Giobbe (Rapisardi)/Parte prima/Libro primo
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LIBRO PRIMO
Giobbe dirò, che sebben giusto e pio,
Molti affanni patì, quando il sorriso
Provato avea di avventurosi giorni:
Sotto al flagello di cotanti mali
5Or dòmito soggiacque, ora la voce
Sollevò rubellando, infin che scòrto
Da un’arcana virtù per varj climi
E per lontane età, fra un procelloso
Mutar di genti e dileguar di Numi
10La Natura conobbe, a cui più volte
Invan pria di morir chiese la pace.
Voi però non sdegnate, ultimi sogni
Di giovinezza e tu rosea salute
Che sul principio del mio libro invoco,
15Di sorridermi ancor, tanto ch'io possa
In questa età che d’alti carmi è schiva
Fornir la faticosa opra che imprendo
Non per sete di gloria o di fortuna,
Anzi per culto della tua bellezza,
20Divina arte dei padri, a cui dimanda
Alcun chiaro ornamento il verso onesto.
La grazia del Signor piovea sul capo
Di Giobbe Usita. Fra’ deserti immensi,
Onde nome ha l'Arabia, al ciel fioría
25La sua tribù, come un’oàsi, e Orebbe
L’era termine quindi, e quinci il mare.
Ben fondate ed eccelse, oltre l’usanza,
Biancheggiavano al dì l’ampie sue case,
Che di ceppi, d’argille e di bitume
30Con babilonic’arte eran costrutte;
Non avare sedeano e taciturne
Su rugginosi cardini le porte,
Ma frequente schiudeansi ai peregrini,
Sì che niun mormorando ívane escluso,
35Niun, che accolto ne fosse, umile il capo
O mesto il core a riportar mai n’ebbe.
Grande innanzi alle case apriasi in quadro
Un’adatta spianata, e ad essa in centro
Due cavate nel masso ardue cisterne
40Sorgean tanto dal suol, che a mezza vita
Tender vi si potea senza periglio
La vana ancella, e nel ceruleo tondo
Guardar, specchiato in ombra, il proprio viso.
Quindi all’opposto loco eranvi l'aje
45Ridondanti or di grani ora di paglie,
Onde con bell’industria erano quelli
Serbati e custoditi in cupe fosse
Che avean da torti fieni argini e tetto,
Queste prima in fastelli ed in covoni
50Poscia in montagne acuminate estrutte.
E da un lato i giocondi orti feraci
Di molti erbaggi, festeggianti il sole
Con lor varie verdure, offrían sovente
Se non lauto alle cene util tributo;
55Fiorivano dall’altro i bei giardini
Delle case delizia. Ivi al precoce
Mandorlo accanto il zefiro blandisce
L’odorato albicocco; in tra le scure
Foglie nevate di recenti fiori
60S’impiattano le arance auree; dipende
Dal torto ramo il languidetto fico,
Che lacero la buccia e in bocca il miele
Primo seduce il passerel furtivo.
Vedi su l'orlo delle pale irsute
65Schierar le frutta l’indico banano,
Dolci frutta alla lingua, orride al tatto,
Di cui tanto il nativo Etna s’allegra;
Noderoso ingiallir presso ai vermigli
Grappi del mite tamarindo il forte
70Pomo cidonio, che serbato il verno
Rustici alberghi e vestimenti odora.
Ecco, non lungi dal cinereo ulivo,
Il sesamo oleoso; ecco l’opimo
Aloe di Socotóra, che la sete
75Smorza al sobrio camello; il sicomoro
Dalle bacche turchine e il tamerice,
A cui flessili e folti a par di crini
Piovono i rami dall’amaro tronco,
Che le febbri cocenti in fuga volge.
80Nè te, ritrosa sensitiva, a cui
La vereconda vergine somiglia,
Avea pure scordato il buon cultore;
Nè voi, piante felici, ond’uom distilla
Manne vitali e preziosi aromi:
85Con l'acacia del Nil sorgon confusi
I cinnami fragranti; si pompeggia
Nel color aspro delle sue corolle
II selvatico grogo; odora il nardo
Dalle storte radici, in quel che presso
90Agli olibani pii gemon le rame
Del balsamo superbo, e i provocati
Pianti avviva di dolci iridi il sole.
Dopo gli orti e i giardini al vasto piano
Imbiondiscono i parchi orzi, festivo
95Cibo di pazienti asini; fitte
Mareggiano alle tarde aure le ariste
Dei più nobili farri, e tra le secche
Foglie al vento sonanti erge le rance
Pannocchie il gran, che di sicano ha nome,
100Però che d’ogni frutto, onde si nutre
Degli uomini la forza e delle fere,
Sempre fu la mia sacra isola altrice.
Quindi ai ceruli tempj, immacolati
Lungamente di nubi, apron le braccia
105Flessuose le palme, liberali
Al lento peregrin d’ombre e di sonni,
Nè scortesi di cibo, ove tra’ rami
Pendano i grappi de’ nettarei fichi;
Stormiscon quinci al vespertino orezzo
110Bruni boschi di cedri, onde per largo
Tratto si sparge l'odoranza intorno.
Là, sotto il poggio aprico, entro la vigna
Ch’ora i tralci protende umili e brevi,
Or li spiega fra' cari alberi al sole,
115I palmenti capaci alzar tu vedi,
Da cui l'autunno con fragranze acute
Gorgogliando riversasi nei tini
L’onda spumosa del purpureo mosto;
Qui gli enormi frantoi, gemine moli
120Di granito e di querce, onde fluisce
Quasi un lago di pigro olio, che pura
Ambra all’occhio ti par, miele alla lingua.
Addossati ad un colle in ben murate
Case, in capo a un sentier dritto ed erbose»
125Da quel lato e da questo eran costrutti,
E una tettoia proteggeali; accanto
Con le mura muscose èvvi una stalla,
Ove al tempo dell’opere han ristoro
L’asine tarde e i tolleranti buoi
130E con essi talvolta anco i pastori.
Che fra lo strame e il fermentato limo
Senton men acri le iperboree sizze.
Ma da questa lontan, proprio all’estremo
Lembo dei grassi pascoli, i presepi
135Custoditi stendeansi, in cui tremila
Dromedari bramian, ventosa razza
Che cento miglia in un dì sol divora,
Nè la sete paventa, ove di ricche
Merci gravata la gibbosa groppa.
