materia, e lo ipirito. Qual forte di commercio pollano elfi avere, non polliamo immaginare. Quel commercio, nfpos ella forridendo/cheà Enea coli’ ombra del padre Anchife negli ulisi. Eglino fi comunicati vicendevolmcnte ie più belle cofe del Mondo; poi quando Enea vuol prendere ad abbracciare il vecchio Padre, egli svanisce come un sogno, e va in fumo.
Ecco, rispos’io, di che trar da quello palio una beila Allegoria, cheavrebbe fatto grand onore a un erudirò, e polverofo comencatore del fecole parlato. Ora per metter vie più in chiaro la v olirà allegoria,*e affinchè d’altra parte veggute, the nulla à potuto fgomentar gente allevata» e nutrita in mezzo alle difficoltà; alcuni vi diranno, che v’à una certa cqrrifpondenza, o armonia portabilità tra l’anima, è il corpo, coiicchè benché eglino abbiano che fare infìeme in quel modo, in cui un ballo d’Arliehmo à che far nelle nofì re Opere, colla morte di Didone e co’ deftim di Roma; rutta volta in virtù di quella armonia tra elio loro prelhbilira, nel tempo che fìeguono certi moti nell’uno, fieguauo certe idee e certi d elìder j nell’altra. In fomma eglino fono, come due Orologi indipendenti l’un dall’altro, che fot Uro caricati in modo, che quando l’uno inoltra Tua’ ora, l’altro do velie fempre ma lira r le due, e cosi del retto. Il vortro Defcartes vi dirà che in accattane, che nel Mondo materiale i corpi eterni eccitano certi moti nel noilro corpo, Fanima vede nel Mondo intelligibile certe idee, coficche nel mondo materiale altro non v’à che la volt ra clleniione con certi moti e certe figure, e tutto ciò, che v’S di più, e che vi rende cosi vaga e leggiadra, non è che nel Mondo intelligibile;
o pure vi diranno, che in occafione di certi
moti nel corpo, Iddio fvela, e difpiega all’anima certe idee. Ma la conneffione, che anno quelli moti con le noflre idee, è talmente riputata nulla, che dicono, che fi potrebbe udir per gli occhi, coai come per gli orecchj, e veder per quelli niente meno, che per quelli, ballando per ciò fare, che le leggi dell’unione tra l’anima, e il corpo follerò diverfe da quel che fono; il che per efler elle arbitrarie, non è imponìbile, Una legge di quella unione li è, che a certi moti, che fi eccitano in una delle membrane dell’occhio forga in noi l’idea della luce, e a certi moti in una membrana dell’orecchio quella del fuono.
Perchè non potrebbe egli e fiere, efiendo quelle cofe affatto indipendenti tra loro, che l’idea della luce lorgefie a certi moti della membrana dell’orecchio, e per lo contrario quella del fuono a certi moti della membrana dell’occhio? Perchè non potrebbe egli elfere più tofto, difs’ella, che realmente vi follerò tra quelle cofe alcune fecrete dipendenze, ma che i vollri Filolofi non le conofeeffero? L’ignoranza del volgo fi fuol ricoprire coli’ orinazione, e l’ignoranza de’ Dotti non fi vorebb’ella afeondere fra i dubbj, e le quillioni? La voflra quillione almeno, rispos’io, è ben ragionevole. Una debole Aurora appena fpunta fui nofiro Orizonte, che pretendiamo di vederci come in bel mezzo giorno. Noi facci ara tutto di, maxime nella Metafifica, come avria fatto il Colombo, s’egli averle prctefo di darci una compita detenzione dell’America, de’ popoli che l’abitano, del corfo delle montagne, e de’ fiumi di quel paefe, dopo averne folamente veduto qualche fpiaggia, e non fapendo ancora s’ella folle ifola, pur terra ferma l Noi ragioniamo fopra le chimere del noftro fpiriro, dtflruggiamo, e fabbrichi am fiflemi, muoviam dubbf, crediam niolverli, fenza convenir ne pur delle prime idee. Uno de’ più gentili fissiti dell’Inghilterra, che fa rivivere in quel felice paefe a’ giorni noflrf la bella, e pulita corte dì Carlo Secondo, in un picciolo, ma preziofo fertilo contro uno de’ più dichiarati Merafifici delnoiho fecolo, dice effe* eglino, come i ballerini, i quali dopo molti artificio!! giri pieni di maelìria, c di abilità, dopo molti fìudiati paffi, e molte capriole, fi trovano alla fin del ballo efser ne più ne meno in quel medefimo fito, donde fi partirono per cominciarlo. Ma come che fia di quelli ballerini dello fpirito,il fatto fi è pure, che certe cofe ne fanno nafeer altre totalmente da efse differenti. Gli Americani dovettero fenza dubbio maravigliar fi, che certe cifere, come le lettere dell’Alfabeto combinare infieme, pott fiero tramandar la Storia d’una Nazione alla. Polle riti,, é far che due perfone nella didanza di quattro, mila miglia fi comunicalfero i loro penfieri, si querelassero, e amoreggiassero, come fe fosser presenti. E i Cmefi non furon eglino oltremoda ^P cViTn vedere, che ceni fegni fopra alcune righe, de' suoni producessero, delle consonanze, e un concerto di musica?
Io gl'imiterò, disse la Marchesa, come nella loro sorpresa, così nella docilità, che e motoreno nell" abbracciare anco a cotto del loto amor crom o tutto ciò che noi infegnammo loro di Sev’ole Bifogntrà pur dunque fare una foffiSi di ciòcche vot chiamate rofev egiS &fi a qu, u* Filosofia che ce: Ufee forfè per lo noftro migliore. In venta, log siuns io, i° ammiro la vollra moderazione di acSSSSi a quefto Cartcfiamfmo che e per dir vero un poco ingiunofo alle Belle. Al tempo de la Filofofla d’Ariftotele, che volea, che le cmah Tmlro ne’ corpi, li potea avere un pò p«d«vanità della fua bellezza. Ma ora bifogna nnunv are a tu te quelle cofe, fulle quali prtncipalquella «niià li fonda Egh e -- che colla fola difrofizion di W****J™$£ beta voi fluiterete a fare tutto c»o, ■ «J™ fatto per Indietro col colore rOtfe; ma egh e. ro altresì, che egli è ito per ^mpre fenz gg* ™ alcuna di ricovrarlo giammai. In ogni caio le tSSZZi che auefto liftema che modo P«*»^ ornarmi ^^^ r T^ S*Si di e io vi prometto di non parlar giammai di Filosofia.
