Annali (Tacito)/XV
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LIBRO DECIMOQUINTO
SOMMARIO
- Anno di Roma dcccxvi. Di Cristo 63.
Consoli. C. Memmìo Regolo e L. Virginio Rufo.
- An. di Roma dcccxvii. Di Cristo 64.
Consoli. L. Lecanio Basso e M. Licinio Crasso.
- An. di Roma dcccxviii. Di Cristo 65.
Cons. A. Licin. Nerva Siliano e M. Vestino Attico.
I. In questo tempo Vologese Re de’ Parti, veduto i successi di Corbulone, dato all’Armenia Tigrane Re forestiero, spregiata, per esserne cacciato Tiridate suo fratello, la grandigia arsacida; pensando alla vendetta, e all’incontro alla grandezza romana, e alla riverenza della continuata amicizia, si dibatteva: tardo per natura, impacciato per molte guerre; per esserglisi ribellati gl’Ircanj, gagliarda gente. Lo punse di più novella vergognosa, che Tigrane era uscito d’Armenia a danni più che a ruberie degli Adiabeni, suoi confinanti, e durava, non potendo i principali sofferire, „che gl’insultasse non un capitano romano, ma uno stàtico presuntuoso, tenuto come schiavo tanti anni.„ E conquidevali Monobazo, che governava gli Adiabeni, domandando: „Quale aiuto chiedere, e onde? già l’Armenia esser ita; giucarsi del resto, non si difendendo i Parti; men dura servitù co’ Romani avrieno, arresi, che presi.„ Tiridate ancora cacciato del regno, che in tacendo, non poco si lamentava, il premeva: Non si reggere i grandi Stati con lo starsi a man giunte; doversi cimentar l’armi e gli uomini. La ragion dello Stato star nella forza; mantener il suo esser cosa da privato; laude regia, l’assaltar l’altrui.„
II. Vologese adunque per tanti stimoli chiamò suo consiglio, e con Tiridate accanto così cominciò: „Questo mio fratello, che per l’età mi cedette, investii dell’Armenia, che è il terzo grado del nostro regno; e avendo Pacoro già presi i Medi, mi pareva aver bene, e senza l’usato odio e combattere dei fratelli, acconce le cose nostre. Non se ne contentano, i Romani; e tornano a turbarci la pace, non mai turbata senza lor guai. Voleva io (nol niego) mantener gli acquisti de’ nostri antichi con la ragione, non col sangue. Se io ho peccato con dimora l’ammenderò con Virtù. Le forze e gloria vostra, non sono scemate, e di più avete ora fama dì modestia, che ne’più grandi uomini più riluce, e agl’Iddii è più cara.„ Così detto, in capo a Tiridate cinse la diadema; e a Monese, uomo nobile, accomandò i cavalleggieri, solita guardìa del Re, rinforzata d’aiuti Adiabeni; con ordine, di cacciar Tigrane d’Armenia; intanto e’ s’accorderebbe con gl’Ircani, e assalirebbe con forze più vive, e con tutta la guerra le province romane.
III. Alla certezza di tali avvisi, Corbulone soccorse Tigrane di due legioni, sotto Verulano Severo e Vezio Bolano, con ordine segreto di fare ogni còsa consideratansente, anzi che presto; volendo più tosto sostener la guerra che farla. A Cesare scrisse, che l’Armenia voleva esser guardata da proprio capitano; la Sorìa da Vologese portare maggior pericolo. Mette l’altre legioni avanti alla riva dell’Eufrate; raguna gente della provincia; piglia e chiude i passi al nimico; e perchè quel paese patisce d’acqua, mette guardie alle fonti, e con la rena ricuopre i rivi.
IV. Mentre che Corbulone tali cose ordina alla difesa della Sorìa, Monese marciò, a corsa, per giugnere alla sprovvista, e non riuscì; avendo già Tigrane preso Tigranocerta, città forte di popolo e di mura, cinte parte dal fiume Niceforio, assai largo, il festo da alto fosso. Fornita era di soldati, e vettovaglie: nel portarvele, alcuni troppo arrischiatisi, presi da’ nimici, accesero nelli altri, piuttosto ira che paura. Ma il Parto, che nell’assedio dappresso niente vale, con poche frecce, non fece al nimico paura, e perdè tempo. Gli Adiabèni, che cominciaro a piantar scale e ordigni, furon tosto gittati giù, e da’ nostri, usciti fuori, uccisi.
V. Tuttavia Corbulone, le fortune sue moderando, mandò a Vologese a dolersi della forza usata alla provincia, che un Re, confederato e amico, assediasse i Romani; se ne levasse tostanamente, o l’aspettasse come nimico. Casperio Centurione espose l’ambasciata ferocemente al Re trovato in Nisibi, trentasette miglia discosto a Tigranocerta. Vologese s’era molto prima risoluto di non la voler coi Romani, e le cose ora non gli andavano bene; l’assedio vano: Tigrane con sua gente sicuro; gli assalitori fuggiti; messe legioni in Armenia; altre pronte a entrar rovinose in Sorìa; la sua cavalleria esser debole per la fame, avendo infinità di grilli divorato ogni verzura. Celando adunque la paura, e mostrandosi agevole, rispose, che manderebbe ambasciadori all’imperador romano a chieder l’Armenia e fermar una pace: a Monese fece lasciare Tigranocerta, e indietro tornossi.
VI. Magnificavano molti queste cose, come ayvenute per concordia del Re e bravura di Corbulone; altri comentavano, essersi intesi tra loro che senza guerra Vologese partisse, e Tigrane appresso uscisse d’Armenia; „altramente, perchè levar l’esercito romano dai Tigranocerti? abbandonar nella pace, il difeso con guerra? Forse svenarsi con più agio nel confine di Cappadocia in capanne alla peggio, che nella sedia del dianzi tenuto regno? La guerra si è differita, perchè Vologese avesse appetto altri che Corbulone; ned ei mettesse a zara la sua gloria in tanti anni acquistata: „perchè egli aveva chiesto, come dissi, un Generale proprio per l’Armenia, e udivasi che veniva Cesennio Peto; il quale arrivato, si divisero le forze: la legion quarta, la dodicesima, e la quinta, tratta nuovamente di Mesia, e gli aiuti di Ponto, de’ Galati e Cappadoci, ubbidissero a Peto: e la terza, sesta e decima, e di Soria i soldati di prima, rimanessero a Corbulone; l’altre genti le si spartissero, o prestassero secondo i bisogni. Ma Corbulone non pativa compagno: e Peto, che si doveva gloriare d’esser secondo, sfatava le cose fatte, senza sangue, senza preda: sforzate città in nome metterebbe bene egli tributi e leggi a’ vinti, e romano giogo, levato via quell’ombra di re.