140Alla sferza del sole inesorato
Le immense solitudini attraversi.
Pascevano oltre ad essi or erba or fieno
Mille bocche di buoi, quando in più lochi
Rumina van non men di cinquecento
145Poderosi giumenti, a cui l’incarco
Dei fecondi ricolti era fidato.
Chi inoltre annoverar tutte potrebbe
Dei belanti le torme? Il vagabondo
Arabo avventurier, che con la lercia
150Famiglia e col destrier fido e il camello
Inseguia l’orme della sua fortuna,
Consistere vedea sui verdi colli
Come un’immensa candidezza, e tosto
Riconoscea le innumerate gregge
155Di quel felice, onde suonava il grido
Per ogni terra orientale: il bruno
Tozzo mordea con l’affilato dente,
Mentre nell’occhio gli guizzava un bieco
Desiderio di sangue e di rapine.
160Sparse al centro sorgevan le capanne
Dei bifolchi, dei servi e dei pastori
E più folte ai confini, onde la terra
Strenui custodi e difensori avesse.
Tali del giusto Usita eran le case,
165Tali i campi, gli armenti e il simo gregge.
Ne men dei campi e delle torme brute
Sotto allo sguardo del Signor vigea
La famiglia di Giobbe: erano sette
I figli suoi, tre le figliuole, molto
170Il popolo dei servi e dei cultori,
Ma la secura obbedienza un corpo
Facea di tanti, a cui con pio governo
Giobbe era il capo, il sacerdote, il padre.
Cinque al culto dei campi erano intesi
175Dei figliuoli di lui, gli altri alle cacce.
Miti, agevoli quelli avean costumi,
Che benigna è la terra, e cui la cole
Devotamente e fida a lei la vita
Dà di fiori e di frutti aurea mercede
180E con fibra robusta alma tranquilla.
Reddian le sere affaticati al bacio
Della sedula madre, e agli altri avanti
Zare, il frutto primier dell’amoroso
Nodo di Giobbe con Oleila bella.
185Cui vergine ei condusse e ben dotata
Di camelli e di terre al patrio tetto:
Anzi agli altri venia, poi che la casa
Dopo il lavor dei campi eragli accetta
Più ch’errori notturni e immaginosi
190Canti d’amore e interrogar di stelle.
Di che l’Arabo adusto ognor si piacque.
Più che ospizio, a lui tempio era la casa.
Ove al suo desioso occhio fioriva
La modesta consorte, una pietosa
195Figlia di Seba dall’ingenuo core.
Solo da poche lune egli l’avea
Tolta all’errante padiglion paterno,
E felici viveano. Appo una fonte
La vide un dì; giallo incombeva il sole
200Su l’ampia valle; era deserto il loco,
E la sete e l’amor gli arsero il petto.
Trepido il core ei le si fece appresso,
E d’un sorso la chiese. Ella sul breve
Sandalo stette; all’abbagliante arena
205I grandi occhi piegò, mentre la colma
Idria con fermo braccio e cor gentile
Al sitibondo peregrin porgea.
Ei chinatosi alquanto, al fresco umore
Dava le labbra, e gli occhi avidi a lei,
210Tal che senso di baci avean quell’acque;
Poi le disse così:
Certo non senza
Voler del Cielo oggi incontrarne è dato;
Dell’onda schietta, che il mio sen ristora
215Infiammato dal Sol, grazie ti rendo;
Ma tale un’altra fiamma in cor mi desti.
Che dal sole non nasce, anzi dall’alta
Bellezza tua; ne ad ammorzarla in parte
L’acqua d’Eufrate bastería, mi penso.
220Chi sei tu? Da cui nasci? Altro io non cerco
Di te che il nome e la tribù: che assai
Beltà possiedi me lo dicon gli occhi;
Che sei vergine e casta il cor mei dice:
Su via dunque rispondi. A te non pochi
225Greggi e campi dar posso; ampj a bastanza
Son quei del padre, a cui primiero io nacqui
Da libera consorte; inclito ei regna
Nella glebosa regíon d’Ausite,
E il Signore è con lui. Se il nome mio
230Non t’è grato ignorar, sappi ch’io sono
Zare di Giobbe, e te mia sposa agogno.
Ansava a questo dir la giovinetta,
Nè risponder potea: tale una piena
Di dolci sensi le vincea la voce;
235Sovra l’umido pozzo a poco a poco.
Quasi immemore, avea l’urna deposta;
Nei bianchi lini restringea la bella
Palpitante persona, e con la punta
Del picciol piè le ghiaje arse battendo.
240Stava muta in tra due. Ma, benchè incerta,
Lasciar senza risposta il detto onesto
E il supplicar ch’ei le facea con gli occhi
Non le sofferse lungamente il core;
E tremando gli disse:
245È inver cortese
La tua profferta, o forestiero, e in modi
Cosi modesti e in voce tal l’esprimi,
Ch’io d’innocenza non sarei più degna,
Se leale e di cor non la credessi.
250Ma illudersi che val? Nomade, e forse
Alla tua non gradita, è la mia stirpe
Che di Seba si noma, inqueta stirpe
Che d’Abramo e da Chètura discende,
E, quasi spinta da un destin maligno,
255In loco alcuno il padiglion non ferma.
Come onàgro inseguito, a questa valle
Venne povero e triste il padre mio,
Al quale ultima crebbi, e non per fermo
Desiderata, che, tu sai, la prole
260Ben accetta fra gli agi, ingrata sempre
Giunge a colui che nell’inopia vive.
Addio dunque, o cortese; il nome porto
Della moglie d’Abramo, e a par d’ignoto
Spinoso arbusto nel deserto io vivo.
265Così parlando, sospirosa in core
Accingeasi con lenti atti al ritorno.
Ma il tenace garzon non si contenne
Si di leggieri, poi che amor gli avea
Penetrato ogni fibra, e con bollenti
270Flutti nel cor gli concitava il sangue:
L’una man con solenne atto distese
Di contro al Sol; serrò con l’altra a lei
Mal repugnante la verginea destra,
E così le giurò: Se gli occhi miei
275Gioco d’alto miraggio ora non sono,
Il Dio signor dei nostri padri invoco
Testimone al mio dir: tu fra non guari
Sposa gradita al tetto mio verrai.