Fino a tanto, diss'ella, che un altro sistema non ci tolga anco quella disposizione di parti, che questo ci â lasciato, parmi che non abbiam di che temere, pe ic i ea,c non altra; coficche ^ e >fXr o n e che fa nafcere in voi d’un bel*£$ESi**^** nafcer qu e ao a ^nn Pionch glia, o d’un’olivaftro; e in qaeft» U 5 Siete fiamo in ficuro. Seriamente, m odo F auni, che harn ^ ^. rf ^ SS^’mSi. io non ne dubito; ma 2he poi ad una certa difpofmone di parti m uà corro cornfponda m tutti gli uomini la medeiiSeT di quello io non vipoffoaflicurare. Chi fa ere le fogHe di quelli alberi, che io veggo Jun colore, fhe io c^o verde, voi non le vedU? c d f un colore, che io chiamerei rodo, o già -? di aualche altro colore di cui per avventurato id^? V^i mi vorrei far troppo Fi (S, ditte la Marchefa, ed io non fapròpoi come vive re cogli uomini. Voi m’avete fatto levala corpi laluce, i colori, rodore il fapore J tutte Quelle altre cofc, ch’effi an fempre loro SS di buona voglia, e che fi fcandalezze- «bbono di fentire che fi voglìan levar loro. Ma tutto quello non vi balla. Voi volete ancora, che io dica, che ciò, che alcuni veggon verde, altri lo veggan rolfo, o giallo, o di qualche altro colore, di cui per avventura alcuno non avrà idea Si può egli aver minor riguardo agli uomini", che fon certamente perniali di veder tutu i colori della ftefla maniera? Vi dirò ancor prò, rifpos’io, poiché per ittiraar queih uomini, de' quali pare che voi facciate sì gran cafo, bifognerebbe non aver mai vi Auro con elfo loro. Chi fa, che quei ti alberi tnedefimi, ch’io veggo di una eerta grandezza, voi non li veggiate d’un’altra» coli ce hè ciò che io chiamo per e lem pio alto dieci piedi, voi non lo veggiated’un’altezza,che io chiamerei di otto, o di venti piedi? Voi vi pigliate {palio di me, rifpos’ella interrompendomi. Noi convenghiamo pure tutti e due nel dire quehV albero è alto tanti piedi, così come neldire quelle foglie fon verdi. Come adunque va quello affare? Così è, rifpos’io, noi convenghiamo delle parole, e non forfè delle cofe. Due popoli y l’un de’ quali chiamalle Re un primo Magilìrato, dalla cui buona, o cattiva digeflione dipendeffera la vita, e gli averi de’ fuoi fudditi, e l’altro chiamarle Re un primo Magilìrato, che non folle che il ratificatore, e il culìode delie leggi delia Nazione, alle quali egli fofTe, come gli altri, Ibgg etto, quelli due popoli converrebon delfuono, per cui dinoteiebbono il loro primo Magilìrato, e’ non della idea, che unire bbo no a quello fuono. A voi, e a me è Hata inoltrata da principio - una certa, mi fura ", la quale benché voi vedeile d’una’ grandezza, ed io d’un’altra, tutti e due però accordiamo a chiamar piede, perchè c’è flato detto quella tal mifura così chi amar fi. dagli uomini. Secondo quella, che è regola delle nollre mifule^ noì diciamo tutti;e due quell’albero -è. alto tanti piedi, benché a me polla parere più o meno’ alto T che a voi, fecondo che il piede pare a me più ò meno grande che a voi, e così tutte le altre cose in proporzione del noftro rifpWtiWj piade. dunque, che vo, no. vdu voi medelìma, e me cosi grandi, «me ©ve^go un di que’ Brobdingnagiam deh HvW, che voi concerete forfè per fama, ed io vegga «ai > e me così piccioli, come voi veder? un Lillipuziano, e tutto il reilo del Mondo in jjJ^ voi del mio *»b*a» |giano, ed 5 o del voto ^iliip^ìaoft^P^^nói potemmo vedere l’uno cogli occhj dell akro nel che io farei certamente un buon cambio, voi dhpiczzifte per la loro piccolezza l miei Colodi, ed io foiìì {paventato per la loro grandezza dai volili Pigmei. Potrebbe di leggieri U tteila iagione trasferirli a colori, del nome de quali, benché tra di noi tion difconvenghiamo, poi ham però difeonvenir del fatto. Tutti e due perdemmo chiamiamo 1, foghe di queftì alberi verdi, perchè da principio c’è flato detto il colore delle foglie efler verde, potendo efìere, che le voi vedefle,come veggo io, fofte maravigliata di vedere quefte foghe, e tutta quefta campagna d ua colore, che voi ehiamereite per avventura di ponx>ra, o che fo io. Perchè noi vediamo che gli uomini fi raiìomigliano appretto poco l uti l’altro nelle fattezze del corpo, avendo tutti due occhj, una bocca, un nafo, due gambe, e due mani, s’immaginiamo facilmente, che tutti debbano ancora raiìomigUartt nelle idee; e quindi a-vengono moki incomodi nella Società, che jiou avvrebbon forfè, fé gli uomini fo fiero un po più Filoiofi, che non fono. Quindi un Politico, quando voi avere tutt’altro in capo, che la sua Politica, vi vuol informare de’ fini, e delle intenzioni die’ Gabinetti di Europa, e del par t aggio ch’egli a. già fatto dell’Italia, immaginandoli egli, che fia imponibile, che un uomo, che raflomiglia a lui, non prenda nelle fu e vifìoni quella me dt firn a parte, che vi prende egli. Quindi un Cicisbeo vi trattiene fu le fue vane lagrime, e il fuo fofpir trilulìre, e quindi avvengono infiniti altri incomodi della Società umana, I Filofofi fero, ditte la Mar che fa, ne fono il maggiore con quefto loro voler rovefeiar le idee, che altri fi avea formato, volendo farci credere, che non tutti gli uomini veggano la medefìma cofa della medeìima grandezza, e del medefimo colore. Non fi potrebbe egli fare di trovar qualche modo per chiarirli, Ci veramente il Mondo da uomo a uomo ila tanto diverfo, come voi mi dite?
Questo modo non vi potrebbe e fife re, rifpos’io, fe non quando vi forfè una qualche mifura, che gli uomini fotte r ficuri di veder tutti della medefìma grandezza attolutamente, e certi colori, che tutti parimente foffer ficuri di veder nella fletta maniera, ed a quelli pofeia riferiffero gli altri colori, e le altre grandezze a quella; ficcome que* due popoli, che fi ferviflero della medefìma parola di Re per ef prime re il loro primo Magiltrato, benché diverfo in effetto, non potrebbono venir in chiaro delle differenti idee, che applicattero alla fletta parola, fe non definendola, e riferendola ad altre parole, e idee più semplici, delle quali tutti e due convenissero. Ora il rosso, il giallo, l'ultima misura, che possiamo immaginare, sono per le stesse idee così semplici, che non si ponno nè definire, nè comparar con altre più semplici, e perciò ci manca il modo di sapere se tutti le concepiscano nella stessa maniera, o nò: talchè gli uomini anno certamente gran torto di credere così fermamente, come fanno, di veder tutti il Mondo nella stessa maniera; ed egli è un gran caso se questa volta anno ragione.