VII. Gli ambasciadori, che io dissi mandati da Vologese al principe, tornarono allora senza conclusione; onde i Parti ruppero la guerra; e Peto l’accettò: e con due legioni, rette allora la quarta da Funisolano Vettoniano, e la dodicesima da Calavio Sabino, entra in Armenia con tristi auguri. Passando per ponte l’Eufrate, il cavallo che portava l’insegne consolari, senza cagione che si vedesse, ombrò, diede a dietro e scappò: una bestia per sagrificio legata a certi padiglioni che si piantavano, a mezza l’opera si fuggi, e saltò lo steccato: arsero lanciotti de’soldati; peggior segno, perciocchè il Parto combatte col lanciare.
VIII. Ma Peto nulla stimando, senza aver ben fortificato gli alloggiatamenti del verno, nè proovveduto vettovaglie, corse con l’esercito oltre al monte Tauro, per ripigliare, come diceva, Tigranocerta, e guastare i paesi, che Corbulone non toccò. Prese alcune castella; e n’avrebbe riportato qualche gloria e preda, se l’una con modestia, l’altra con diligenza avesse guardata. Con lontane cavalcate tentò cose impossibili, guastò i viveri guadagnatì: e già venutone il verno, ripose l’esercito, e scrisse a Cesare, come se avesse vinta la guerra, parole gonfie, vote d’effetti.
IX. Corbulone intanto si tenne con più guardie nella sua sempre stimata riva dell’Eufrate; E perchè i cavalli nimici, che già in quelle pianure svolazzavano con gran mostra, non impedissero il farvi ponte, mise nel fiume grosse navi mentenate con travi, e sopravi torre; onde i mangani e balestre disordinavano i Barbari, sputàndo sassi, è lanciotti più lontano che non arrivavano le frecce contrarie. Il ponte si fece e si passò: gli aiuti presero le colline; le legioni vi presero il campo, con tanta prestezza e mostra di forze, che i Parti sbigóttiti della Sòria, voltarono ogni speranza all’Armenia.
X. Peto i soprastanti mali ignorando, aveva la legion quinta lontana in Ponto, e l’altre snervate di soldati, dando licenze a chi voleva. Udito che Vologese veniva, e minaccioso, chiama la dodicesima; ma questa, che egli voleva che desse nome che l’esercito fosse ingrossato, lo scoperse scemato; e così poteva in campo difendersi, e con allungar la guerra beffar il Parto se Peto avesse avuto fermezza ne’suoi e altrui consigli. Ma quando i soldati pratichi l’avvertivano ne’ casi urgenti, per non parer d’averne uopo, faceva il rovescio e male. E allora nel fuor del campo gridando, non essergli dato fosso, nè palancato, ma uomini e armi per combattere il nimico; e ordinò le genti quasi a giornata; poscia perduto un Centurione con pochi soldati, mandati a riconoscer l’oste nimica, tornò dentro impaurito; e perchè Vologese non veniva così ardente, ripreso vano attimo, mise nel monte Tauro vicino tremila fanti scelti per torgli il passo: i Pannoni, nerbo della cavalleria, giù nel piano, e in Arsomosata castello la moglie e’l figliuolo, guardati da una coorte. Così sparpagliò le forze, che unite avrien sostenuto meglio il nimico scorrazante. Dicon che, tirato con gli argani, lo confessò a Corbulone, che gli era addosso; il quale non sollecitò, perchè fosse (cresciuti i pericoli) il soccorso più glorioso.: avviò delle tre legioni fanti mille per una, e cavalli ottocento, e delle coorti altrettanti.
XI. Vologese, benchè avvisato de’ passi presi da Peto, di qua co’ fanti, di là co’ cavalli, seguitò innanzi, e fugò i cavalli, disfece i legionari; sì che solo Tarquinio Crescente Centurione ardì difendersi nella torre commessagli: spesso uscì fuori, e uccise i Barbari che s’accostavano, sino a che rimase in mezzo a molti fuochi lanciatigli: fuggironsi i pedoni: se alcuno sano scampò, fuor di strade e discosto: i feriti, nel campo, i quali della virtù dei Re, crudeltà e numero de’nimici, contavano per paura le maraviglie; e credevale agevolmente chi n’era spaventato. Peto, senza rimediare ai disordini, abbandonati tutti gli uffici di guerra, mandò di nuovo pregando Corbulone che venisse tosto: difendesse le insegne, e l’aquile e ’l nome di quel poco d’esercito infelice che rimaneva: egli mentre avesse vita, manterrebbe la fede.
XII. Corbulone con franco animo, lasciata in Soria una parte di sua gente, per tenere i forti in su l’Eufrate, per la via più corta, e fornita di vettovaglie, pervenne ne’ Comageni, in Cappadocia, in Armenia. Veniva con l’esercito, oltre all’altro solito bagagliume, gran numero di cammelli carichi di grano, per cacciare insieme il nimico e la fame. Il primo degli spaventati ad incontrarlo fu Pazìo Centurione primopilo, e molti altri appresso; a’ quali, alleganti varie scuse della lor fuga, disse che tornassero all’insègne, a Peto, se e’ volesse perdonar loro; ch’egli non perdonava se non a chi vinceva. Visita le legioni sue; confortale, ricorda le preterite dazioni; mostra gloria nuova, e racquisto premio di lor fatiche: „Non di casali o castellucci d’Armenia, ma del campo romano, soli due legioni entrovi. Se d’un solo soldatello, d’un solo cittadino salvato, riceverebbe per mano dell’Imperadore la sua corona, quanta gloria vi fia veder pari numero d’incoronati e salvati?„ Accesi da tali parole, e maggiormente chi vi avea fratelli o parenti, marciavano dì e notte, ratti senza posare.