Ella partì con lievi orme, e cantava
280Una strana canzone; entro la vita
Le brillava con dolce impeto il sangue;
Squillavan con insolita armonia
L’argentine sue voci, ed alla guisa
Di nuzíal corteo splendido al sole
285Sfilavano a l’azzurro i suoi pensieri.
Ho pregato pregato, e il ciel s’è aperto,
E n’è disceso un giovane signor:
D’erbe si copre l’arido deserto,
289Un limpido ruscel corre tra’ fior.
Neri ha i capelli come gran di pepe,
Ha gli occhi di gazzella il mio fedel;
Il mare e il monte hanno i suoi campi a siepe,
293I padiglioni suoi levansi al ciel.
Ma più s’alza del monte il pensier mio,
La mia speranza è più larga del mar:
Sulla terra un amor, nel cielo un Dio;
297Il mondo è a tutti e due picciolo altar.
Bello è il mondo, ma bello anche il mio core:
Come il sole il mio cor di fiamme è pien:
Resti il sole ed il mondo ara al Signore,
301Regno ed ara all’amor solo il mio sen.
Così lieta cantando, il colmo aggiunse
D’un sabbioso poggiuol, che sotto il passo
Della fanciulla instabile fuggia,
305Molt’arena cocente a lei versando
Nel povero calzar. Quinci pel vasto
Piano girò il raggiante occhio, s’accorse
Del mal adatto padiglion paterno,
E, piombando dal ciel roseo dei sogni,
310Della sua povertà molto le increbbe.
Triste e con lento piè, contro l’usato,
Rediva intanto ai sontuosi alberghi
L’innamorato giovinetto; all’ombra
D’una palma s’assise, e con la punta
315D’un virgulto smovendo i piccioletti
Ciottoli grigi e disegnando un nome,
Spazj infiniti col pensier correa.
Il venerando genitor lo scorse
In quel non consueto atto pensoso,
320E fattosi non visto a lui da presso,
E posandogli all’omero la palma,
Così con dolce piglio a dir gli prende:
Zare, diletto mio, qual ti molesta
O pensiero o malor? Mai, ch’io rammenti,
325Non ti vidi così da poi che il lume
Dell’intelletto al viver tuo s’aperse.
Hai pregato qual suoli? O, men zeloso
Del ciel che dell’amiche opre dei campi,
Hai la prece al Signor posta in oblio?
330Tu pur ben sai che non si corca allegro
Chi la preghiera del mattin neglige.
Padre, disse il garzon, dall’inattesa
Voce del genitor tutto sconvolto
E rizzandosi in pie; non io la prece
335Mattutina scordai, ma tale in petto
Un’oscura mestizia oggi mi pesa,
Che di qualche mal or forse è foriera.
Sopraggiunse in quel dir la genitrice
Tutta nei veli candidi racchiusa,
340Fuor che gli occhi e la fronte, e: S’io non erro.
Motteggiando esclamò, quasi leggesse
Con occhio acuto nel pensier del figlio,
Tu sei stato alla fonte, ove talora
Porge da ber qualche gentil Rebecca.
345Chi tei disse? gridò, come stupito,
E con tremula voce il giovinetto,
A cui di brace color lasi il volto;
Hai parlato con Dio? Muta divenne
La madre a cotal dir, poi che s’avvide
350Che colto avea, benchè per gioco, al segno.
Ma il tollerante genitor, che anch’esso
L’occulto senso di quel dir comprese:
Or via, figlio, soggiunse, a noi confida
Quest’incontro gentile: altro, tu il sai,
355Che il ben dei figli a’ genitor non piace.
Una figlia di Seba, egli riprese.
Sogguardando or la madre ora il parente,
Una figlia di Seba...
Una straniera,
360L’interruppe ad un tratto Oleila irata,
Una del seme de’ Sabei! Ma ignori
Che nemica alla nostra è la sua stirpe
Nomade sempre e a ladronecci intesa?
Mal incontro fu il tuo.
365 Straniera e avversa
Ella in vero non è, con questi detti
Della consorte disdegnosa all’ira
Giobbe tranquillamente un argin pose;
D’Abramo essa discende, e non ignori
370Che d’Abramo i nostri avi anche son nati.
Ne pur nemica a noi chiamar potremo
La sua tribù, sebben talor dei nostri
Campi usurpò qualche remoto lembo:
Molto povera è dessa; a lei noverca
375Fu la fortuna; tribolato è il suolo
Ove piantò la fuggitiva tenda:
Compatir cui più manca e più s’affanna
Dee chi di gioje e di ricolti abbonda.
Parla Dio nel tuo labbro, allora esclama
380Fattosi core il giovincel, cui troppo
Della madre era giunto acre il rabbuffo;
Se non soccorre al povero ramingo
Chi possiede e chi sta, come randage
Belve in cerca di preda, errar vedremo
385Sempre i meschini, a cui letizie ed agi,
Non diritto alla vita Iddio sconsente.
E di rimbalzo a lui con riso amaro
Scrollando il capo: buon marito, disse
L’acerba donna, assai lodar dobbiamo
390L’accorto senno che il figliuol ne mostra
Si di buon’ora: in verità a sublimi
Cose egli aspira, e a rendermi s’affretta
Del latte che gli porsi ampia mercede:
Ecco, ei prodiga il core al primo incontro
395A donna tal, che reggere la soga
Del tuo camello a mala pena è degna.
Aspra troppo tu sei, così all’acuta
Lingua d’Oleila il buon Giobbe rispose.
Nè meraviglia io n’ho: sono le madri
400Oelose ognor dei figli, e a mal in core
Soffron che un’altra donna entri in lor vece
Nei domestici studj, e a loro usurpi,
Così dicono infatti, il cor d’un figlio.
Ma indulgente la donna esser pur deve
405Più che l’uomo non sia, nè dir parola
Che renda ingrato un utile consiglio:
Poi che rampogna immeritata, amara
Punge così dei giovani la mente.
Che spesso ad operar ciò che non lice
410E che mai non farían, tratti a ragione
Da un buon consiglio, sempre più li aizza.