Ma che male in grazia ne feguirebbe egli a dire, che ogni uomo vederle il Mondo differentemente dagli altri? a dire anco, che questo Mondo non vi è di forte alcuna, e che tuttiquefti corpi, quefto Sole, quelle Stelle, e quelle Marchefe non fono, che fogni, e apparenza? V a chi dice, che balìa arr dormito una fola volta invita fu a per eflerne convinto; colicene nel tempo, che alcuni difputano in qual maniera quello Mondo debba ellere, alcuni altri negano del detfo ch’egli vi fia. lo benché abbia dormito pm éfobk volta, non vi predicherò certamente un iiftsma che vorrebbe vicendevolmente dilrrugsjerci l’uno all’altro: Vi affieurerò più torto, che non ottante che gli uomini veggan divellamene te quello Mondo, ch’io voglio pel mio interrile confervarvi; tutti s’accordano però a dire queit albero è alto tanti piedi, e le fue foglie fon verdi; voi fière d’una giù Ha ftatura, e d’un bel colore. b. non farebbe egli quefto più rollo uno fpareer d’un’infinita varietà la Natura, la qual si vede, che anco nelle più picciole cofe s’è di variaifi in mille maniere? Ma qual piacere per voi d’immaginarvi d’cfler veduta dagli uni dell’altezza d’un Idoletto, dagli altri della Flora Farntfe, da -ehi di tinta azzurra co’ capelli verdi d’una ISereide, e da chi di tinta rolla come un rubino co’ capelli rofei come l’Aurora, e in tali differenti fembianze piacere a tutti, ed effer da tutti cosi adorata, come le Deità 10 erano altra volta fotto diverfe forme dagli Antichi? Io vi confesso che quefta immaginazione, che ogni uomo veda il Mondo differentemente dagli altroché poi, fé volete, altro non è, che un dubbio, mi dà tanto piacere, che io non fo feriipolo alcuno di portarla anco di là della grandezza, e de’ colori, al fapore, all’odore, e alle altre qualità. ìo ho detto Je volete per farvi piacere, poiché fe li riguarda al veder che fanno gli uomini il Mondo cosi diver fa mente da quello, eh* egli è, fumando certi corpi lifei, e continuati, che fon pieni di pori, di cavità, e di prominenze, limandogli avere in fe il colore, il fapore, e le altre qualità, che non fono, che in noi, al veder che fanno quelli medefimi corpi di veramente fecondo la diilanza e le ali re cìrcollanze in cut 11 veggono, non fo, perchè ancora non fi poffa dire, che ogni uomo li vegga diverfamente dagli altri uomini, e che s’ingannino in quello loro giudizio di creder di vederli della itefla maniera, cosi come s’ingannano negli altri. Almeno’ tutto ciò può dar diche dubitarne ragionevolmente. Voi direte per avventura, che questo fi è un afcouder Ignoranza fra i.dubbj, e lequiftioni. Ma quella fi è pure una delle par* i -d» Filofofo, di ricercare i motivi, onde dubitar ienfatamenre delle cofe; anzi per nofira imgura m ciò forfè coniìite la miglior parte della Filoluha. Senza che noi fcorgiam pur chiaramente molte volte, che i rocdefimi oggetti fon veduti diverfamente da diverti uomini. Per non parlar delle cofe più importanti alla Morale, alla Giurifprudenza, e alla Politica, nelle quali ciò che e ap; prefio alcune Nazioni un oggetto di thma e di edificazioae, lo è appreffo alcune altre di abominazione e di fcandalo; non fi vede egli che m un fecolo le Dame fi fan cacciar del fangue per affettare un pallore, e una languidezza, che infpiran i più vivi fentimenti in un tempo, in cui una faccia bellettata parrebbe una Furia; e in un altro fecolo quella medefima Furia è una Venere, e fi manda alle pallide di bei fentimenti in vece, e di fofpiri, il Medico, o ilrofTetto? Ma quelle medefime Cicale, che colle nojofe loro itrida c’infafiidifcon tuttavia, non furon’elleno chiamate dolci annunziamo della State da un* antico Poeta? Va delle nazioni intere, che a lìngolar bellezza recano l’avere i denti neri, altre che fi dipingono un’occhio di bianco, e l’altro di rollo, o giallo; appretto alcune altre un Damerino fi fa de’ sfregj e de’ buchi nella fascia per parer più vago ad una fozza creatura, che fola a lui par Donna. Un comporto di carne olivaftra con una tefìa aguzza, due fori neri, un nafo abortivo, e due piedi di pupaz2a, gran passioni cagiona, verfi galanti, e lettere amoro fé nella Cina. Le nofire Galatee, e le nolìre Veneri non avrebbon nè un biglietto, nò un verfo, c farebbon* ivi caricature. La Letteratura conduce nel medefuno Paefe a’ primi gradi nel Governo, e vi fi fanno più cirimonie per creare un Dottore, che non fe ne fanno per avventura in Polonia per eleggere il Re. La Mufica, e la Danza, che fon tra noi, come già altre voice appreflo i Greci, uno degli efercizj delle perfora Nobili, non fon’elleno riguardate in Periia, qual già nell* antica Roma, come impieghi fcandalofi;e quefte medefime Donne che danno tanti moti, e tanta inquietudine all’Europa, non farebbono elleno nell’Oriente tenute chiufe in un Serraglio, e guardate dagli Eunuchi? In verità che fe non vorremo porre quefta differenza di vedere il Mondo tra uomo e uomo, converrà almeno porla tra Nazione e Nazione, come tra gli Orientali, c noi; fe per avventura non fi voleffe fare un’eccezione in grazia delle pazzie, che pare abbiano fùl genere umano diritti più eiìefi, e piùuniverfali. Gli antichi Greci, i Romani, gli Orientali, e gii Americani Nazioni per tante terre, e per tanti mari dtfgiunte, ebbe* comune la follia di creder,che la Luna, allorquando fi eecliiTa, ciò che avviene per l’ombra delia Terra, che l’ofcura, fofle per un modo, o per altro in gran pericolo e in gran travaglio, nel qual credeano di foccorrerla, c farle animo col fracaffo, cogli urli, cpUe grida, e collo fhepito delle lor ciancierc.
Voi vi siete raddolcito un poco, ripigliò la Marchesa. Un certo entufiafmo Filolofico vi avea prefo di voler rovesciar affatto ogni cofa. A buon conto quanto alle opinioni, che fi chiaman pazzie, voi vt fìete piegato. Quanto alle altre; io fon contenta, che voi mettiate quella differenza d’idee così lontana, come l’Oriente è da nei. Noi le difporremo per ora, foggiuns* io, quelle differenze fecondo le Zone, e di tratto in tratto da Oriente a Occidente, e a mifura che vi farete avvezzata alla Filofofia, le ravvicinammo tra loro a grado a grado, finché arriveremo a porne alcuna ria voi e me, e perfino tra gli occhj di certe perfone, che con l’uno veggono gli oggetti più grandi, che coll’altro.
Come farebbe egli mai ciò possibile? diss’ella; Voi fiere inlaziabileUieilc vofire vifioni, e volete far l’ultime prove delle perfone. Non folo volete por della differenza tra uomo e uomo, ma fino tra occhio ed occhio del mede fimo uomo, lo vi confeffo, che vi trovo bene intraprendente. 11 Gaffe ndo, rifpos’io, un de’ celebri Filofofi del parlato fccolo, non dice egli di fe med efimo, che con un occhio vedeva i caratteri d’un libro più groffi, che coll’altro? Voi vedete, che la colpa non è mia, ma degli occhj del Gafiendo. Molti altri ne troverete ancora con tali occhj colpevoli, fe gli uomini egualmente curioii foriero di efaminare i loro fenfi, che occupati fono in fervirfene. Si dice pure effervi alcuni, che veggono certi corpi di color giallo guardandoli con un occhio, e di color verde, o azzurro guardandoli coll’altro. Ma non s’osserva egli tutto giorno che ciò, ch’è giudicato freddo dall’uno, vien giudicato caldo dall’altro? Anzi la me defilila cofa noi ftem ora la giudichiam fredda, ed ora calda fecondo la differente disposizione, in cui fiamo? Ciò, che flato farebbe per un Mi Ione Grò toniate, lifeio come uno fpecchio, non farebbe egli flato per quella dilicata Smirindide, che non potè dormire una notte, perchè una foglia di rofa, ond’ella avea fparfo il letto, s’era piegata in due, non farebbe ègliliaro afpro cóme l’ortica? E quelle. diffe rea ri fenfazioni cosioppofte tra loro, come è il freddo, e il caldo, il hfeio, e I afpro, non vengono elleno dalla differente difpofìzione de* fenibrj, dalla diverfa aifezion de’ nervi, o dà uni tenitura più, o meno dilicata delle parti deftinate a portar quelle fenfazioni al cervello? Perchè adunque non potrebbe egli avvenire, che quelle differenze foffero anche nella membrana, o pelliccila dell’occhio, in cui lì dipinge l’immagine degli oggetti, e ne’ filamenti del nervo Ottico, che portano quella immagine al cervello? onde ficcome riceviam divcrìe fenfazioni del freddo e del caldo, del iifcio e dfcll’afpro d’un oggetto; così ne riceveilì mo ancora diverfe del colore, o che fa io.