XIII. E Vologese strigneva tanto più gli assediati: assaltava ora il campo, ora il castello, ove era la gente debole, accostandosi più che non osano i Parti, per tirare col troppo ardire il nimico a combattere. Ma essi a pena uscivano dalle tende: difendevano a pena i ripari, chi per ordine del capitano, chi per codardia propria, aspettando Corbulone: o se fussero sopraffatti, presti a valersi degli esempli della caudina o numantina sconfitta. Negavano aver avuto tante forze i Sanniti, popoli dell’Italia, nè i Cartarginesi, emuli all’imperio romano. Anche la forte e lodata antichitade aver cercato salvarsi nelle fortune. Questa disperazion dell’esercito forzò Peto a scrivere al Re la prima lettera, non umile, ma quasi querelandosi: „Ch’ei procedesse da nimico per li Armeni, che furon sempre dell’imperio romano ligi, o sotto Re dato dall’Imperadore. La pace esser del pari utile. Non mirasse solo il presente. Esso esser venuto contro a due legioni con tutte le forse del regno; a’ Romani rimanere per aiutar quella guerra il resto del mondo.
XIV. Vologese non rispose a proposito: „Aspettar quivi d’ora in ora Pacoro e Tiridate, suoi fratelli, per risolvere quanto fosse da far delle legioni romane e dell’Armenia, dalli Iddii aggiunta alla degnitade arsacida.„ Poscia Peto chiedèo per messaggi d’abboccarsi col Re, il quale vi mandò Vasace General di cavalli; a cui Peto ricordò i Luculli, i Pompei, e se altri Capitani tennero o donarono l’Armenia. Vasace, disse, averla noi tenuta e data in cirimonia; essi in effetto. Assai disputaro, e l’altro dì, presente Monobazo Adiabeno, chiamato per testimone, capitolano: che l’assedio si levasse dalle legioni, sgombrassero d’Armenia tutti i soldati, lasciassero le Fortezze e i viveri a’ Parti; ciò fatto, potesse Vologese mandar ambasciadori a Nerone.
XV. In tanto Peto gittò un ponte sopra ’l fiume Arsania, che innanzi al campo, correva, quasi per andarsene per di là; ma i Parti lo comandaron per segno d’aver vinto, perchè se ne servirono, e i nostri tennero altra via. La fama aggiunse che le legioni furon messe sotto ’l giogo; e altre nostre sciagure, dalli Armeni rappresentate, con l’entrar nel campo prima che i Romani n’uscissero: pigliar le vie di qua è di là; riconoscere, e torsi li schiavi e giumenti presi già; strappar veste e armi; dando i nostri del buon per la pace. Vologese dell’armi e de’ corpi morti rizzò un trofeo per memoria della nostra sconfitta: non si fermò a veder fuggire le nostre legioni per dar fama di modestia quando di superbia era sazio. Passò l’Arsania sopra uno elefante: e la guardia, a forza di cavallo; dicendosi che il ponte era fatto a malizia da cadere caricante; ma gli altri che s’arrischiarono, il trovaron sodo e fidato.
XVI. Certo è, che agli assediati avanzò tanto grano che l’abbruciarono; e, per lo contrario, Corbulone divolgò, che a’ Parti, per mancamento di vettovaglia e guasto di pastore, conveniva levar l’assedio, e non era che tre giornate lontano: e che Peto promise e giurò innanzi alle insegne, presenti i testimoni che vi mandò il Re, che niuno Romano entrerebbe in Armenia sino alla risposta di Nerone se ei accettava la pace. Cose da Corbulone abbellite per più infamia di Peto. E’ ben chiaro che Peto corse più di quaranta miglia in un dì, lasciando per tutto i feriti; e più bruttamente fuggirono che se avessero voltate le spalle in battaglia. Corbulone lo riscontrò alla riva dell’£ufrate, con la gente, insegne e armi meste, per non rimproverargli la differenza. I soldati per compassione de’ lor compagni non tenner le lagrime; per lo pianto appena si salutarono; non vi era gara di virtù, non desio di gloria, affetti di gaio cuore; sola compassione, e più ne’ più bassi.
XVII. Poche parole si dissero i due Capitani; l’uno si dolse d’aver penduto tanta fatica; essersi i Parti potuti mettèr in fuga, e finir la guerra; l’altro, non esserci rotto nulla: rivoltassero congiunti l’insegne a ripigliare l’Armenia rimasa debole senza Vologese. Replicò Corbulone: „Non aver tal ordine dall’Imperadore: aver lasciato il suo carico, commosso dal pericolo delle legioni; non sì sapendo ove i Parti si voglian gittare, si tornerebbe in Soria; e dielvoglia, che la fanteria per sì lunghi cammini spedata, tenga dietro alla cavalleria pronta e avanzantesi per le pianure agevoli.„ Peto svernò per la Cappadocia. Vologese mandò a dire a Corbulone che levasse, via le Fortezze oltre Eufrate, si che il fiume, come prima, li dividesse. Anch’egli chiedeva che levasse le guardie lasciate in Armenia. Il Re alla fine fu contento. Corbulone altresì smantellò quanto oltre Eufrate aveva fortificato, e gli Armeni rimasero in libertà.
XVIII. In Roma gli archi e i trofei ordinati dal senato per la vittoria de’ Parti, mentre la guerra ardea, pur si rizzavano nel Campidoglio, avendo più riguardo all’apparenza che al vero. Anzi Nerone, per mostrare sicurezza delle cose di fuori e dentro, gittò in Tevere il grano vecchio, e guasto dall’ abbondanza, e nol rincarò; benchè da dugento navi nel porto stesso per gran tempesta e cento altre condotte per lo Tevere, per la disgrazia di fuoco, n’andasser male. Fece tre ufficiali dell’entrate publiche; stati Consoli, Lucio Pisone, Ducennio Gemino, Pompeo Paulino; tassando i passati principi, d’aver speso più che l’entrate; dove egli donava l’anno un milione e mezzo d’oro alla repubblica.