Agevole a trattar, più che non credi,
È un giovin cor, sol che mostrar tu sappi
Di secondarlo con benigna cura,
415Quand’ei prima d’amor sente la forza,
Consigliarlo con arte, insinuargli
Ciò che torni a suo prò, fargli con saggi
Detti avvisar che il proprio danno ordisce.
Ma se tu con irosa alma lo affronti,
420E come abietto e reo schiavo il garrisci.
Si rivolta ad un punto, e tuo malgrado.
Pur che dei suoi destini arbitro appaia,
Quand’anco il veda, al precipizio corre.
Generoso, oltre a ciò, ma intempestivo
425È il cor dei giovinetti, e il men che guardi
È al dì futuro, a cui l’uom fatto intende.
Più che ricche sostanze e onor di padri
Un bel sembiante femminil lo adesca;
Nè il condanno però: sovrano impero
430Sull’animo bennato ha la bellezza;
Ma quando in dolci parolette accorte
E in modi onesti anima impura asconde
superba o loquace, allor dannoso
Torna della beltà l’inclito aspetto.
435Se poi t’avvieni in tal che in belle membra
Mansueta ed onesta indole accolga,
Quando pur sia tapina, in due consigli
Titubar pigro e calcolar non devi:
Toglila tosto, perocchè pudica
440Sposa è tesoro che ne manda il cielo,
Ed è felice ognor chi la possiede.
Commosso a cotal dir, poi che sì fatta
La sua bella Sebita egli tenea,
S’abbandonò fra le paterne braccia
445Il giovane in quel punto, e: Benedetto,
Lacrimando dicea, tu mi sollevi
Dalla mestizia il cor. Tale, mel credi,
È la fanciulla mia com’or dicesti,
E s’io deggia da lei viver diviso,
450Tristi, o padre, saran sempre i miei giorni.
Motto non fece a tal parlar, ma torse
Le spalle Oleila, e velò meglio il viso.
Perchè alcuno de’ due non s’accorgesse
Che più dell’ira in lei potea l’amore.
455Onde il pio genitor con queste voci
Rasserenò il garzon:
Che tale appunto
Sia la fanciulla, qual ti sembra, io spero;
Pur ti giovi esser cauto, anzi che l’orma
460Stampi in sentier che abbandonar poi devi
Per maturo consiglio, o mal tuo grado
Percorrer dolorando. Uomo sagace,
Che ben libri l’impresa a cui si accinge,
Di vano repentir non prova il morso,
465Nè tardi troppo a variar pensiero,
Come fanno gl’insani, indi è costretto:
Ciò che imprende, fornisce, e in cotal guisa
Meglio alla pace e all’onor suo provvede.
Lascia però, che di costei ch’eleggi
470L’indole e il core accortamente indaghi:
Troveronne la via. Non ti sgomenti
Il materno rigor più che non deggia:
Donna che intende al famigliar governo
E fa regno la casa, il mondo ignora,
475D’ogni cosa ha sospetto; e pur che ognuno
Qual provvida massaja alto l’ammiri,
Tiensi ad onor che d’avarizia pecchi.
Biechi sempre, oltre a ciò, sono gli sguardi
Ch’ella volge alla nuora, ancor che questa
480Buona e docile sia, nè sia maligno
Il talento di lei: così dispone
Il pensier di Chi può. Se poi sprovvista
d’alti natali e di beltà sol ricca
Al tetto marital la sposa arrivi,
485Mai sofferta non è si di buon core
Che bersaglio non sia d’aspri motteggi,
Tal che rider ne dènno anco le ancelle.
Chi la pace però sovr’altro estimi,
E la sposa e i parenti ami davvero,
490Mai far non dee che un tetto sol li copra.
E noi, se le tue nozze Eli conceda,
Seguirem tal consiglio; e solo a mensa
E ne le veglie delle tarde sere
Vi vedrò tutti a me dintorno accolti:
495Poi che a buon genitor, quando gli fugge
La bella giovinezza e sopra il capo
La canizie s’alluma, altro non resta
Che il lieto aspetto e il conversar de’ figli,
Per cui degli anni suoi l’alba rivede.
500Seguían questi parlari appo le case
Fra Giobbe il saggio e il suo maggior figliuolo,
Nè guari andò, che nello stesso loco
Fermar fu visto il nuzíal corteo.
Piombava il Sol dagl’infiammati azzurri
505Sulla fulva pianura, e un turbinoso
Nugol di polve al candido orizzonte
Annunzïò la carovana. In cima
D’un’aerea terrazza erasi accolta
La famiglia di Giobbe; e, fatto schermo
510d’un ramo o del manto o della destra
Fra gli occhi e il Sol, verso quel punto ognuno
Tendea con curioso atto lo sguardo.
V’era il buon Patriarca e a lui daccanto
La placata consorte; custodite
515Nelle semplici stole eranvi anch’esse
Le sue vergini figlie: Isca la bella
Da’ languid’occhi, la vezzosa Dina
Desio d’ardenti giovinetti, e Lia
Dall’ingenuo sorriso: intemerati
520Garzuolini pareano, onde fra poco
Biondeggeranno al caldo aer le frutta.
Nereggiavano i lunghi occhi tra mezzo
A’ bianchissimi pepli, e qualche bruna
Ciocca furtiva, il rigido divieto
525Del pettine infrangendo, all’aria uscia.
Quasi orgogliosa dei riflessi azzurri
Che, altero amante, concedeale il sole.
Pispigliavan ristrette in fra di loro
Le guardinghe fanciulle; e se talora,
530Pavido accusator d’un detto audace,
Il purpureo pudor fioria le fronti,
Tosto, di lui mascherator discreto.
Sbocciava dalle bocche ilare il riso.
Si ravvivan fra tanto i colli, i campi
535Di lieti crocchj, di festosi andazzi.
Di curiose ragunate; al sole
Sfoggiano di color varie le tende;
E qui un austero narrator feroci
Narra incontri di draghi e di guerrieri.
540Là un cantor con monotona cadenza
Sanguinosi rammenta odj ed amori.