Questa immagine degli ogge tri, dille la Marchefa, che fi dipinge in una membrana dell’occhio, e qurfto nervo Ottico, che la porta al cervello, avranno per me bifogno di fpiegazione, affinchè io polla entrar meglio nel veltro pen fiere. Non fapete voi, rifpos’io, che quella fpiegazione nulla meno farà della fpiegazton della vilìone, cioè a dire della marnerà, onde noi vedtamo? Tanto meglio, replicò ella. Egli mi pareva in verità assai strano, che avendomi voi parlalo un,to della diverfa maniera, con cui polTum veder le cole non mi dovette mai parlar della maniera, con cui vaiamo. Io non /raderò dunque, n/pos io, più lungo tempo. a tfmfi^gS* Arandovi la maniera con cui mi ve -et e, parade anco quella di vedermi un P o altrimenti che non fate.
A due accidenti principalmente e feg^eua k luce, alla riflefiìone, ed alla reazione. La riflessione succede quando i globetti della.luce lutando nelle parti folide de; corm, *^Z$£i no i Carrettini, ribalzano indietro, «m^upalla fa, quando urta contro la terra, t queLU equella luce di nflelììone per cui noi ved a -1corpi tutti, la Luna, i Pianeti il Cielo e tuuele altre cole, coìtone il Sole e e Stelle, la Hamma, e gli altri corpi qui m terra, C^ 1 ^ me da fe. La Rifrazione succede, quando i globetti della luce- pafsando per esempio dall'aria nell'acqua, o nel vetro, e incontrando ne pori, U ne’ vini di quelli corpi, vi *co> però che il raggio, che non ^ckouoa nlza,o ferie di globetti, fi rompe e devia dalla luailrada, ^drizzandoti egli nel fuo fafeaggio a tra,mente da quel che faceva innanzi. 1 corpi aUm, o trafparenti, che dan paffaggio alla lu.e,come l’acqua, l’aria, il vetro e il chiamano mezzi; E quindi fi dice, che la reazione fuccede nel pattar, che fa la luce da un mezzo in un’altro; e tanto ella è maggiore, cioè tanto più fi rompono, e deviano dalla loro ftrada i raggi, quanto più in denfìcà di veti! fono rra loro i mezzi, per li quali la luce palla facce divamente. Com più rompono i raggi pattando dall’aria nel vetro, che dati* aria nell’acqua, ellendo molto più denfo il vetro, the non è l’acqua, e più rompono ancora palTando dall’aria nel diamante per la m ed clima ragione.
Se questo fosse il luogo, disse la Marchefa, di far la critica a’ Poeti, fi potrebbe dire, che il Tasso non à parlato con molta efattezza, allorché parlando d’Armida dille:
Come per acqua, o per criftallo intiero Trapajfa il raggio, e noi divide, o parte, Per entro il chiù fa Manto ofa il penfiero Si penetrar nella vietata parte.
Egli pare che non s’accordi in quelli verfi colla Poef a l’Ottica, la quale i on permette in nefluna maniera al raggio di trapalare intiero. Forfè, rifpos’io forridendo,che il Tasso à intefo parlar di que’ raggi, che cadono nell’acqua, o nel crirtallo perpendicolarmente, cioè fenza elTtr inclinati, rifpetto alla fupeificie di quefti mezzi, nè dall’una parte, nè dall’altra, come appunio farebbe un filo, a cui folle atraccato un piombo lopra il fuolo; poiché in quello cafo i raggi parlano oltre fenza romper fi, e feguicano a tenere la mede lima ftrada affatto, che tenevano innanzi. Ma la verità fi è, che i Poeti non parlano nè a’ Dotti, nè a voi, che avete k rifrazioni in tefta; ma parlano al popolo, e per arguente debbono fcrvirfi moke volte a % pregLudizj, «d; quelle opinioni, che fon nel popò o; e purché le mrna|ini fteo vive, veementi gh affètti, ed armonio!» refpreffione, fi può loro perdonare qua ^ errore d’Òttica. Che direte voi del licenziofo Ovidio, fe non che troppo poetica è quella il qual fa fcorrcre in un giorno tutti 1 legni aei Zodiaco al Sole, quando l’efatra Allronomia non. gli prefcrive che la trentèlima parte in circa d uà Iglò pel Aio corfo giornaliero f Nel fecondo de g ll’Eneide,il capo d’opera della fubbme Pocfij, fi trova una bella immagine che efammata dall Ottica perde tutto perdendo la giallezza Enea avvizio fogno da Ettore dell’irreparabil ruina della Patria, monta fu un torrazzo de la fua caia, e vede in fatti le infidie de’ Greci, che in peni lato raanifeftavanfi, il palagio di Deifobo già diJlrutro, il fuo vicino Ucalegone che ardea, e e fiamme della, dieci anni m vano combattuta Città, rifplender nel Mare; il che per la ùtuazione in cui egli era, non poteva /accedere. Ottici tutti vi diranno, che avna bifognato per ciò fare, che il Mare folle Hata di mezzo tra lui, e le fiamme della Città, il che non era. Ma chi non perdonerebbe quello errore che noa è veduto da nefluno, per quelli due vera, che tutto il Mondo gulla?
E V incendio dì Troja in ogni lato
Ritocca di Sigh nella Marina. Ma parlando di nuovo dalla Poefia alla Fifica; il
qual pafftggto voi m’avere refo familiare; diverfo è il modo -del romperti de’ raggi della luce, d a un mezzo raro in un denfo, come dall’aria nel vetro, e da un denfo in un raro, come dal vetro ne 1l’aria. Io intendo Tempre parlar de’ raggi, che cadono fu quelli mezzi obbliquamente, e con qualche inclinazione, poiché i raggi che vi cadon perpendicolarmente non foffrono, come lapete, deviazione alcuna. Se adunque immaginerete, che un raggio di luce venga obbliquamenre dall’aria fopra la fuperficie d’un vetro, egli fi romperà in modo, che farà dopo il fuo paflaggio meno inclinato ali* fuperficie del vetro, e dentro immergend ovili, fi accollerà più all’e (Ter perpendicolare. Goà un raggio, che partendo dagli occhj voftri and al le a percuotere il mezzo di quella rotonda vafca, lecca ch’ella foffe; riempita poi eflendo d’acqua, come ella è ora, non può più dirittamente aquel punto di rimafcorrere, ma entrando nell’acqua fi torce in modo, che viene a cader più in qua, ed a percuotere il fondo della vafca in un fuo piùvicin di noi. Ed ecco tutte le linee, e tutte le figure, che io vi fegnerò.