XIX. In quel tempo era cresciuta una mala usanza, che in su’l fare gli squittini o trarre i reggimenti, molti senza figliuoli fingevano d’adottarne; e avuti gli onori, dovuti a ogni padre, manceppavano i figliuoli adottati. Onde i veri padri con grande stomaco ricorrono al senato: ricordano la ragione della natura, le fatiche dello allevare, contro alla fraude, artifizj e brevità delle adozioni: „Dover bastare a chi figliuoli non ha, esser grato, onorato, ricco di tutti i beni, senza carichi o pericoli. Torneranno ridicoli i promessi premj dalle leggi a que’che gli aspettan cent’anni, se si daranno i medesimi incontanente a chi ha figliuoli senza fatica, e perdegli senza duolo:„ Ne nacque un partito del senato, che per adozione simulata non si desse ufficio pubblico, nè redità.
XX. Claudio Timarco candiotto fu querelato di cose solite a’ potenti delle province, che si mangiano i minori. Ma quel che toccò nel vivo il senato, fu una parola, che il fare ringraziare o no i viceconsoli che tornavan di Candia, stava a lui; la qual cosa Trasea Peto tirando all’utilità pubblica, poichè ebbe giudicato doversi il reo cacciar di Candia, così soggiunse: „La sperienza ha mostrato, Padri Coscritti, che le sante leggi e gli esempi nascono appo i buoni da’ peccati altrui. La tirannia degli avvocati generò la legge Cincia; le pratiche de’ candidati, le Giulie; l’avarizia de’ magistrati, le Calpurnie; perchè la colpa va innanzi alla pena, il peccare all’ammenda. Pigliamo adunque alla nuora superbia de’ vassalli rimedio degno della fede e saldezza romana: siano essi più che mai difesi: ma il sindacar chi gli ha governati, stea a nói cittadini, non ad alcun di loro„.
XXI. „Già si mandava loro, oltre al Pretore o Consolo, Visitatori, che referendo, come ciaschedun si portasse, tenevano i popoli in cervello. Oggi noi osserviamo i vassalli, e gli aduliamo; e a cui essi vogliono, corriamo a render grazie del ben servito o a dare accuse. Concedasi loro, e mostrino in tal modo la lor potenza; ma le laudi false, o con preghi accattate, raffreninsi, non meno che la malvagità e la crudeltà. Più spesso si pecca per non fior male; anzi odiamo alcune virtù: severità costante, animo disprezzante i favori. Onde noi siamo migliori nel principio dei nostri magistrati che nel fine, quando ci andiamo raccomandando, come fa chi li chiede»Le quali cose levandosi, saranno le province rette con più giustizia e reputazione; e perchè, si come la paura della legge del maltolto frenò l’avarizia, così si leveranno le pratiche col proibire ringraziamenti„.
XXII. Celebrarono tutti questa sentenza; ma non se ne fece partito; dicendo i Consoli, che ella non s’era proposta. Fecesi poi per ordine del principe, che ne’ consigli delle province ninno proponesse di ringraziare del ben servito chi tornasse di reggimento, nè ne venisse ambasceria. Sotto questi Consoli un folgore arse le Terme; e la statua, che vi era di Nerone, strusse interamente. Un tremuoto in Terra di Lavoro rovinò gran parte di Pompeia, terra grossa. Morì Lella vergine di Vesta, e fu rifatta Ccrnelia Cossa,
XXIII. Nel consolato di Memmio Regolo e Verginio Rufo, Nerone d’una figliuola natagli di Poppea nella colonia d’Anzio, ove egli fu generato, fece sopr’umana allegrezza: lei e la madre chiamò Auguste. Il senato, che già il vèntre aveva raccomandato agl’Iddii, e fatto gran voti e preghi, li soddisfece moltiplicati: aggiunse pricissioni; ordinò tempio alla Fecondità; la festa d’Azio; in Campidoglio nel trono del tempio di Giove statua d’oro alle Fortune, e in Anzio la festa Circense per casa Claudia e Domizia, come in Boville più casa Giulia. Nel quarto mese la creatura morì e tutto andò in fumo: nondimeno l’adulazione rimise il tallo: e volevane farla Iddia, sagrarle tempio, letto e sacerdoti. Egli ne feo e nell’allegrezza e nel dolore, le pazzie. Notossi che quando poco dopo il parto tutto il senato correva ad Anzio, Trasea, che non vi fu lasciato andare^ per tale affronto (messaggio di mala morte) non si cambiò, Cesare poi dicono che disse a Seneca, che la collora con Trasea gli era passata; e Seneca con Cesare se ne rallegró; e gloria e pericoli ne cresceano a questi eccellenti.
XXIV. Entrando primavera, vennero ambasciadori de’ Parti, con lettere di Vologese, superbe al solito: „Che non volevano più trattare delle antiche pretensioni sopra l’Armenia, tante volte cimentate, poichè gl’Iddii, arbitri di tutte le potenze, ne avevano dato il possesso a’ Parti, non senza onta romana. Dall’averne lasciati andar salvi, Tigrane, che era rinchiuso; poi Peto con le legioni, cui poteva opprimere; assaisi provarsi la sua possanza e benignità. Tiridate sarebbe venuto per lo diadema a Roma, se non l’avesse ritenuto il sacerdozio. Andrebbe alle insegne e immagini del principe, e quivi, presenti le legioni, s’incoronerebbe.
XXV. Lo scriver di Peto, molto diverso a queste lettere, che le cose passavano egregiamente, fece interrogare il Centurione, venuto con gli ambasciadori, in che stato fusse l’Armenia, rispose: sgombrata da tutti i Romani. Allora inteso il parlare de’ Barbari, che chiedevano il toltosi, Nerone co’ principali fece consiglio: qual fosse meglio, prender guerra dubbia o pace vergognosa. Dissero: la gueira certamente; e ne fu dato il carico a Corbulone, che per tanti anni conosceva i soldati e quei nimicì, acciò l’ignoranza non facesse un altrro peccare, come Peto. Così furon senza conclusione gli ambasciadori rimandati, ma con presenti; per mostrare che Tiridate, venendo in persona a chiedere il medesimo, non verrebbe indarno. A Cincio fu data l’amministrazione in Soria, la gente a Corbulone; e mandatogli di Pannonia la legion quindicesima sotto Mario Celso, scritto a tutti i Signori, Re, Governatori, Procuratori e Pretori reggenti le vicine province, che ubbidisero Corbulone, con podestà simigliante a quella che il popolo romano diede a Pompeo per fare la guerra dei corsari. A Peto tornato, ne parve andar bene; che al principe bastò trafiggerlo con questa facèzia: „Io ti perdono or ora, che ogni po’ ch’indugiassi, tu basiresti per la paura„.
