Libro 15

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Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
Libro 15
XIV XVI
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LIBRO DECIMOQUINTO

SOMMARIO

I. Invade l’Armenia Vologese Re de’ Parti, da Corbulone cautamente, ma con forza ripresso. - VI. Cesennio Peto, viene Generale a parte per l’Armenia: da ignoranza e temerità la sbaglia: tardi lo soccorre Corbulone. — XVIII. Decretato in Roma trofèo de’ Parti, viva tuttor la guerra. — XIX. Legge di senato sulle finte adozioni. — XXIII. Poppea dà una figlia a Nerone: gran gioia, ma breve. Al quarto mese la bambina ha celesti onori. — XXIV. Legati dei Parti a Roma per ritener l’Armenia: partono scontenti: a Corbulone permettesi la guerra. Di nuovo l’Armenia invade; impauriti i Parti viensi a parlamento: si fissa la pace, e che Tiridate soggetti alla statua di Nerone il diadema, nè ’l ripigli che a di lui grado. — XXXII. L’Alpi marittime fatte latine. — XXXIII. Nerone pubblicamente canta a Napoli: Roma tutta una fogna per suo lusso e libidine. — XXXV. Torquato Silano astretto a morte. — XXXVIII. Roma in fiamme; a caso o per Nerone, non si sa: ei le rovine della patria impiega a farsi un palagio d’oro. — XLIV. I Cristiani calunniati d’incendiari, in tormenti spietati con ludibri. — XLVII. Prodigj. - XLVIII. Congiura di C. Pisone [p. 80 modifica]contro Nerone scoperta. Morte de’ più illustri, tra’ quai Lucano e Seneca. — LXXIV. Doni e grazie ai Numi decretate; Aprile: chiamato Nerone.
Anno di Roma dcccxvi. Di Cristo 63.

Consoli. C. Memmìo Regolo e L. Virginio Rufo.

An. di Roma dcccxvii. Di Cristo 64.

Consoli. L. Lecanio Basso e M. Licinio Crasso.

An. di Roma dcccxviii. Di Cristo 65.

Cons. A. Licin. Nerva Siliano e M. Vestino Attico.

I. In questo tempo Vologese Re de’ Parti, veduto i successi di Corbulone, dato all’Armenia Tigrane Re forestiero, spregiata, per esserne cacciato Tiridate suo fratello, la grandigia arsacida; pensando alla vendetta, e all’incontro alla grandezza romana, e alla riverenza della continuata amicizia, si dibatteva: tardo per natura, impacciato per molte guerre; per esserglisi ribellati gl’Ircanj, gagliarda gente. Lo punse di più novella vergognosa, che Tigrane era uscito d’Armenia a danni più che a ruberie degli Adiabeni, suoi confinanti, e durava, non potendo i principali sofferire, „che gl’insultasse non un capitano romano, ma uno stàtico presuntuoso, tenuto come schiavo tanti anni.„ E conquidevali Monobazo, che governava gli Adiabeni, domandando: „Quale aiuto chiedere, e onde? già l’Armenia esser ita; giucarsi del resto, non si difendendo i Parti; men dura servitù co’ Romani avrieno, arresi, che presi.„ Tiridate ancora cacciato del regno, che in tacendo, [p. 81 modifica]non poco si lamentava, il premeva: Non si reggere i grandi Stati con lo starsi a man giunte; doversi cimentar l’armi e gli uomini. La ragion dello Stato star nella forza; mantener il suo esser cosa da privato; laude regia, l’assaltar l’altrui.„

II. Vologese adunque per tanti stimoli chiamò suo consiglio, e con Tiridate accanto così cominciò: „Questo mio fratello, che per l’età mi cedette, investii dell’Armenia, che è il terzo grado del nostro regno; e avendo Pacoro già presi i Medi, mi pareva aver bene, e senza l’usato odio e combattere dei fratelli, acconce le cose nostre. Non se ne contentano, i Romani; e tornano a turbarci la pace, non mai turbata senza lor guai. Voleva io (nol niego) mantener gli acquisti de’ nostri antichi con la ragione, non col sangue. Se io ho peccato con dimora l’ammenderò con Virtù. Le forze e gloria vostra, non sono scemate, e di più avete ora fama dì modestia, che ne’più grandi uomini più riluce, e agl’Iddii è più cara.„ Così detto, in capo a Tiridate cinse la diadema; e a Monese, uomo nobile, accomandò i cavalleggieri, solita guardìa del Re, rinforzata d’aiuti Adiabeni; con ordine, di cacciar Tigrane d’Armenia; intanto e’ s’accorderebbe con gl’Ircani, e assalirebbe con forze più vive, e con tutta la guerra le province romane.