Già presso era il corteo non più d’un tratto
D’alato stral che sibilando cerchi
Di fuggitivo capriolo il fianco;
545Già il concitato scalpitar s’udía
De’ focosi cavalli, a cui sul dosso
Baldanzosi sedean di Giobbe i figli,
D’ostro adorni e di bisso e d’arco armati.
Destri non meno a governar poledri
550Che a pascer greggi e seminar campagne.
Eccoli: con tranquillo ordine in larga
Schiera procedon rigorosi; sbuffano
Le belle fere, e a larghi sprazzi candidi
Gittano spume dalle bocche indocili;
555Or caracollan lievi, ora s’impennano,
Or saltellan così che par che danzino;
Trottan quai lupi, volteggiali com’aquile,
Rinculan come tigri, si raggricchiano,
E poi si slancian come frecce all’aure:
560Aguzzano gli orecchi, i colli tendono,
Rizzan le code fluttuanti a zefiri.
Come serpenti a fior di terra allungansi.
Urlano i cavalier, schizzano i ciottoli
Sotto le zampe de’ frementi alípedi,
565Che si dispergon come stuol di passeri,
Si radunan, s’accodano e d’un subito
Tutti fermansi. Il suol trema, la polvere
Al Sol rosea si sparge, al vento turbina;
Su pe’ lubrici dorsi il sudor scivola,
570O in densi fiocchi si rapprende agli agili
Femori e al collo e a le nervose gambe;
Pari a mantici i fianchi ansali; le flammee
Froge balzano, i grandi occhi scintillano,
Mentre qual gorgoglio d’acqua bollente
575Con interrotti fremiti nitriscono.
Ammirano gli astanti; immoti, attoniti
Stanno i fanciulli; dentro il cor sospirano
Le giovinette. Ma fra lor che innanzi
Muovon giostrando non è Zare: ei viene
580Sovra bardato dromedario a fianco
De la bella consorte: ognun li addita,
Ognuno avido in lor figge gli sguardi.
Sopra un fulvo camello, i polsi adorna
D’auree smaniglie, il collo di monili.
585Siede la giovinetta; e se tu miri
Le sue splendide fogge, ad orgoglioso
Pavoncello l’assembri, ove dal sommo
D’un albero frondoso o d’un colmigno
Le varianti piume iridi al sole;
590Ma se guardi alla sua fronte modesta
E al volger dei soavi occhi d’amore,
Ti correrà al pensier tosto una bruna
Colombella silvestre allor che porta
Un trepido fuscello al primo nido.
595Viene Asbèle con essi, alma ferrigna,
Condottier dei Sebiti; e quindi e quinci
D’ambedue le tribù scorta commista
Di baldi arcieri, a cui dentro i turcassi
Tintinnano le frecce. Di lunga fila
600Seguono al fin gl’in faticosi e parchi
Camelli, e in arco ripiegato il collo
Su la gemina gobba, il serpentino
Capo e le doppie palpebre sollevano
Con dolce e paziente atto a la voce
605Del guidator che li precorre, e ansante
Mormora una monotona canzone
Che dell’andare e del restar dà segno.
Non appena alle case alte di Giobbe
Giunsero i cavalieri, in quel che incontro
610Agli sposi scendean col Patriarca
La consorte e le figlie, all’improvviso
Venne fuori uno stuol di giovinette
Con timpani e con cetre, onde un allegro
E confuso fragor l’aure commosse.
615Altre agitavan rami, altre dintorno
Tessean rapidi balli: a par di tenui
Giunchi cedean le flessuose vite,
Pompeggiavano sotto ai liberali
Bissi voluttuosi i lombi enormi;
620Ed or lente, siccome ebbre, ondeggiando
Di qua di là movean, mentre dai neri
Socchiusi occhi volgean guardi lascivi.
Or leste leste procedeano a guisa
D’inseguiti pavoni, ora co’ piccoli
625Crocei piedi facean tremuli guizzi,
E, agitando le molli onde de’ fianchi,
E le braccia vibrando, una con l’altra
S’intrecciavano a par di pampinosi
Tralci novelli. Uno scoccar di baci.
630Un tintinnio d’armille e di monili
Suonavan l’aure, e balsami soavi
Fluíano intorno da’ commossi veli.
Altre intanto spargean dalle dischiuse
Murre lo spirto di pungenti aromi;
635Dolci preghiere ed amorose voci
Altre fingeam con le volanti dita
Su le cetere d’oro; altre di rose
Ordivano corone a’ due felici.
Sceser questi alla fine, e sette volte
640S’inchinaron dinanzi al limitare
Del popoloso padiglion paterno,
Dove a loro schiudea con lieto aspetto
Il venerando genitor le braccia.
Poi che i baci fûr dati, in questa forma
645Giobbe rivolse alle due genti il dire:
Questo è giorno felice. Èloa, che sempre
Alla famiglia mia fausto sorrise.
Più durevoli gioje or ne promette,
Concedendo non solo altre radici
650E nuovi rami alla prosapia nostra,
Ma legando amistà fra due sin ora
Mal vicine tribù: patto di pace
Son queste nozze; e chi primier l’infranga
Dello sdegno di Dio vittima resti.
655Dunque ognun si purifichi, ed a Lui
Che tutto vede e tutto può si volga;
Penserem quindi a’ corpi: anguste troppo
O inospitali in verità non sono
Queste mie case, e qui ricetto e mensa
660Delle due genti i seniori avranno.
Fêr plauso tutti; e poi ch’ebber le membra
Con fragranti lustrali acque deterse,
S’avviâr con pensoso animo al monte.
Ivi ardeano gli altari, ivi col nardo
665Il cinnamo spargea miti profumi,
Ivi dal prezioso albero inciso
Lacrimava la mirra, ed ai vivaci
Fochi mutati in pingue nube lenta
Vaporavano al ciel gli arabi incensi.
670Là s’accolser gli austeri; e allor che sparse
Furon le offerte e il puro olio versato
Sovra il sacro piliere, una alle preci
Sorse delle scannate ostie il muggito,
Ed in caldi rigagnoli spumanti
675Fra’ piè non schivi serpeggiava il sangue.
Poi che fornite le preghiere, e il rito
Con solenni olocausti ebber perfetto,
Rividero le tende. Il Sol cadea
Caliginoso all’eritrea marina,
680Porporeggiavan tra viole ed oro
Le lontane de’ monti ispide cime,
Quando il più ricco padiglion di Giobbe
Ai folti commensali ampio s’apría.