XXVI. Corbulone in Soria mandó le due legioni, quarta e dodicesima, che parevano poco atte a combattere, essendo i migliori perduti e gli altri spauriti; e ne trasse e condusse in Armenia e la sesta e la terza, tutte intere e in molti e prosperi travagli esercitate. Aggiunsevi la quinta, stata in Ponto fuori delle rovine; e la, quindicesima venuta ultimamente, le compagnie di quanti cavalli e fanti scelti, erano in Egitto e Illiria, e gli aiuti dei Re. La massa fece a Melitene, ove voleva passar l’Eufrate. Allora fatta l’usata rassegna di tutto l’esercito, gli parlò, magnìficando primieramente l’esser sotto Imperadore; poi le cose che aveva fatte egli, e tacque l’infelice ignoranza di Peto; con molta autorità, che a lui soldato valeva per eloquenza.
XXVII. Poi prese il cammino cha già fece L. Lucullo, aprendo i passi che l’antichitade avea chiusi: Nè dispregiò gli ambasciadori venuti da Tiridate e Vologese, a trattar della pace: e rimandolli con suoi Centurioni con risposta non aspra: „Non occorre, per ancora venire all’ultima battaglia: molte cose prospere avere i Romani avute, alcune i Parti; però non doversi insuperbire e farsi per Tiridate il ricevere in Roma il regno non guasto; e Vologese farebbe il meglio per li Parti a conservare la pace coi Romani, che danneggiarsi; sapere quante discordini egli ha in casa; e che nazioni regge superbe e bestiali; là dove il suo imperadore ha pace ferma per tutto, e sol questa guerra.„ Al consiglio aggiunse il terrore; e caccia di casa i Megestani, stati i primi Armeni a ribellarcisi; loro Fortezze spianta; piano e monti, fòrti e deboli di pari spaventa.
XXVIII. Era il nome di Corbulone ancora anzi grato a’ Barbari che odioso, però credevano al suo consiglio. Nè Vologese fu sì duro alla pace generale; e per alcuni Stati suoi chiedèo tregua; e Tiridate, giorno per abboccarsi presto, e nel luogo dove Peto fu dianzi assediato con le legioni; per memoria scelto da’ Barbari, e da Corbulone accettata per più sua gloria, venendovi in fortuna sì differente. Nè gli diede noia l’infamia di Peto; poichè fece il figliuolo di lui tribuno Capo dì squadre a seppellire i morti nella mala pugna. Il dato giorno Tiberio Alessandro, illustre cavalier romano, sorgente in questa guerra, e Viviano Annio, genero di Corbulone, minore di anni venticinque, età senatoria, ma fatto vicelegato della legion quinta, vennero nel campo di Tiridate per onorarlo, e con tal pegno assicurarlo d’inganno. Presero venti cavalieri per uno. Il Re visto Corbulone, primo smontò; poi Corbulone subitamente, e si preser per mano.
XXIX. Il Romano commenda il giovane che, lasciati ì partiti precipitosi, s’atteneva al buono e sicuro. Esso dopo gran narrativa del suo alto legnaggio, temperatamente parlò: „che anderebbe a Roma a portar a Cesare nuovo splendore; che un Arsacida se gli rinchini, senza avere i Parti avversitade„. Fu conchiuso che Tiridate ponesse la real corona a canto all’effigie di Cesare, e non la ripigliasse che dalla mano di Nerone: e baciatisi, si dipartirono. Indi a pochi giorni comparvero con superba mostra la loro cavalleria ordinata, con le loro insegne, e le nostre legioni con le folgoranti aquile, e sìmulacri, come in tempio divino, nel cui mezzo era un trono; sopravi in una sedia curule l’immagìne di Nerone. Alla quale Tiridate accostatosi, e le vittime solite uccise, di capo si levò il diadema; e poselo sotto l’immagine; cosa che commosse tutti gli animi, stando ancor negli occhi fitta la strage o l’assedio de’ Romani eserciti, e ora, voltato carta, Tiridate andrebbe a farsi al mondo spettacolo, quanto meno che di schiavo?
XXX. Aggiunse Corbulone alla gloria, piacevolezza e conviti: e, domandogli il re le cagioni delie cose ch’ei vedea nuove; come venirgli a dire il centurione che entrava in sentinella, licenziar a suon di trombe il convito; e l’altare, fatto davanti al luogo degli Augurj, abbruciarsi da fiaccola messavi sotto; ogni cosa gli magnificava; e l’empiè di maraviglia degli antichi costumi. L’altro giorno chiese tempo, dovendo fer tanto viaggio, di riveder sua madre e fratelli: e lascia la figliuola per pègno, e una lettera umile a Nerone.
XXXI. Partissi, e trovò Pacoro in Media, e Vologese negii Ectatani impensierito di questo fratello; avendo per messaggi piegato Corbulone che non gli fusse fatto alcuna ombra di servile indegnità; non posasse giù l’arme; fosse da’ governanti le province abbracciato; non tenuto alle porte; in Roma, come i consoli riverìto, come quegli, che avvezzo all’orgoglio forestiero, non sapeva che noi teniamo conto della forza e non delle vanità dell’impero.
XXXII. Nel detto anno, Cesare fece latine le nazioni in su l’Alpi marittime: e che nel cerchio ì cavalieri sedessero dinanzi alla plebe; che prima si mescolavano; non avendo la legge Roccia provveduto se non a’ quattordici gradi. Fecesi ancora lo spettacolo delli accoltellanti magnifico come i passati, se molte gentildonne e senatori non si fussero vergognati d’imbrattarsi in qùetla pugna.