III. Alla certezza di tali avvisi, Corbulone soccorse Tigrane di due legioni, sotto Verulano Severo e Vezio Bolano, con ordine segreto di fare ogni còsa consideratansente, anzi che presto; volendo più tosto sostener la guerra che farla. A Cesare scrisse, che l’Armenia voleva esser guardata da proprio capitano; la Sorìa da Vologese portare maggior pericolo. Mette [p. 82 modifica]l’altre legioni avanti alla riva dell’Eufrate; raguna gente della provincia; piglia e chiude i passi al nimico; e perchè quel paese patisce d’acqua, mette guardie alle fonti, e con la rena ricuopre i rivi.

IV. Mentre che Corbulone tali cose ordina alla difesa della Sorìa, Monese marciò, a corsa, per giugnere alla sprovvista, e non riuscì; avendo già Tigrane preso Tigranocerta, città forte di popolo e di mura, cinte parte dal fiume Niceforio, assai largo, il festo da alto fosso. Fornita era di soldati, e vettovaglie: nel portarvele, alcuni troppo arrischiatisi, presi da’ nimici, accesero nelli altri, piuttosto ira che paura. Ma il Parto, che nell’assedio dappresso niente vale, con poche frecce, non fece al nimico paura, e perdè tempo. Gli Adiabèni, che cominciaro a piantar scale e ordigni, furon tosto gittati giù, e da’ nostri, usciti fuori, uccisi.

V. Tuttavia Corbulone, le fortune sue moderando, mandò a Vologese a dolersi della forza usata alla provincia, che un Re, confederato e amico, assediasse i Romani; se ne levasse tostanamente, o l’aspettasse come nimico. Casperio Centurione espose l’ambasciata ferocemente al Re trovato in Nisibi, trentasette miglia discosto a Tigranocerta. Vologese s’era molto prima risoluto di non la voler coi Romani, e le cose ora non gli andavano bene; l’assedio vano: Tigrane con sua gente sicuro; gli assalitori fuggiti; messe legioni in Armenia; altre pronte a entrar rovinose in Sorìa; la sua cavalleria esser debole per la fame, avendo infinità di grilli divorato ogni verzura. Celando adunque la paura, e mostrandosi agevole, rispose, che manderebbe ambasciadori all’imperador [p. 83 modifica]romano a chieder l’Armenia e fermar una pace: a Monese fece lasciare Tigranocerta, e indietro tornossi.

VI. Magnificavano molti queste cose, come ayvenute per concordia del Re e bravura di Corbulone; altri comentavano, essersi intesi tra loro che senza guerra Vologese partisse, e Tigrane appresso uscisse d’Armenia; „altramente, perchè levar l’esercito romano dai Tigranocerti? abbandonar nella pace, il difeso con guerra? Forse svenarsi con più agio nel confine di Cappadocia in capanne alla peggio, che nella sedia del dianzi tenuto regno? La guerra si è differita, perchè Vologese avesse appetto altri che Corbulone; ned ei mettesse a zara la sua gloria in tanti anni acquistata: „perchè egli aveva chiesto, come dissi, un Generale proprio per l’Armenia, e udivasi che veniva Cesennio Peto; il quale arrivato, si divisero le forze: la legion quarta, la dodicesima, e la quinta, tratta nuovamente di Mesia, e gli aiuti di Ponto, de’ Galati e Cappadoci, ubbidissero a Peto: e la terza, sesta e decima, e di Soria i soldati di prima, rimanessero a Corbulone; l’altre genti le si spartissero, o prestassero secondo i bisogni. Ma Corbulone non pativa compagno: e Peto, che si doveva gloriare d’esser secondo, sfatava le cose fatte, senza sangue, senza preda: sforzate città in nome metterebbe bene egli tributi e leggi a’ vinti, e romano giogo, levato via quell’ombra di re.