In fatti che bisogno v’à egli, rifpofe la Marcherà, di linee, e di figure per intendere, che un raggio pattando dall’aria nell’acqua, o nel ve, tro, «etra torcendoli verfo di elTo, traendo all’efler perpendicolare? E il contrario non fuccederà egli pafsando il raggio dal vetro nell’aria? Cosi è per l’appunto, fifpos’io; Egli è in quello cafo più inclinato dopo il pafsaggio fuo alla superficie dell'aria, che rocca immediatamente il Vetro, il difcolh puì dall’ef>er perpendicolare, e fi avvicina e uen come dietro alla fuperhcie medefima dell’aria.
Quelle deviazioni de’ raggi, cn eran no e benché molto imperfettamente agli Antichi, e la cui confiderazione à in gran parte perfezionato rAihonomia,ion cagione d’unamfimta di bizzarrie, che li ofscrvau tatto giorno, come del vedere eli oggetti fuor del luogo loro, quando lori guardati col prifma, del veder rotto il remonell acqua, del vederli nel bagno sfigurati, e contrafarli Ecco una cola, mi interrupp ella, che io non 4 molto, effendo nel bagno, oflervai attentamente, che mi forprefe, e di cui m inquietava la ragione. Altro ella non e, foggiuns io, che la rifrazione che (offrono i raggi pallando dall'acqua nell’aria. bgli farebbe una buona coft lo friegarvene minutamente gli effetti, c gli lcneiS fui margine del veltro bagno. ba F ete voi quanti cunofi d’Ottica farcite? La cunohta, rifpos’ella, non farebbe appunto, che per 1 Ottica. Ma qualunque- ella folle, farebbe fempre maggior quella di fentirvi aggiungere a quello fenomeno ciò, ch’io v ho poco fa indifcrcramente interrotto. Quelle deviazioni adunque de’ ragg’, continuai -o (le un cosi beli’ Epifodio non dee tar ifcoi-darc il fi io d’ogni cofa ) oltre le mentovate bizzarrie, fon cagione altre*! del vedere il fondo de’ vafi, e de’ fiumi molto più alto, ch’egli m fatti non è, del difeoprir più lungi in mare, che non fi farebbe, e del falurar perciò molto più presto nelle lunghe navigazioni la de fiata terra, del vedere il Sole, e la Luna piena della figura d’un uovo, quando fon vicini all’Orizonre, e fimili altre cofe, le quali avvengono, perchè i raggi da quelli oggetti all’occhio nortro arrivano, come dicevamo, per via delle rifrazioni come vegnenti da’ luoghi differenti da quelli, ove fono gli oggetti medefimi. L’occhio che noti fa nulla di quefte rifrazioni, riferifee fempre e trafporra gli oggetti a que’ luoghi, donde pare che i raggi vengano, cioè a dire vede nella direzione de’ raggi, che lo penetrano e lo ferifeono; ond’è, che* la figura e il ino delle cofe per via di raggi rifratti vedute vengono ad alterarli, Se io, non fapendo nulla d’Ottica, la prima volta che ho avuto lonor di vedervi, avelli avuto agli occhj un prisma, il quale nel rifrangere i raggi, che da voi mi veniano, avefie loro dato quella direzione eh* elfi avrebbono avuto, fe venuti foflero dal Cielo; io vi avrei certamente veduta, come trafportata laf.ù nel paefe delle favole, circondata da una varietà infinita di colori, e vi avrei pregato a discendere, come Endiraione la Luna, facendovi qualche fiorirà detenzione d’un’ombrofo bofehetto, o d’una folitaria valle per invitarvi a lafciare il Cielo, e le Stelle. E tutto quefto farebbe nato da quella direzione, che il prifma avrebbe dato a* raggi, che da voi farebbon venuti all’occhio mio.
Mi pare, dissee la Marchesa, che gli uomini vedano fempre coloro, che fono in una condizione molto elevata fopra di eflì attraverfo certi prifrai, che glieli fanno comparire come trasportati in Cielo a gufarvi l’ambrofia, e il colloquio degli Dei circondaci dalla beatitudine e dalla gloria, laddove per lo più e fjno in terra più che altri, e più che altri foggetri a provare f infoiente giuoco della Fortuna. QielU comparazione tanto più è vera, rifpos’10, quanto eh-, ticcome lafcìando il prifina, fi veggono gli oggetti ritornare al luogo loro; coà lafcìando 1 principi del volgo, e facendo a quelli quelli del buon fenfo fucccderc, vediamo quefti Semidei affatto fimili agli altri uomini, e in una condizione da non effer loro molto invidiata. Del rrfto infiniti fono i giuochi, che un’occhio Filolòfico s’accorge rutto giorno avvenire dal mutar direzione, che fanno i raggi, non folo per via di rifrazioni, ma di anemoni ancora. Quindi vengon le maraviglie tutte degli fpecchi concavi, che al Cancor delle Apii minuti membrerti, e lediltcate parti di quefto nobile ed induftriofo infetto ingrandivano.
In guisa, tal che l’Ape sembra un Drago,
Siccome egli ne canta; e con quelli le Vertali riaccend vano il fuoco facro, fe mai fofTe venuto a mancare. Qjmdi le favole degli fpecchi d’Archimede, e di Proclo, e fu ciò l’ignoranza, e l’irnpoftura a fatto di quelli fpecchi uno de" ftr urne riti favoriti della Magia. Ma tra i fenomeni, che dal mutar direzion de’ raggi per via di rifleffioni nafeono, voi farete per avventura forprefa di trovarne uno, che avete tutto di per le mani, e al quale voi non fate forfè la grazia di coafiderarlo come un fenomeno, e molto meno di maravigliarvene. Qual è mai, difs" ella, quello fenomeno cosi difgraziato nelle mie mani? Quello fi è il vedere, rifpòs’io, che vói fare ogni mattina voi medefirna di là dallo fpecchio, allorché vi confutate colle Grazie della maniera, onde dare nn’- artifici ofo difordine a’ voilri capelli. Quello avviene, perchè tutti i raggi, che da ogni punto della voi’ìra faccia vanno allo fpecchio, fi riflettono in modo all’occhio volito, come fe ve ni (fero da altrettanti punti, quanti ne fono nel voitro volto, e lontani tra loro, ne più ne meno, e che fodero altrettanto di là dallo fpecchio, quanto voi fiete di qua; e per confeguente voi ne vedete la vofìra immagine in altrettanta diftanza, affa rto funi le a voi, e dal piacer di quella a voi, voi prendete norma del piacer di voi rnedefima agli altri. 11 faraofo iMilton à gentilmente efpreffo nel fuo fublime e ftravagante Poema il piacere, e la maraviglia infieme, ch’ebbe Eva la prima volta ch’ella fi mirò in un cheto
Limpido Lago, ch’altro Ciel parea
E la sua immagine le parve sì bella, che novello Narcifo, ella non a" difficoltà di con te (far poi ingenuamente ad Adamo, che.benché egli le piacene, le piaceva però meno
Dell’immago gentil vista nel Lago.