XXXIII. Nel consolato di C. Lecanio e M. Licinio, a Nerone cresceva la voglia ogni dì più dal cantare a tutte le commedie; perchè sin allora aveva cantato in casa, ne’ giuochi Giovenali, che gli parevan luoghi gretti e indegni di tanta voce. Non ardì cominciare in Roma: elesse Napoli come città greca; indi passare in Àcaia, e farvisi incoronare come i sagri poeti antichi, per aver maggiore applauso dai cittadini. Incontinente il teatro di Napoli s’empiè dì genti, che delle terre e colonie vicine trassero a grido; e di quelli che seguitaron Cesare per fargli corte, e altre bisogne, e di squadre di soldati ancora.
XXXIV. Ivi avvenne caso, secondo i più doloroso, e secondo lui bene auguroso: che uscito tutto ’l popolo, il teatro voto cadde senza far male a veruno. Rendenne grazie agi’Iddii con canti musicali: e la fortuna del nuovo caso cantando, e verso il mare d’Adria avviandosi, si posò a Benevento, ove Vatinio fece la festa de’ gladiatóri bellissima. Costui fu uno dei più infàmi mostri di quella corte, allievo d’un sarto, gobbo, buffon magro, ricevuto prima per ischerno, poi, calunniando i migliori, tanto potè, che in favori, danari e possanza di nuócere, i pessimi avanzò.
XXXV. Il piacere di questa festa non diviava l’animo di Nerone dalle sceleratezze: e forzò a morir Torquato Silano, perchè, oltre alla chiarezza del sangue Giunio, riconosceva il divino Augusto per bisarcavolo. Fu commesso agli accusatori che gli apponessero, che essendo prodigo in donare, non isperava in altro che in novità: tener nobili per segretarj, computisti, cancellieri, nomi e pensieri da principe. Essendo i suoi liberti principali presi e legati, la sentenza distesa; Torquato si segò le vene delle braccia, e Nerone disse la sua solita canzona, che, se egli aspettava la sua clemenza, benchè nocente, e disperato della difesa, gli perdonava la vita.
XXXVI. Non guari di poi, differito il viaggio d’Acaia (non si sa la cagione), tornò in Roma, facendo delle province d’Oriente, e massimamente d’Egitto, segreti disegni. E per bando notificò, che l’assenza sua non sarebbe lunga, e ne seguirebbe ogni cosa ferma e prospera alla repubblica; e andò in Campidoglio a raccomandare agl’Iddii questa gita. Entrato ancora nel tempio di Vesta, gli venne un tremito per tutte le membra, forse perchè l’atterrì, quella Iddia, o la ricordanza de’ gran peccati che sempre lo tenea spaventato. Onde lasciò l’impresa, dicendo: „Per l’amor della patria, che superava ogn’altro pensiero, vedendo i mesti volti de’ suoi cittadini, udendo le doglianze segrete del tanto viaggio imprender colui cui non avrien voluto perder d’occhio; solendo l’aspètto suo confortarli nelle avversità; come adunque i più cari pegni strìngono i privati, così il popolo romano sforzava lui a consolarli di non partire.„ Questo voleva la plebe, che amava i piaceri e temeva del caro (che è il suo maggior pensiero) stando egli assente. Il senato e i Grandi dubitavano se ei sarebbe, lontano o presente, più atroce; poi credettero, come si fa ne’ gràn timori, che lo avvenuto iusse il peggiore.
XXXVII. Egli, per far credere di non veder cosa più gioconda che la città, mangiava in pubblico, e servivasi di tutta, come di sua casa. Famoso fu il convito ch’ei fece, ordinato da Tigellino, il quale io conterò per un’esempio di suo scialacquare, che serva per tutti gli altri. Nel lago d’Agrippa fabbricò un tavolato mobile, ove pose il convito tirato da galee tutte commesse d’oro e d’avorio; remavano sbarbati giovani, collocati secondo l’età e maestria di libidini; eranvi uccellami e selvaggiumi di vari capi del Mondo, e pesci insin dell’Oceano; camere rizzate in su la riva del lago, piene di gentildonne; e a fronte puttane ignude, con gesti e dimenari sporcissimi. Venuta la notte, i boschi e le case d’intorno risonavano e risplendevano di canti e di lumi. Per non lasciar alcuna nefandigia lecita e non lecita, indi a pochi giorni tolse per marito uno stallone di quella mandria, detto Pittagora: fu celebrato lo sponsalizio con tutte le sagre cirimonie: messo in capo al nostro Imperadore il velo giallo, fatti gli augurj, la dote, il letto geniale, accesi i torchi; e finalmente veduto fare quanto, coprono anco le femmine con la notte.
XXXVIII. Seguita la più grave e atroce rovina che mai avvenisse in Roma per violenza di fuoco, non si sa se per caso o per frode del principe, che dell’uno e dell’altro ei sono autori. Il fuoco s’appiccò nel Cerchio contiguo al monte Palatino e al Celio, ove nelle botteghe piene di merci che gli sono esca, levatasi cubito gran fiamma, con vento, senza intoppo di muri o tempj o altro, corse per tutto il Cerchio; allargossi nel piano; salì a’ colli, scese, e comprese ogni cosa, senza dar tempo a’ripari la furia sua; e fece quella Roma vecchia con sue viuzze strette e torte, e chiassuoli, subito un falò. Lo spegnere era impedito dalle donne, da’ vecchi e fanciulli, spauriti e gridanti, e da quelli che brigavano di salvar sè e altri; strascinando i deboli, aspettandoli, correndo che spesso nel guatarsi a dietro, eran dinanzi, o dal lato soprappresi, o fuggiti più oltre, vi trovavano più accesa vampa. Nè sapendo più che si fuggire o cercare, cavalcavan le vie, giacevansi per le campora; alcuni perduto ogni cosa, insin da mangiare per un giorno; altri per non aver potuto i più lor cari trar del fuoco, vi rìmasero volontari; e niuno ardiva aiutare spegnere, minacciando molti che si lasciasse stare, altri vi lanciavano le fiaccole a posta (gridando, così aver ordine) per meglio rubata o per avuto comandamento.