S’accoccolâr sui morbidi tappeti
685Intrecciando le gambe; e qui i severi
Vegli sedean col Patriarca, e primi
Elifàz Temanita e quel di Sua
E Sòfare di Nama, alme pietose
E d’ogni umana sapienza istrutte;
690Là con lo sposo i giovani convivi,
Più che a cibo, ad amor volgean la mente.
Riserbato alle donne era il geloso
Penetral della tenda, ove alla sposa
Odorata facean varia corona.
695Sulle candide mense in doppia fila
Scintillavano i vasi aurei alla fiamma
Delle tremule rèsine, che larga
Versavano odorosa onda di luce;
Copíose fumavano le dapi
700Entro a lanci d’argento, opera insigne
Di babelico mastro; e dove gli occhi
Seducean queste col gentil lavoro.
Provocavano l’altre con acuti
Cinnami assiri il desioso olfato.
705Come fra le tranquille acque d’un lago,
S’uom s’accosti alla riva, agili vede
D’ogni parte sguizzar le rosee trote,
Così leste qua e là movean le brune
Succinte ancelle a’ muti cenni intese:
710E chi in leggiere ciotole porgea
Misto a fragrante miel tiepido latte;
Quale il nettareo dattero e il soave
Zibibbo offría dagli appassiti raspi;
Chi in viminei canestri il lavorato
715Candido frutto delle bionde ariste
Dispensava solerte; altra alle mani,
Ch’unte lucean delle gustate carni,
In argenteo bacil porgea lavacri;
Altra in giro mescea purpurei nappi,
720Onde l’allegro favellar si desta.
Quando pago in tal guisa, oltre l’usato,
Ebbero il naturale estro del ventre,
Parte uscîro al sereno, interrogando
Gli astri con gli occhi, e i tardi echi col canto,
725Parte dattorno a’ più canuti assisi
Al grato novellar dieder l’orecchio.
L’audace impresa del pastor di Levi
Molta offriva a quei giorni èsca a’ discorsi.
Muti, intenti pendean tutti dal labbro
730Del Temanita narrator, che l’ira
Dell’incostante faraon dicea,
Mentre il popol tenace ai padiglioni
Del promesso Isdrael facea ritorno;
E ben la guida e il redentor tu n’eri,
735O salvato dall’acque. Al tuo passaggio
Si dividon le rosse onde, e, pareti
Fatte a’ due fianchi, all’inseguita gente
Schiudon la via per gli arenosi abissi.
Nascono al cenno tuo da selce viva,
740Quante son le tribù, dodici fonti;
Piove manna vital provvido il cielo,
E tra nuvoli e lampi Iddio disceso
Là sul mistico Sina, alte alleanze
E nuova legge al popol suo concede.
745Così narrando protrae an la sera.
Ma di più lunga attesa impaziente
Sorse Zare tra’ primi, e poi che preso
Da’ parenti e dagli altri ebbe i commiati,
Tolta per man la sua vaga fanciulla
750Al profumato padiglion l’addusse,
Ove la madre li seguia con occhi
Di geloso dolor. Quivi tremante
Al talamo l’assunse, e con soave
Desiderata violenza e lunghi
755Baci e sospiri il primo fior ne colse.
Queste le nozze fùr del primonato
Figlio del giusto, che mutando i giorni
Fra l’opere e l’amor (poi ch’ozioso,
Ben che nuoti fra gli agi, amor languisce)
760Qual modesto ruscel ch’educa i fiori.
Placidamente discorrea la vita.
Ma simile a ruscel Chèdar non era.
Che d’anni a tutti a ni un di cor cedea
Tra’ figliuoli di Giobbe. Eran suoi giochi
765Perseguir fere in caccia, immansueti
Dorsi inforcar di rapidi cavalli,
Sgominar tende avverse, e fuggitive
Terga nemiche saettar con l’arco.
Rigido come lancia, onde la tersa
770Punta scintilli minacciosa al sole,
Ei sorgea tra’ perigli, e men che a Dio
Confidava al suo strai la sua salvezza;
Tal che il pietoso genitor sovente
L’atro gli rammentava ultimo fato
775Degli Aditi superbi, ispida razza
Cui per l’opre nefande al ciel dispette
Seppelliron le sabbie alte d’Akafa.
Ma qual nel perso mar, quando tra’ verdi
Coralli e le frondose alghe odorate
780Sommovendone i flutti euro non frema,
Specchiansi intorno le calcaree cime;
Mormora qua e là per l’ampio golfo
Qualche dolce zampillo, a cui le labbra
Il faticoso remator consola;
785Tal di Chèdar nel fiero animo, quando
Specchio d’alti fantasmi amor lo fea,
Sorgean dolci pensieri e ingenui canti,
Ch’ai più schivi molcean l’anima in petto.
Ei cantava così: Fonte è la morte
A cui tutti dobbiam bevere un dì;
Dell’ieri e del doman chiusa è la sorte
792Nella man di Colui che il mondo ordì.
Miserere, o possente: apri la mano;
Son giusto e pio, sono devoto a te;
Ma risponde il Signor: Taci, profano,
796Del solo istante io t’ho creato re.
E dell’istante sol viver vogl’io
Fra le belle, fra’ nappi e fra’ destrier;
Son devoto al Signor, son giusto e pio.
800Seguo la legge sua, voglio goder.
Chi sei tu ch’alla mia tenda t’appressi
Con l’orma incerta e con la fronte umíl?
Vieni, t’apro le braccia: hanno gli oppressi
804Pane al mio desco, e nel mio tetto asil.
Il serpe dell’orgoglio in cor t’annida?
Tendi insidie al mio gregge e al mio tesor?
M’invita a nozze chi a tenzon mi sfida;
808È vento del deserto il mio furor.
Fuggite come antilopi e gazzelle,
810Voi che inciampo vi fate al mio cammin,
Ma venite al mio cor, venite, o belle:
Son dolci i baci miei più del mio vin.