VII. Gli ambasciadori, che io dissi mandati da Vologese al principe, tornarono allora senza conclusione; onde i Parti ruppero la guerra; e Peto l’accettò: e con due legioni, rette allora la quarta da Funisolano Vettoniano, e la dodicesima da Calavio Sabino, entra in Armenia con tristi auguri. Passando [p. 84 modifica]per ponte l’Eufrate, il cavallo che portava l’insegne consolari, senza cagione che si vedesse, ombrò, diede a dietro e scappò: una bestia per sagrificio legata a certi padiglioni che si piantavano, a mezza l’opera si fuggi, e saltò lo steccato: arsero lanciotti de’soldati; peggior segno, perciocchè il Parto combatte col lanciare.

VIII. Ma Peto nulla stimando, senza aver ben fortificato gli alloggiatamenti del verno, nè proovveduto vettovaglie, corse con l’esercito oltre al monte Tauro, per ripigliare, come diceva, Tigranocerta, e guastare i paesi, che Corbulone non toccò. Prese alcune castella; e n’avrebbe riportato qualche gloria e preda, se l’una con modestia, l’altra con diligenza avesse guardata. Con lontane cavalcate tentò cose impossibili, guastò i viveri guadagnatì: e già venutone il verno, ripose l’esercito, e scrisse a Cesare, come se avesse vinta la guerra, parole gonfie, vote d’effetti.

IX. Corbulone intanto si tenne con più guardie nella sua sempre stimata riva dell’Eufrate; E perchè i cavalli nimici, che già in quelle pianure svolazzavano con gran mostra, non impedissero il farvi ponte, mise nel fiume grosse navi mentenate con travi, e sopravi torre; onde i mangani e balestre disordinavano i Barbari, sputàndo sassi, è lanciotti più lontano che non arrivavano le frecce contrarie. Il ponte si fece e si passò: gli aiuti presero le colline; le legioni vi presero il campo, con tanta prestezza e mostra di forze, che i Parti sbigóttiti della Sòria, voltarono ogni speranza all’Armenia.

X. Peto i soprastanti mali ignorando, aveva la legion quinta lontana in Ponto, e l’altre snervate di soldati, dando licenze a chi voleva. Udito che [p. 85 modifica]Vologese veniva, e minaccioso, chiama la dodicesima; ma questa, che egli voleva che desse nome che l’esercito fosse ingrossato, lo scoperse scemato; e così poteva in campo difendersi, e con allungar la guerra beffar il Parto se Peto avesse avuto fermezza ne’suoi e altrui consigli. Ma quando i soldati pratichi l’avvertivano ne’ casi urgenti, per non parer d’averne uopo, faceva il rovescio e male. E allora nel fuor del campo gridando, non essergli dato fosso, nè palancato, ma uomini e armi per combattere il nimico; e ordinò le genti quasi a giornata; poscia perduto un Centurione con pochi soldati, mandati a riconoscer l’oste nimica, tornò dentro impaurito; e perchè Vologese non veniva così ardente, ripreso vano attimo, mise nel monte Tauro vicino tremila fanti scelti per torgli il passo: i Pannoni, nerbo della cavalleria, giù nel piano, e in Arsomosata castello la moglie e’l figliuolo, guardati da una coorte. Così sparpagliò le forze, che unite avrien sostenuto meglio il nimico scorrazante. Dicon che, tirato con gli argani, lo confessò a Corbulone, che gli era addosso; il quale non sollecitò, perchè fosse (cresciuti i pericoli) il soccorso più glorioso.: avviò delle tre legioni fanti mille per una, e cavalli ottocento, e delle coorti altrettanti.

XI. Vologese, benchè avvisato de’ passi presi da Peto, di qua co’ fanti, di là co’ cavalli, seguitò innanzi, e fugò i cavalli, disfece i legionari; sì che solo Tarquinio Crescente Centurione ardì difendersi nella torre commessagli: spesso uscì fuori, e uccise i Barbari che s’accostavano, sino a che rimase in mezzo a molti fuochi lanciatigli: fuggironsi i pedoni: se alcuno sano scampò, fuor di strade e [p. 86 modifica]discosto: i feriti, nel campo, i quali della virtù dei Re, crudeltà e numero de’nimici, contavano per paura le maraviglie; e credevale agevolmente chi n’era spaventato. Peto, senza rimediare ai disordini, abbandonati tutti gli uffici di guerra, mandò di nuovo pregando Corbulone che venisse tosto: difendesse le insegne, e l’aquile e ’l nome di quel poco d’esercito infelice che rimaneva: egli mentre avesse vita, manterrebbe la fede.