XXXIX. Nerone si stava in Anzio: e non tornò a Roma se non quando il fuoco s’appressava alla sua casa, da lui unita al palazzo e al giardino di Mecenate; ma non fu possibil tenere che non inghiottisse il palazzo e la casa, e quanto v’era d’intorno. Ma per conforto allo spaventato popolo e fuggente, fece aprire Campo Marzio, il Cimiterio di Agrìppa, i giardini suoi; e subiti spedali murare; raccettarvi i poveri, venir masserìzie da Ostia e dalle vicine terre; rinviliò il grano sino a un carlino; le quali cortesie guastò con l’aver, come si disse, cantato in su la scena di casa sua l’incendio di Troia, e agguagliato questo male all’antico.
XL. Il sesto giorno finalmente il fuoco fermò appiè dell’Esquilie, non trovando per le ampissime aperture fatte, se non suolo e aria. Rappiccossi, non essendo passata ancor la paura, con minor danno e morti; per esservi le strade più larghe: rovinò tempj divini e logge fatte per bellezza; e più odioso di questo fuoco secondo, perchè uscì dagli orti Emiliani allora di Tigellino; e perchè Nerone pareva volersi far gloria di rifar la città tutta nuova, e chiamarla dal suo nome. Conciossiachè de’ quattordici rioni, ne’ quali è Roma divisa, ne rimanessero quattro intieri, tre spianati, sette in casolari pochi, e arsicci.
XLI. Non è agevole raccorre il numero delle case, isolati e tempj rovinati. Arsero i più revierendi per antichità, consacrati da Servio Tullio alla Luna, da Evandro d’Arcadia a Ercole Presente, col grande Altare; e da Romulo a Giove Statore: il palagio di Numa; il tempio di Vesta con gl’Iddii Penati del popol romano; le spoglie di tante vittorie; i miracoli de’ greci artefici; le opere antiche, e conservate dei grandi intelletti, e molte altre cose, di che i vecchi si ricordavano; impossibili a rifare, benchè in tanta bellezza della città risurgente. Fu osservato che l’arsione cominciò il dì diciannove di luglio, che i Senoni arsero Roma: dall’un fuoco all’altro i medesimi anni, mesi e dì.
XLII. Ma Nerone si servì delle rovine della patria a farvi la casa cotale stupenda, che le gemme e l’oro di miracolo eran niente, rispetto alle campora, selve, laghi, cremi, aperture, vedute, fattevi da Severo e Celere, architettori d’ingegno e ardire da tentar con l’arte cose sopra natura, e beffare le forze del principe, perchè gli promisero di cavare un fosse navigabile dal Lago d’Averno a Ostia, per rive aride e monti, non trovandovisi altre acque che il Lago d’Ufente da voltarvi: il resto con terra asciutta, o massi da non potersi rompere, o non portare il pregio della fatica intollerabile. Nondimeno -Nerone, voglioso delle cose incredibili, si provò a tagliare il monte vicino all’Averno; e sonvi di tal follia i vestigi.
XLIII. Le case di Roma, che la sua non occupò, furon rifatte; e non a vanvera, come dopo l’ incendio de’ Galli, ma non sì alte: strade larghe, traverse a misura: maggiori piazze, e dinanzi a ogni ceppo isolato, difese dalla sua loggia in fronte, la quale Nerone offerse di fare a sue spese, e rendere il suolo bello e netto; e pagare un tanto, secondo sua facultade e grado, a chi fra tanto tempo avesse rifatto sua casa o ceppo. Per li vascelli che da Ostia portavano il grano a Roma per lo Tevere, fece portare in già i calcinacci e pattume, e gittar nelle paludi d’Ostia: e le case in certa parte senza travi incalenare di pietre gabine e albane, che non piglian fuoco; nè a mura comuni, ma di proprie isolata ciascuna. All’acqua, già da molti privati usurpata, pose guardie the la lasciassero correre in pubblico in più luoghi grossa, per lo fuoco spegnere, e a tutti manesca. Questi provvedimenti utili abbellirono ancora la nuova città. Nondimeno tenevano alcuni la forma vecchia più sana, perchè quelle vie strette e case alte, facevano qualche rezzo alle vampe del Sole, che in queste larghe e aperte diritture sferza e riverbera più rovente.
XLIV. Dopo li umani aiuti si ricorse a’ divini; e, veduti i libri delle Sibille, fu supplicato a Vulcano, Cerere e Proserpina; e da matrone, prima in Campidoglio, poi alla più essa marina, fatta Giunone favorevole, e di quell’acqua asperso il tempio e l’immagine della Iddia; poi da maritate fattovi i letti e le vigilie. Ma, nè opera umana, nè prece divina, nè larghezza del principe gli scemavano l’infame grido dell’avere esso arsa Roma. Per divertirlo adunque, ne processò, e stranissimamente punì quelli odiati malfattori che il volgo chiamava Cristiani, da Cristo, che, regnante Tiberio, fu crocifisso da Ponzio Pilato procuratore; la qual semenza pestifera fu per allora soppressa; ma rinversiva non pure in Giudea, ove nacque il malore, ma in Roma, ove tutte le cose atroci e brutte concorrono e solennizzansi. Furono adunque presi prima i Cristiani scoperti, poi gran turba dinominati da quelli, non come colpevoli nell’incendio, ma come nimici al genere umano. Uccidevanli con ischemi, vestiti di pelle d’animali, perchè i cani gli sbranassero vivi; o crocifissi o arsi, o accesi per torchi a far lume la notte. Nerone a questo spettacolo prestò i suoi orti, e celebrovvi la festa Circense, vestito da cocchiere in sul cocchio, o spettatore tra la plebe. Onde di que’ cattivi, benchè meritevoli d’ogni novissimo supplizio, veniva pietà, non morendo per ben pubblico, ma per bestialità di colui.
XLV. In questo mezzo gli accatti e balzelli sperperavan l’Italia. Vassalli, collegati, città libere in nome, gl’Iddii stessi, non furon esenti da tal rapina: spogliati i templi di Roma; e sconfitto quantunque oro il popol romano per trionfi, preci, allegrezze e timori, già mai consagrò. Per l’Asia e per l’Acaia rapivano, non che i doni, le immagini degl’Iddii, due nostri commessari, Aerato liberto, cima de’ ribaldi, e Carinate Secondo, che aveva qualche lettera greca in bocca, ma nulla bontà nell’animo. Dicevasi che Seneca, per levarsi il carico di questi sacrilegi, supplicò di ritirarsi in villa lontana, e non l’ottenendo, si fermò in camera quasi per la gotta. Alcuni scrivono che Nerone gli fece apparecchiare, il veleno da Cleonico suo liberto; dal quale avvertito: o insospettitone, lo schifò, vivendo di cibi semplici, frutte de’suoi orti, acqua corrente.