Non vi a gli della malizia, soggiuns'ella in quello tratto del Milton, e il vero senso non ne farebbe egli, che la cosa, che piace il meno alle Donne, Lo a fi onte d’un'immagine e di un'ombra, debba c fiere il manto? Per altro io con £S£2££ noftra prima Madre i avute, graa££* io quello; ed io grandinìi noi cominciamo a veder quelle buon’ora, perchè ci faccino una ce «J ^P re ^SS guarderò nello fp-chio con una fpecie di piacere, che avrà del Filolofico.
Ncffun piacere tra i Filosofici, continuai io, è maegior di quello di conhderare i varj giuochi, che fanno’ i raggi della luce piando frtraverfo un vetro d’occhiaie goboo, ^onjcffo a tutte e due le parti, e che per la iomignao za, eh" cgh à con un grano di lenticchia i chiama lènte; dalchè dipende la fpicgzion della vifibne. Sfc due raggi di luce yfl r«/Wi tra oro cioè a dtre,che confervm fempre tra loro la medclima lenza nè avvicinarli, nè alontanarfi come fé fpalliere fanno di quelli viali, cadono, fopra una len*e, lì vanno per via della riftano* che (offrono ad unire di là da ella m un punto, che fi chiama il foco della lente; U quale e più, o meno lontano, fecondo che la lente e pm o meno eobba, o convelTa, coOcchè a minor conyeUi a corrilponde maggior dittane di foco, e minore, a convessità maggiore. E quella didanza del foco, è ciò, che qualificali lente, dicendoli: quefta lente à tanti piedi di foco, quell’altra ne à tanti, non altrimenti che fi dice: quella machina pnò alzar l’acqua a tanta altezza, per qualificarne la potenza e Fattività. Io m’immagino, difle la Marchefa, che la ragione, per cui quel punto si chiama foco, è, perchè in elio bifogna porre la candela per accenderla, fìccome ho veduto fare al Sole con un di quelli vetri da uno, che s’impegnò di accendere una candela fenza fuoco. Egli poteva, nfpos’io, anco impegnarli di accenderla col ghiaccio, non che fenza fuoco; poiché una lente di ghiaccio per un pò di rempo, fa il medefimo effetto, che una lente di vetro; ilchè Dio fa quante impertinenze avna fatto dire a’Pueti in quel tempo, che diceano:
Deb Celia all’ombra giace! Venga chi veder vuole Giacere all’ombra il Sole.
Ma la voftra ragione è buoniflìma. Queir incendio che fegue in quel punto, là dove la lente unisce i raggi prima paralleli, ed abbrucia, è la cagione appunto, perchè elio fi chiami foco. Tutti i raggi poi, che non fono paralleli tra loro, ma che partendofi da un punto vanno viepiù frodandoti l’uno dall’altro, e che fi chiamati divergenti, fi unifeono di là dalla lente in un altro punto, che è fempre più lontano del foco della lente medefiraa. Quindi si dice, che la lente conveffa rende convergenti i raggi paralleli, e divergenti; poiché convergenti si chiamano que' raggi, che da varie parti tendono ad unirli il un purfto, come fanno i viali dì que* bofchctti chiamati Stelle, i quali da varie parti tendono tutti 5 unirli nel mezzo del bofehetto medefimo Quelli viali, m’interrupe la Marche fa, il potrete-, bono anco, mi pare, chiamar divergenti per uno, che folle nel mezzo del bofehetto, da cui fi partono allontanandoli Tempre l’un dall’altro. fc non Vi manca, rifpos’io,o Madama, che di fcattao: lare un po’ di Euclide e di Apollonio, di pam di tempo in tempo qualche dilazione, e vot iìete Geometrefia.
Ma per seguitare la traccia di quelli raggi, che abbiam cominciato; più il punto, donde i raggi divergenti partono, è lontano dalla ente, c più è vicino alla lente, e al foco di ella il punto, in cui li unifeono; e per lo contrario pm e vicino alla lente il punto, donde i raggi divergenti partono, e più è lontano dalla lente, e dai foco di efla il punto, in cui fi unifeono; purché però il punto, donde quefti raggi partono, noniìa a certe tali diftanze dalla lente; in cui non li unifeon più, ma ne efeon fuori o paralle 1, o divergenti. Gli Ottici per indovinare gl ninniti scherzi, che quefti raggi ponno fare, col foccorfo di una certa feienza chiamata Algebra, il cui dominio fopra tutta la Finca dittefo, agli uh civili refafi poi neceOaria, a valutar gli azzardi de giuochi il più alla bizzarria della Fortuna fogget.ti, mercè Tingegnofo intereue, s’è insinuata, ed à per fino ne’ liti gioii mondi della Giurisprudenza, e della Morale penetrato; anno fera p re in pronto certe lettere unite tra loro con certi fegati, ch’cffi chiamali formule. Con quelle, purché fia loro noia la qualità della lente, cioè la dilìanza del foco di ella, e la dittanza del punto, donde partono i raggi che fopra la lente cadono, o pure la diftanza del punto a cui tendono i raggi, fe cadenzerò fopra la lente convergenti; vi fin dire in un batter d’occhio fe li uniranno, o nò, fe ufciran dalla lente paralleli, o divergenti, e in qual punto fi uniranno, con una certa fpecie di Magia, la quale non faria per avventura reltata impunita in que* tempi, quando ne porea moverli la Tcira, nè eintere gli Antipodi impunemente.
L’unirsi de’ raggi divergenti da varj punti in altrettanti punti di là dalla lente, che pare una cofa per fe fttiìa aliai indifferente, ci fom ministra uno de* più belli fpettacoli, che polliate idearvi giammai. Se ad un foro fatto nella fìneftra d’una camera ofcura li applicherà una lente, e dietro in faccia ad ella lì porrà in una certa diftanza una carta bianca, voi vedrete fopra quella dipingerli al rovefcìo tutti gli oggetti, che fon fuor della fine lira, e mafiìme quelli, che ftanno dirimpetto alla lente con una vaghezza, vivacità, e mollezza di colori, che un paefe di Claudio di Lorena, o una veduta del Canaletto vi perderebbono molto al paragone. Voi v’accorgete della dilìanza degli oggetti, o dell’innanzi, e indietro, fecondo che chiamano i Pittori, non altrimenti, che fareste in un quadro, cioè dalla pieeiolczza degli oggetti che fon più lontani, da un po’ di con fu lione e sfumatezza che vi li (corse da una cena degradazione e battezza di tmtc ed infine della più efatta profpemva, quel gran feereto dalla felice arce dell’inganno la Pittura, che accompagna ed ajuta tutto ciò. Il moto coi, c la vira che anima da per tutto quello quadro, non vi pollo efpnmere quanto piacer, cagioni. Gli alberi fon realmente feoffi qua, e la dal vento, e l’ombre loro ne fecondano il moto, eh ardenti faltellano; cammina realmente il Pa~ flore; una Nave veleggia da un capo all’altro del quadro, e il Sole variamente fcherza full’onda roti a, e gorgolianre. La Natura fi ritrae ella lieifa al rovcfcio, e in miniatura.
