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86 | Dialogo Secondo. |
lattia, che dicesi Gutta Serena, fu la cagione della cecità fe non del Greco almeno dell’i nglefe Omero, ch’egli intrecciò nel fuo Poema alle amenità del perduto Farad:fo, alle zuffe degli Angeli, all’Àbifso pregnante.
Questo quadro adunque della camera ofeura, di fs’ella, che parea follmente proprio ad occupar qualche oziofo, o al più qualrhe curiofo di pittura, ci procura de gran vantaggi, e fa per fino rico v rare in alcuni cafi la viltà a’ ciechi. Non abbiamo noi l’obbligo al Defcartes dell’avercelo refo cotanto utile? Felice il Defcartes, foggiuns’io, a cui voi vorrefìe efler obbligata d’ogni cosa: Ma questa volta voi lo farete a un induflnofoTcdefeo, che à cominciato molte cofe, che gli altri anno poi pei fazionato. frgli fu il primo a darci la vera fpicgazion della vilìone, la quale è tfara in ogni tempo uno degli oggetti della conlìderazion de* FiloJcfi, e ptr confeguente à avuto anch’e fla la fu a non disprezzabile porzione di follie. Imperciocché alcuni tra gli Antichi ànno immaginato certi raggi, i quali dall’interno dell’occhio llendeadofi fino alla fuperficie di effo, premevano l’aria f no all’oggetto da vederli, e quel!’ aria poi trovando la relìihmza dell’oggetto, lo faceva kn tire alla villa. Altri dittero, la vtfione farli dalla rifleflione della villa, cioè perchè ufeivano dall’occhio de* raggi fino all’oggetto, e fi riflettevano da quello nell’occhio in modo, che lo informavano efattarnente, come l’oggetto fosse. Ne mancarono di quegli che dissero, uscir dall’occhio alcuni effluvj i quali a mezza strada avve-