XII. Corbulone con franco animo, lasciata in Soria una parte di sua gente, per tenere i forti in su l’Eufrate, per la via più corta, e fornita di vettovaglie, pervenne ne’ Comageni, in Cappadocia, in Armenia. Veniva con l’esercito, oltre all’altro solito bagagliume, gran numero di cammelli carichi di grano, per cacciare insieme il nimico e la fame. Il primo degli spaventati ad incontrarlo fu Pazìo Centurione primopilo, e molti altri appresso; a’ quali, alleganti varie scuse della lor fuga, disse che tornassero all’insègne, a Peto, se e’ volesse perdonar loro; ch’egli non perdonava se non a chi vinceva. Visita le legioni sue; confortale, ricorda le preterite dazioni; mostra gloria nuova, e racquisto premio di lor fatiche: „Non di casali o castellucci d’Armenia, ma del campo romano, soli due legioni entrovi. Se d’un solo soldatello, d’un solo cittadino salvato, riceverebbe per mano dell’Imperadore la sua corona, quanta gloria vi fia veder pari numero d’incoronati e salvati?„ Accesi da tali parole, e maggiormente chi vi avea fratelli o parenti, marciavano dì e notte, ratti senza posare.

XIII. E Vologese strigneva tanto più gli assediati: assaltava ora il campo, ora il castello, ove era la [p. 87 modifica]gente debole, accostandosi più che non osano i Parti, per tirare col troppo ardire il nimico a combattere. Ma essi a pena uscivano dalle tende: difendevano a pena i ripari, chi per ordine del capitano, chi per codardia propria, aspettando Corbulone: o se fussero sopraffatti, presti a valersi degli esempli della caudina o numantina sconfitta. Negavano aver avuto tante forze i Sanniti, popoli dell’Italia, nè i Cartarginesi, emuli all’imperio romano. Anche la forte e lodata antichitade aver cercato salvarsi nelle fortune. Questa disperazion dell’esercito forzò Peto a scrivere al Re la prima lettera, non umile, ma quasi querelandosi: „Ch’ei procedesse da nimico per li Armeni, che furon sempre dell’imperio romano ligi, o sotto Re dato dall’Imperadore. La pace esser del pari utile. Non mirasse solo il presente. Esso esser venuto contro a due legioni con tutte le forse del regno; a’ Romani rimanere per aiutar quella guerra il resto del mondo.

XIV. Vologese non rispose a proposito: „Aspettar quivi d’ora in ora Pacoro e Tiridate, suoi fratelli, per risolvere quanto fosse da far delle legioni romane e dell’Armenia, dalli Iddii aggiunta alla degnitade arsacida.„ Poscia Peto chiedèo per messaggi d’abboccarsi col Re, il quale vi mandò Vasace General di cavalli; a cui Peto ricordò i Luculli, i Pompei, e se altri Capitani tennero o donarono l’Armenia. Vasace, disse, averla noi tenuta e data in cirimonia; essi in effetto. Assai disputaro, e l’altro dì, presente Monobazo Adiabeno, chiamato per testimone, capitolano: che l’assedio si levasse dalle legioni, sgombrassero d’Armenia tutti i soldati, [p. 88 modifica]lasciassero le Fortezze e i viveri a’ Parti; ciò fatto, potesse Vologese mandar ambasciadori a Nerone.

XV. In tanto Peto gittò un ponte sopra ’l fiume Arsania, che innanzi al campo, correva, quasi per andarsene per di là; ma i Parti lo comandaron per segno d’aver vinto, perchè se ne servirono, e i nostri tennero altra via. La fama aggiunse che le legioni furon messe sotto ’l giogo; e altre nostre sciagure, dalli Armeni rappresentate, con l’entrar nel campo prima che i Romani n’uscissero: pigliar le vie di qua è di là; riconoscere, e torsi li schiavi e giumenti presi già; strappar veste e armi; dando i nostri del buon per la pace. Vologese dell’armi e de’ corpi morti rizzò un trofeo per memoria della nostra sconfitta: non si fermò a veder fuggire le nostre legioni per dar fama di modestia quando di superbia era sazio. Passò l’Arsania sopra uno elefante: e la guardia, a forza di cavallo; dicendosi che il ponte era fatto a malizia da cadere caricante; ma gli altri che s’arrischiarono, il trovaron sodo e fidato.