Egli è un peccato, dille la Marchefa, che quella cocì bella pittura di mano di cosi eccellente Mastro venga al rovefeio; del che per altro io non intendo la ragione niente più, che la iraniera ond’ella fi formi. Supponiamo, rispos’io, i he fuor della finefìra in faccia alla lente vi folle una freccia polla orizontalmenre, cioè ni quel modo che è la foglia della fìneftra. La punta della freccia fia a mano delira, ed il pennoni a fin dira. Immaginatevi che l’eiUemiià delta puma mandi de’ raggi fopra la lente, che la rico pran tutta. Quelli vanno ad unidi di là dalla Lente me J ciana m un altro punto, ina nei pà dare, che fanno ai traverfo di eiTa, laddove’ prima erano a mano delira, come quelli, che venivano dalia puma della freccia, che supponiamo essere a destra, fi ritrovano e Ile re a fi ni fi ra. Similmente il punto efhemo ed ultimo del pennone manda de’ raggi fulla lente, i quali fi uaifcono in un akro punto, e fi ritrovano dopo il padaggio loro per la lente, effere a mano delira di a finiilra eh"erano; in quella maniera appunto, che fe uno tenendo due canne una per mano, l’incroccialTe iniì eme; quella che innanzi l’incrocciamento, era a mano delira, dopo l’incrocciamento fi troverebbe effere a finiilra, e per lo contrario quella che era a finiilra, a delira. Ora i raggi nella lente s’incrocciano nella medeflma maniera, che le due canne nel punto in cui fi toccano. Il medefìmo fi può dire, chi metteffe la freccia in piedi, de’ raggi che venendo dalla parte fu periore di effa rellano dopo l’incrocciamento, e paffaggio loro per la lente nella parte inferiore, e di quelli che venendo dall’inferiore, reiìano nella fuperiore. Eccovi adunque cangiato ogni cofa in quelli raggi; ciò che era alto, è divenuto baffo; e ciò che era baffo, alto; ciò ch’era a mano finiilra, è a delira; e ciò ch’era a delira, è a finiilra. Se adunque fi porrà una carta dietro alla lente in quel luogo, dove quelli raggi li unifeono, eglino vi dipingeranno fopra un’immagine della freccia, in cui la punta farà a finiilra, ed il pennone a delira, che vale a dire l’immagine farà al rovefeio dell’oggetto. Ciò che v’ho detto della freccia, potete agevolmente trafportarlo a qualunque oggetto, ad un paefe, ad una piazza, o che fo io, con quefta differenza però, che tutte le parti di una piazza, o d’un paese non ponno esser nell' immagine egualmente dutinte, come fon quelle della freccia, imperciocché unendoli i raggi in diverfe dulanze dalla lenie fecondo la diverta di- (lanza de’ punti, da’ qual vengono, fe per efempio nell’immagine un oggetto, che fia nel mezzo di quello viale verrà dittmto; il che farà fe la carta farà polla nel luogo, ni cui fi unifeono i raggi, che da elio vengono; quelli che fon più vicini non lo porranno effere, perchè il punto dell’unione de’ raggi di q ut iti è più lontano, e quelli che fon più" lontani ne meno, perchè il punto dell unione de’ ra^gi loro è più vicino, e per confeguente i raggi si di quelli, cne di quelli arrivano alla cana^dìfnnìti, e non vi ponno dipinger che un’immagine, i cui termini liano sfumati, e languidi, che vale a dire coi» fu fa. Bifognere bbc adunque avvicinar la carta per gli oggetti lontani, e allontanarla per Li vicini.
Bisognerà ora, dille la Marchesa, che vi provvediate d’una lente, e che mi facciate veder falla carta alcuna di quelle belle ville, che abhiam qui d’intorno, perchè io vi confetto che ne fon cunofa, e come Donna, e come Donna mezzo Filofofeila. Bifogneria, rifpos’io, aver una lente in pronto per fod disfar fubito a quella volita curiofità, che per quel che voi dite dee ellere infi ina. Ma faremo di fodisfarvi il più preito che fi potrà, tanto più che io credo, che una camera ofeura non fia il peggior luogo del Mondo per trattenere una Dama. Ma che direte voi quando in quella camera Ofeura io vi dirò: immaginatevi di essere in uno de’ vostri occhj, e di dere ciò che vi si fa.
La camera oscura è l’interiore del nostro occhio, eh 1 è della figura a un dipi-elio d’una palla; il foro nella finetrra è la pupilla, che è nella parte anteriore dell’occhio, e che apparifee in tu ui scoine un foro nero ora più grande, ed ora più picciolo; la lente è l’umor crillallino, che ne à appunto la figura, e che ftà in faccia alla pupilla tenuto fofpefo da certe fibrille, chiamate prò ceffi ciliari, che partendo da una tunica, o forriliiììma pelle, che circonda di dentro l’occhio, vanno a piantarli ne’ margini di lui, la carta fu cui li riceve l’immagine degli oggetti, è la retina formata da’ filamenti e dalla follati za midollare del nervo ottico, che è dalla parte di dietro attaccato all’occhio, e che è il gran canale di comunicazione tra elio, ed il cervello. Gli fpazj, che fono tra la parte anteriore dell’occhio, e l’umor criftallino, e tra quello, e la retina, fono riempiri di due umori meri denlì dell’umor criftallino, ma più denfi dell’aria. Mercè tutto quello apparato,. non altrimenti che nella camera di. poc’anzi, lì dipingono fulla retina in miniatura gli oggetti eflcrior.i, e noi vediamo.
Io non credeva certamente, ripigliò la Marchesa, d’essere trasportata cosi ad un tratto dalla camera oscura, dentro al mio occhio, e quel bel quadro di poc’anzi, aver tanto che far colla visìone. Molti dovettero, foggiuas’io, innanzi a voi ofler vario, fenza fofpeaar, ch’egli vi avelie nulla che fare. Balla che iu una ilanza per altro oscura vi sia un foro, un pertugio che non ecceda una certa grandezza, perchè sulla muraglia opposta, o sul pavimento si veggano dipinti gli oggetti, che son dirimpetto al foro. La lente, replicò la Marchesa, non è ella necessaria a questa pittura? Ella è necessaria, rispos’io, per darle in certa maniera l'ultima mano, ma anco senza di essa, purchè il foro sia picciolo, e la muraglia opposta, o il pavimento non molto lontano, a ra^^cnc X pel foro fono aliai vicini, onde non abbiano a confonderli, e poffan d%m| e» Al to, o falla muraglia una competente»m«a*g£«leali ometti eikrni. Se egli avviene che 1 umor S divenga opaco, nel che «niillHa ca. «ratta, non va altro rimedio in quello ca io per ricovrir la villa, che far* lo deprimere tagliando que’ Filamenti che lo tengon fafpeffl; e a aia Lò dipinger fnlla retina di quelli *fai qual immagine degli oggetti. Ma feagi bpiuma nella ftanza ofeura e molto pm debole 9 £confuia, quando non fi applica al oro ^""»lente, Si lo è quella, che fi fa falla fioro, allorché non v’a più innanzi alla pupilla l’i crilUlHno, che è la lente -dell’occhio; benché
m altri due umori, che rellano, ajutiuo uri
coco i raggi ad unirli-, ed una lente conye isapoffa iti gran parte fupplire alla mancanza dell umor crillaììino! Coù lupplifs’ella ad.un altra pm crave malattia dell’occhio, in cui, benclie egli fu per altro valente, e fano, la retina o il nervo ottico infermo ed ollrutto non porta al cervello ■fenia/.ione alcuna dell’immagine degli oggetti, che vi lì dipinge chiara, e d idiota. Questa malattia, che dicesi Gutta Serena, fu la cagione della cecità fe non del Greco almeno dell’i nglefe Omero, ch’egli intrecciò nel fuo Poema alle amenità del perduto Farad:fo, alle zuffe degli Angeli, all’Àbifso pregnante.