Ei cantava così. Correan le amiche
Dagli agevoli amplessi a lui dintorno,
815Come ingannate lodole allo specchio;
Il fior della bellezza ei ne cogliea,
Ma dal regno dei facili diletti
Esulava il cor suo, d’altro già stanco,
All’intrepida Zilpa, anima altera
820Chiusa ad amor, di neri occhi profondi,
Di lunghe trecce e di sen colmo insigne.
Presso al paterno padiglion la vide
Un di l’irto Colèiba, e una ferina
Brama di lei gli divampò nel sangue.
825Còrso egli avea ladi’oneggiando il vasto
Paese, e ricco di furate spoglie,
Di vittoria e di strage ebbro, co’ suoi
Prodi tornava al suo montan coviglio,
Allor che amore, ebbrezza ultima, il colse.
830Alla tribù vicina era in quel giorno
Ito ai giudicj il genitor di Zilpa;
Fuggiti erano i servi all’improvviso
Apparir di Colèiba, ond’ella armata
Di virtù, di candor bella e d’ardire,
835Soletta incontro al masnadier si fece.
Stupi il fiero a tal vista; e poi che vani
Provò gli allettamenti e le minacce,
D’ira cieco e d’amor su lei s’avventa
Bramoso a un tempo di baci e di sangue.
840Com’aquila ferita al suol protesa
Rota intorno il feroce occhio, cercando
Le note altezze e il derelitto nido,
Agita le gagliarde ali, rabbuffa
Le penne, il collo inarca, e il rostro vibra;
845Impavida così, ben che percossa
Dal rapace amator, si dibattea
La vergine superba, e di sprezzosi
Sguardi si facea scudo, arma dei denti,
Quando Chèdar sorvenne, o che le tracce
850Di Colèiba seguisse, o amore o caso
Con gli amici più fidi ivi il traesse.
Alla vista di Zilpa arse il geloso
Petto di sdegno e di pietà; si volse
Allo stuol de’ seguaci, e: Sarà nostra,
855Disse, o noi della morte. I fianchi strinse
Al buon destriero, ed agitò la lancia.
Gloria di Dio, Colèiba urlò, sorgendo
Siccome nembo autunnal, chi ardisce
Profanar l’ora dell’amor? Dal grembo
860Della beltà balzar non temo all’armi.
E proruppe, all’immane arco incoccando
Un aligero stral. Mischiansi i prodi
Con selvatiche strida, e al vespertino
Baglior sembran fantasmi; urli e suon d’armi
865Echeggiano le valli erme, e contrita
Rauca geme tra fiere ugne la morte.
Alfin vennero a fronte i due rivali,
E avvisaronsi a un tratto, ancor che lunghe
Fosser già l’ombre intorno: amor con dolce
870Raggio facea dell’un chiaro lo sguardo,
Porgea lume coi verdi occhi a quell’altro
Il dispetto. Vibrò Colèiba il primo
La grave asta e con tale impeto ed ira
Che trabocco. Gli si disserra sopra
875Com’acre astòre il cavalier nemico,
Ma quel già sorto in piè, con fronte altera
Corregli incontro, e fulmina la lancia
Furioso ululando. Il colpo schiva
Con salto obliquo il buon Giobbide, avventa
880La ferrata zagaglia, e dove al tronco
S’innesta il collo, e un gemino sentiero
Quinci all’aria dischiude e quindi al cibo,
Là il nemico feri. Cadde il superbo
Con feroce singulto, e gorgogliando
885Gli escía lo spirto e in un di Zilpa il nome.
Visto il duce cadere, alla rinfusa
Preser la fuga e si sbandâr pe’ campi
Di Colèiba i seguaci. Il vincitore
Della fanciulla in traccia ansio si diede.
890Presso un folto cespuglio ella giacea
Ne la valle dell’ombra, e a poco a poco
Le gemea da una piaga ampia la vita:
Chiara perla parea, che in roseo filo
Sopra fosco tessuto il guardo attiri
895Col tremulo candor. Su lei piegossi
Con fraterno pensiere il giovin prode,
Le fasciò la ferita, i fuggitivi
Spiriti le avvivò col fresco umore
Ch’indi non lungi ad una fonte attinse;
900Poi con uno dei suoi fatta barella
Delle mani intrecciate, in dolce guisa
Ve l’adagiaron sì, ch’ella potesse
E di questo e di quel reggersi al collo.
Così, tra lor mutando, ívan per l’alta
905Notte e il loco deserto: altri nell’armi
Vigilavan solerti, altri nel pugno
Crasse faci scoteano e contro a’ sassi
N’attizzavan la fiamma; a tutti in core
Sedea la cura dei compagni uccisi.
910Già con trepido vol sorgea cantando
La lodoletta ad incontrar l’aurora,
Quando il mesto corteo giunse alla tenda
Del pensoso Giobbide: una leggiadra
Tenda, asilo d’amor, dalle paterne
915Case lontana e tutta intorno cinta
Di verdi ombre e di fiori. In molli strati
Poser l’egra a giacere; ad uno ad uno
Dileguaronsi i prodi; a custodirla
Chiamò Chèdar le ancelle; ei su la porta
920Come stanco leon vigile stette.
L’opra udita del figlio, a lui sen venne
Ch’alto era il sole il genitor pietoso
E il buon Zare con lui; vennero anch’essi
Richiamati da’ campi Efa ed Elei,
925Jètur, Mèdan e Misma (erano questi
Del glorioso archimandrita i figli,
Prole cara al Signor); ma della casa
Stette Oleila a custodia e restâr seco
Le tre vergini figlie. Ignara affatto
930Del caso ell’era, poi che il buon marito
Occulto gliel’avea con pia menzogna;
Ma in una vaga trepidanza incerta
Fluttuava: dai soliti lavori
Svolgea spesso il pensiere; ad ogni suono
935Balzava ansia; correva al limitare,
Tendeva il dubitoso occhio al sentiero
Che fra’ campi s’apría: già che l’assenza
Dell’ultimo suo nato, a cui la parte
Miglior serbava del materno affetto,
940E l’uscir dello sposo e le sommesse
Voci di Zare e il sussurrar de’ servi
Le turbavan di strane ombre la mente.