XVI. Certo è, che agli assediati avanzò tanto grano che l’abbruciarono; e, per lo contrario, Corbulone divolgò, che a’ Parti, per mancamento di vettovaglia e guasto di pastore, conveniva levar l’assedio, e non era che tre giornate lontano: e che Peto promise e giurò innanzi alle insegne, presenti i testimoni che vi mandò il Re, che niuno Romano entrerebbe in Armenia sino alla risposta di Nerone se ei accettava la pace. Cose da Corbulone abbellite per più infamia di Peto. E’ ben chiaro che Peto corse più di quaranta miglia in un dì, lasciando per tutto i feriti; e più bruttamente fuggirono che se [p. 89 modifica]avessero voltate le spalle in battaglia. Corbulone lo riscontrò alla riva dell’£ufrate, con la gente, insegne e armi meste, per non rimproverargli la differenza. I soldati per compassione de’ lor compagni non tenner le lagrime; per lo pianto appena si salutarono; non vi era gara di virtù, non desio di gloria, affetti di gaio cuore; sola compassione, e più ne’ più bassi.

XVII. Poche parole si dissero i due Capitani; l’uno si dolse d’aver penduto tanta fatica; essersi i Parti potuti mettèr in fuga, e finir la guerra; l’altro, non esserci rotto nulla: rivoltassero congiunti l’insegne a ripigliare l’Armenia rimasa debole senza Vologese. Replicò Corbulone: „Non aver tal ordine dall’Imperadore: aver lasciato il suo carico, commosso dal pericolo delle legioni; non sì sapendo ove i Parti si voglian gittare, si tornerebbe in Soria; e dielvoglia, che la fanteria per sì lunghi cammini spedata, tenga dietro alla cavalleria pronta e avanzantesi per le pianure agevoli.„ Peto svernò per la Cappadocia. Vologese mandò a dire a Corbulone che levasse, via le Fortezze oltre Eufrate, si che il fiume, come prima, li dividesse. Anch’egli chiedeva che levasse le guardie lasciate in Armenia. Il Re alla fine fu contento. Corbulone altresì smantellò quanto oltre Eufrate aveva fortificato, e gli Armeni rimasero in libertà.

XVIII. In Roma gli archi e i trofei ordinati dal senato per la vittoria de’ Parti, mentre la guerra ardea, pur si rizzavano nel Campidoglio, avendo più riguardo all’apparenza che al vero. Anzi Nerone, per mostrare sicurezza delle cose di fuori e dentro, gittò in Tevere il grano vecchio, e guasto dall’ [p. 90 modifica]abbondanza, e nol rincarò; benchè da dugento navi nel porto stesso per gran tempesta e cento altre condotte per lo Tevere, per la disgrazia di fuoco, n’andasser male. Fece tre ufficiali dell’entrate publiche; stati Consoli, Lucio Pisone, Ducennio Gemino, Pompeo Paulino; tassando i passati principi, d’aver speso più che l’entrate; dove egli donava l’anno un milione e mezzo d’oro alla repubblica.

XIX. In quel tempo era cresciuta una mala usanza, che in su’l fare gli squittini o trarre i reggimenti, molti senza figliuoli fingevano d’adottarne; e avuti gli onori, dovuti a ogni padre, manceppavano i figliuoli adottati. Onde i veri padri con grande stomaco ricorrono al senato: ricordano la ragione della natura, le fatiche dello allevare, contro alla fraude, artifizj e brevità delle adozioni: „Dover bastare a chi figliuoli non ha, esser grato, onorato, ricco di tutti i beni, senza carichi o pericoli. Torneranno ridicoli i promessi premj dalle leggi a que’che gli aspettan cent’anni, se si daranno i medesimi incontanente a chi ha figliuoli senza fatica, e perdegli senza duolo:„ Ne nacque un partito del senato, che per adozione simulata non si desse ufficio pubblico, nè redità.

XX. Claudio Timarco candiotto fu querelato di cose solite a’ potenti delle province, che si mangiano i minori. Ma quel che toccò nel vivo il senato, fu una parola, che il fare ringraziare o no i viceconsoli che tornavan di Candia, stava a lui; la qual cosa Trasea Peto tirando all’utilità pubblica, poichè ebbe giudicato doversi il reo cacciar di Candia, così soggiunse: „La sperienza ha mostrato, Padri Coscritti, che le sante leggi e gli esempi nascono appo i buoni [p. 91 modifica]da’ peccati altrui. La tirannia degli avvocati generò la legge Cincia; le pratiche de’ candidati, le Giulie; l’avarizia de’ magistrati, le Calpurnie; perchè la colpa va innanzi alla pena, il peccare all’ammenda. Pigliamo adunque alla nuora superbia de’ vassalli rimedio degno della fede e saldezza romana: siano essi più che mai difesi: ma il sindacar chi gli ha governati, stea a nói cittadini, non ad alcun di loro„.