Questo quadro adunque della camera ofeura, di fs’ella, che parea follmente proprio ad occupar qualche oziofo, o al più qualrhe curiofo di pittura, ci procura de gran vantaggi, e fa per fino rico v rare in alcuni cafi la viltà a’ ciechi. Non abbiamo noi l’obbligo al Defcartes dell’avercelo refo cotanto utile? Felice il Defcartes, foggiuns’io, a cui voi vorrefìe efler obbligata d’ogni cosa: Ma questa volta voi lo farete a un induflnofoTcdefeo, che à cominciato molte cofe, che gli altri anno poi pei fazionato. frgli fu il primo a darci la vera fpicgazion della vilìone, la quale è tfara in ogni tempo uno degli oggetti della conlìderazion de* FiloJcfi, e ptr confeguente à avuto anch’e fla la fu a non disprezzabile porzione di follie. Imperciocché alcuni tra gli Antichi ànno immaginato certi raggi, i quali dall’interno dell’occhio llendeadofi fino alla fuperficie di effo, premevano l’aria f no all’oggetto da vederli, e quel!’ aria poi trovando la relìihmza dell’oggetto, lo faceva kn tire alla villa. Altri dittero, la vtfione farli dalla rifleflione della villa, cioè perchè ufeivano dall’occhio de* raggi fino all’oggetto, e fi riflettevano da quello nell’occhio in modo, che lo informavano efattarnente, come l’oggetto fosse. Ne mancarono di quegli che dissero, uscir dall’occhio alcuni effluvj i quali a mezza strada avvenendosi in altri, che uscivan da’ corpi, quelli abbracciavano, e feco loro tornando in dietro racean Patire all’anima gli oggetti; L i più ragionevoli tra loro, dittero fiaccarli dalla fuperncie de’ corpi, membrane fottiliffime di particelle, e d’atomi, che tra di effi anno la medefima difpotet Z]0 ne, e il medefimo ordine, che e nella fupcrtieie de’ corpi medefìrni; e quefte membrane, che chiamavano fimulacri, o immagini affatto limili a’ corpi donde partivano, entrar nell’occhio, ed in tal modo farli la vifione. Ed egli è mirabile ellerli trovato in quello leccio, e molto più m Inghilterra, chi acciecandofi al lume delle cole, fiali un’altra volta voluto immerger nella notte delle parole, dicendo la v ilio ne farli per via de differenti gradi delle forze efpanfive, communicare da’ corpi all’occhio attraverfo il pieno, e le chverfe moderazioni di ella, come la dilhnzione, la debolezza, e la confufion nel vedere nafeerc dalia proporzione che anno quelle elpaniive forze degli oggetti colle contrattive de’ nervi ottici. I Moderni però toltone per avventuri quello, il quale come quell’altro, che ferine già in quelli ultimi tempi contro la circolazion del fangue, neceflario era all’infinite, e^ ltravaganti combinazioni dello Spirito umano, anno abbandonato quelle chimeriche fpiegazioni, fighe dell’ignoranza, e dell’orgoglio, nè anno gran fatto apprezzato le ragioni di coloro, che voleano gli effluvj ufeir più rollo dall’occhio, che dagli oggetti, effendo più ragionevole, che ufchTer da una loilanza animata, che da una inanimata, che gli orecchi, la bocca, il naso eran concavi per ricevergli dentro a fé, laddove l’occhio era convello per mandarli fuori. Fglino non ottante quelle belle ragioni anno ridono l’occhio ad e fiere una camera peifc riamente ofeura, rigettando, ed eftinguendo affano quella luce, che il più degli Antichi immaginavano ufeirne, fe non folle per avventura per gli augulti occhi di Tiberio, che fvegliato la notte, fecondo che dicefi, potea, come in chiaro giorno, per alcun tempo vedere; da’ quali dir fi vo Ielle che ne fchizzafle fuori qualche fcintilJa, o di qualche alrra perfona di confìderazione, che mcriuiTe fi facdle un’eccezione in grazia sua.
Farà mestieri, replicò ella, porre anche i garti tra le pei Zòne dt con lìd ci azione, e fare un’eccezione anche per loro - Faremo loro volontieri que IV onore, nipoi* io, ibi che fi contentino, che diciamo quella luce, che fi vede loro coni e uftir dagli occhi la nutre-, ad altro non fervere che ad illuminar gli oggetti, onde poi fe ne polla dipinger l’immaginerei l a loro retina; pofeiachè come i rifini re altre cole così la villane fi fa nella mede li. na maniera negli uomini che ne bruri. Anzi fi. può dire, che fi amo obbligati ad elio loro del veder man ìfdtam ente la maniera, onci’ ella fi fa; poiché per di inoltrarla fi fa ufo per 10 più d’un’occhio di qualche animale, come d’un bue, nel cui fondo, levate che ne fieno le pelli, fe fi porrà una fottiliffima carta, e perciò rr-’fparente, lì vedià in ella non altrimenti, che 11 faccia nella camera ofeura dipinta al rovescio l’immagine degli oggetti, a’ quali l’occhio è rivolto. "Nel che vedete bizzarria de’ nottri Sensi. Noi diciamo per efempio giornalmente ’il calore è nel fuoco» non meno che nelle noltie mani, confondendo un moto, che è nel fuoco, e un’altro,, ch’egli eccita nelle noftre mani colla fenfazione del calore, che non è ne in quello, nè in quefte. Ma non diciamo già i.colori effer negli oggetti, cosi come ne Ir occhio, benché..effi eccitino fenza dubbio nella retina alcun fcuotimento e alcun moro, e fieno fopra di efla dipinti quafi cosi forti, e vivi, come lo fono fopra gli oggetti medenmi. Noi confondiamo adunque nella fenfazion del calore due cofe, e in quella del colore una sola.
Egli pare, soggiuns’ella, che i lenii m ciò c’abbiano fatto grazia col rifpanniarci n’inganno. Ma non fe ne fon’eglino rifatti in tant’altri, a’ quali anno fottopofto il vedere? Non vediamo noi un folo oggetto, benché veduto con due occhi, e non lo vediamo noi diritto, benché egli fìa dipinto nell’occhio al rovefeio? Voi fiete, rifpos’io, un po’ troppo prevenuta contro de’ fenfi, e bifogna che io quefta volta ne prenda la difefa. Non calumate voi un po’ troppo foverchiamenre la vifione, perchè ne avete la fpiegazion d’altronde, che dal Defcartes? Difendetela, rifpos’ella, quanto volete fenza accufar me; e liberatela, fe potete, dalla colpa di que’ due inganni, che io vi confento di buona voglia. Gl'inganni, ripigliai io, non vi sarebbon' eglino più tosto se noi vedessimo doppio un oggetto, che sappiamo esser uno, e rovescio ciò che sappiamo esser diritto? Noi parleremo dimani di queste cose, che parvero all’Huygens, uno de’ gran promotori del sapere nel passato secolo, molto più oscure di quel che sia lecito ad alcun mortale di ricercare. Voi potrete dimani per avventura saperne più di questo grand’uomo, ma non per questo esser più amabile di quel che siete oggi.