Non appena de’ suoi Chèdar s’avvide,
Usci loro a rincontro; al padre innanzi
945Chinò il bel capo, e fisso gli occhi al suolo
La sua voce attendea. Le braccia eresse
Il venerato Patriarca, al cielo
Volse la fronte, e: Chi può far contesa
Con l’Eterno? esclamò: sull’arduo monte
950Pone all’aquila il nido, entro la terra
Schiude il covo al serpente; ei sul granito
Radica ed alza il padiglion del giusto,
Dell’empio i tetti ei dà ludibrio a’ venti;
Egli esalta, egli umilia. Al suo sorriso
955S’apre il sen della terra, e mette i fiori;
Alla dolcezza della sua parola
L’alma serenità sul mar veleggia;
Come spose alla prima ora d’amore,
Al suo cheto venir treman le stelle.
960Ma se negli occhi suoi l’ira lampeggi,
La terra ima traballa, al suo cospetto
Cadon prostrate le montagne, mugola
Come tauro ferito il mar vorace,
Precipita il celeste orbe, e confuso
965Con le fiamme e con l’acque si dissolve.
Dov’è Colèiba? Ei fu: sorse col vampo
Dell’orgoglio ai pianeti, e Dio lo sperse
Come nero vapor. Sotto i suoi passi
Pullulava il delitto; ardeagli in core
970Come pece la colpa; a mo’ di pane
Pascea l’iniquità, bevea qual vino
La violenza. Ma il Signor lo colse,
E alle reni il ferì. Lode al Signore!
Mentre così dicea, giunsero i capi
975Delle amiche tribù; giunse con essi
Pallido, ansante il genitor di Zilpa
E alla figlia volò. Pianse il canuto
Alla vista di lei, che a mala pena
Il fianco egro reggea, lenta volgendo
980Al generoso difensor le ciglia;
Parlò poscia così: Gloria al Signore
Che alle case di Giobbe ognor sorride,
E a te lode, o garzon, c’hai rotto il braccio
Dell’empietà, che svelto hai le radici
985Della pianta maligna, abbeverata
Del pianto della vedova e del sangue
Degli orfani traditi e dei pupilli.
Noderoso e robusto era il suo tronco,
Eran folti i suoi rami, ampie e funeste
990L’ombre gittava, onde intristía la vita.
Dio la vide e la svelse. Al cielo or tende
Le travolte radici, e chiede invano
La pietà del mattin: tra le sue frondi
Striscia il verde ramarro; il velenoso
995Frutto della menzogna al Sol marcisce.
Poi che tacquero i vegli, e da ciascuno
Ebbe il senno di Dio lodi e preghiere,
Sciolse Chèdar la voce, e un suo consiglio
Dissigillo: Da poco tempo io cibo
1000L’almo frutto del suol, da poco attingo
Al fonte della vita, ultimi dunque
Suonar sul labbro mio devon gli accenti.
Nel campo della morte abbandonati
Lasceremo gli estinti? Il valoroso
1005Petto del prode pasceran le belve?
Gli occhi che sfolgorâr l’empio saranno
D’oscene strigi e d’avoltoj becchime?
Nessun, credo, il vorrà. Tolgansi i corpi
Allo strazio nefando, e nell’eterna
1010Casa di chi non vive abbian ricetto.
Giusto, o figlio, ragioni, a lui rispose
L’inclito genitore, e qual s’addice
A cui nacque da me, che mai dal dritto
Sentier della pietà l’orme non torsi,
1015E al prudente consiglio e al cor sereno
Giunsi uno schietto favellar. Dell’uomo
Metà è la lingua, altra metà n’è il core;
Peso di carne e vana specie il resto.
Uom che vince i perigli e n’esce illeso
1020Volger si dee pietoso a chi soggiacque.
Schiuder quindi un asilo ai morti amici
Sia prima cura e pronta opera nostra.
Indi ad altro vi esorto: entro la tenda
Giace colei che dall’infame artiglio
1025Di Colèiba fu tratta; ivi a donzella
Mal s’addice restar presso a garzone,
Sia discreto e gentil: troppo maligno
Vibra il volgo la lingua, e non comprende
Virtù che spregi ogni mortal riguardo;
1030Pari, in oltre, a cristallo è onor di donna:
Ogni fiato l’appanna. A lei s’appresti
Dunque orrevole scorta, onde ognun veda
Quanto il pudor di giovinetta io pregi,
La qual, pria che a lascivi allettamenti,
1035Porse al ferro omicida il debil fianco.
Ignobil certo e miserevol cosa
È femmina che il fior di sua bellezza
Alla prima conceda, e fa sua scusa
La natural fragilità: men forte
1040Di viril braccio è il suo, ma in cor bennato
Tal s’annida virtù che della bruta
Fibra l’impronta gagliardia conquide,
Se più del disonor cara ha la morte.
Ma chi il nome dei suoi padri svergogna,
1045E il giuramento marital tradisce
Volontaria e furtiva, e le impudenti
Membra all’obliquo adultero concede,
Quando pur sia costui bello e valente
Ed in tutto dell’altro assai migliore,
1050Turpe cosa diventa, ancor che adorna
Di giovinezza e di beltà risplenda:
Chè in aspetto leggiadro anima abjetta
Verro sannuto in ricco manto eguaglia.
Qual palude che infetti aliti spira
1055La disertano i suoi; per le frequenti
Piazze vien segno del plebeo motteggio,
Quando di nuove voluttadi in caccia
Muove incontro a’ garzoni, e co’ procaci
Lascivi occhi fa prede. Invan di ricche
1060Coltri d’Egitto i letti suoi ricovre;
Profuma invan di cinnami e di mirra
Il bel corpo impudico: entro il suo letto
Brulica il verme dell’infamia; pute
Fra le bianche sue mamme il disonore;
1065La dispregiano tutti, anche colui
Che porta de’ suoi baci umido il labbro.
Ma chi in grazia d’onor perde la vita,
O contro il seduttor ferma si tiene
Qual granitica rocca, alto la fronte
1070Leva innanzi a chi sia; tutti le danno
Riverenti il passaggio; inclita regna
Nel cuor de’ suoi, brama divien di prodi
E presidio del sesso e gloriosa
Luce che avviva con l’esempio il mondo.
1075Così Giobbe parlò. Corsero all’opra
Con gli amici i famigli; e il Dio de’ giusti
Sovra a tanta pietà splendea col sole.