XXI. „Già si mandava loro, oltre al Pretore o Consolo, Visitatori, che referendo, come ciaschedun si portasse, tenevano i popoli in cervello. Oggi noi osserviamo i vassalli, e gli aduliamo; e a cui essi vogliono, corriamo a render grazie del ben servito o a dare accuse. Concedasi loro, e mostrino in tal modo la lor potenza; ma le laudi false, o con preghi accattate, raffreninsi, non meno che la malvagità e la crudeltà. Più spesso si pecca per non fior male; anzi odiamo alcune virtù: severità costante, animo disprezzante i favori. Onde noi siamo migliori nel principio dei nostri magistrati che nel fine, quando ci andiamo raccomandando, come fa chi li chiede»Le quali cose levandosi, saranno le province rette con più giustizia e reputazione; e perchè, si come la paura della legge del maltolto frenò l’avarizia, così si leveranno le pratiche col proibire ringraziamenti„.

XXII. Celebrarono tutti questa sentenza; ma non se ne fece partito; dicendo i Consoli, che ella non s’era proposta. Fecesi poi per ordine del principe, che ne’ consigli delle province ninno proponesse di ringraziare del ben servito chi tornasse di reggimento, nè ne venisse ambasceria. Sotto questi Consoli un folgore arse le Terme; e la statua, che vi [p. 92 modifica]era di Nerone, strusse interamente. Un tremuoto in Terra di Lavoro rovinò gran parte di Pompeia, terra grossa. Morì Lella vergine di Vesta, e fu rifatta Ccrnelia Cossa,

XXIII. Nel consolato di Memmio Regolo e Verginio Rufo, Nerone d’una figliuola natagli di Poppea nella colonia d’Anzio, ove egli fu generato, fece sopr’umana allegrezza: lei e la madre chiamò Auguste. Il senato, che già il vèntre aveva raccomandato agl’Iddii, e fatto gran voti e preghi, li soddisfece moltiplicati: aggiunse pricissioni; ordinò tempio alla Fecondità; la festa d’Azio; in Campidoglio nel trono del tempio di Giove statua d’oro alle Fortune, e in Anzio la festa Circense per casa Claudia e Domizia, come in Boville più casa Giulia. Nel quarto mese la creatura morì e tutto andò in fumo: nondimeno l’adulazione rimise il tallo: e volevane farla Iddia, sagrarle tempio, letto e sacerdoti. Egli ne feo e nell’allegrezza e nel dolore, le pazzie. Notossi che quando poco dopo il parto tutto il senato correva ad Anzio, Trasea, che non vi fu lasciato andare^ per tale affronto (messaggio di mala morte) non si cambiò, Cesare poi dicono che disse a Seneca, che la collora con Trasea gli era passata; e Seneca con Cesare se ne rallegró; e gloria e pericoli ne cresceano a questi eccellenti.

XXIV. Entrando primavera, vennero ambasciadori de’ Parti, con lettere di Vologese, superbe al solito: „Che non volevano più trattare delle antiche pretensioni sopra l’Armenia, tante volte cimentate, poichè gl’Iddii, arbitri di tutte le potenze, ne avevano dato il possesso a’ Parti, non senza onta romana. Dall’averne lasciati andar salvi, Tigrane, che era [p. 93 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/93 [p. 94 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/94 [p. 95 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/95 [p. 96 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/96 [p. 97 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/97 [p. 98 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/98 [p. 99 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/99 [p. 100 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/100 [p. 101 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/101 [p. 102 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/102 [p. 103 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/103 [p. 104 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/104 [p. 105 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/105 [p. 106 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/106 [p. 107 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/107 [p. 108 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/108 [p. 109 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/109 [p. 110 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/110 [p. 111 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/111 [p. 112 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/112 [p. 113 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/113 [p. 114 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/114 [p. 115 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/115 [p. 116 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/116 [p. 117 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/117 [p. 118 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/118 [p. 119 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/119 [p. 120 modifica]Pagina:Tacito - Opere storiche, 1822, vol. 2.djvu/120