XLVI. In questo tempo i gladiatori tenuti in Praneste vollero scappare; i soldati, loro guardie, li ritennero; e già il popolo pauroso, e spasimante di novità, cominciava a ricordare Spartaco e i vecchi mali. Poco appresso s'intese una perdita di nostra armata non per guerra, che non fu mai tanta pace, ma perchè Nerone avea comandato che ella fusse tornata in campagna il tal dì, non eccettuando tempesta. Sciolsero i nocchieri da Nola, quando il mare fremeva; e mentre fanno forza di spuntare il Capo di Miseno, un forzato Libeccio, gli battè nella spiaggia di Cuma, con perdita di molte galee e gran numero di legni minori.
XLVII. Nel fine di quest'anno vennero prodigi, annunzj de' soprastanti mali; saette non mai tante; la cometa, cui sempre Nerone placava col sangue di qualche grande; bambini e fiere con due capi, trovati nelle strade o nelle bestie che si sagrificavan prègne; e nel Piacentino un vitello, nato lungo la via, col capo in una gamba. Dissero gl'indovini che il Mondo avrebbe un altro capo non durevole e non occulto, perchè si travolse nel ventre e nacque nella via.
XLVIII. Entrati Consoli Silio Nerva e Attico Testino, nacque, e a un tratto crebbe, una congiura di senatori, cavalieri, soldati e donne, concorsevi a gara per odio contro a Nerone e amore a C. Pisone, di casa Calpurnia; imparentato con la maggior nobiltà di Roma, in gran fama del popolo di virtudi, o lor somiglianze: facondo avvocato de' cittadini; donatore agli amici; piacevole e compagnevole ancora co’non conósciuti; di statura alta, bella faccia; ma di costumi non grave; sottoposto a’ piaceri; dolce, magnifico, e talora sguazzatore; il che piaceva a molti, che in secolo sì scorretto non amano imperadore scarso e austero.
XLIX. La congiura non nacque da sua cupidigia, nè saprei dire l'inventore d'impresa tale, seguita da tanti. Prontissimi furono Sobrio Flavio, Tribuno di una coorte di guardia, e Sulpizio Aspro Centurione, come mostrò la loro folle fine. Co' denti la presero Anneo Lucano, perchè Nerone sfatò, e proibì i suoi versi per vana competenza; e Plauzio Laterano, eletto Consolo, non offeso, ma per carità della patria. Fra i primi furono Flavio Scavino e Afranio Quinziano senatori, non tenuti da tanto, Scavino perduto in lussuria e sonno. Quinziano del corpo non peggio che donna, e da Nerone con versi infami vituperato, se ne volea vendicare.
L. Sbuffando adunque tra loro e altri amici, di sì scelerato principe, del cadente imperio, e di trovar chi sostenerlo, tiravan nella congiura Tullio Senocione, Cervario Procolo, Volcazio Ararico, Giulio Tugurino, Munazio Grato, Antonio Natale, Marzio Festo, romani cavalieri; tra i quali Senecione, dimestichissimo di Nerone, andandogli intorno, correva più pericoli. Natale era confidente di Pisone: gli altri speravano nella mutazione. Chiamarono persone di guerra, oltre alli detti, Sobrio e Sulpizio, Granio Silvano, e Stazio Prossimo, Tribuni di due coorti di guardia: Massimo Scauro e Paulo Veneto Centurione; e Fenio Rufo prefetto (che fu l'importanza) di buona vita e fama, scavalcato di guazia al principe, per crudeltà e sporcizie da Tigellino, e caricato di più cose, oltre al farlo credere adultero d'Agrippina, e per lo desiderio di lei inteso alla vendetta. Quando i congiurati seppero, anche con sue parole, che il Prefetto era de’ loro, fatti di miglior gambe, ragionaron del quando e dove far l’uccisione; e dissesi che venne pensiero a Subrio d’assalirlo quando cantava in su la scena o quando ardendo la sua casa, la notte, scorrazzava qua e là senza guardia. Qui l’averlo solo, quivi lo stesso cospetto di tanti testimoni, infocarono quel bello animo; se non l’avesse raffreddato la voglia del salvarsi, a’ nobilì ardimenti sempre contraria.
LI. E tentennando e allungando tra la paura e la speranza costoro, una certa Epicari spillò la cosa (non si sa come, non essendo prima stata donna di concetti d’onore); e li riscaldava e riprendeva di tanta lentezza; e non potendola più sopportare, stando in campagna, cominciò a contaminare e intignervi i Capi dell’armata Misena. Uno era Volusio Procolo trovatosi a uccider la madre di Nerone, e per tanta sceleratezza non fatto grande quanto pensava; di che discredutosi con costei, che sua amica era, vecchia o nuova, e dolutosi d’aver tanto servito Nerone, e senza pro, minacciò di vendicarsene a luogo e tempo; onde ella prese speranza di tirar lui e molti altri nella congiura, a cui l’armata dava di grandi aiuti e occasioni, perchè Nerone si solazzava spesso nel mare di Pozzuolo e di Miseno. Così gli cominciò a contare tutte le ribalderie del principe, e che il senato non se ne stava; ma aveva, al vendicar la repubblica rovinata, trovato il modo; mettessecisi anch’egli; facesseci opera; tirasseci i soldati suoi più feroci; che buon per lui; e i nomi de’ congiurati si tacque. Procolo rapportò il tutto a Nerone, ad Epicari messagli a petto, non producendo testimoni, fu riprovato; ma ella messa in carcere; dubitando Nerone che ’l non provato non fosse vero.
LII. Onde a’ congiurati parve, per non essere scoperti, da sollecitar d’ammazzarlo in villa di Piscina a Baia^ ove spesso Nerone per vaghezza di quella amenità veniva, entrava ne’ bagni e mangiava, lasciato il suo gran traino di guardia o corte. Ma Pisone non volle carico d’imbrattar le mense sagre, e gl’Iddìi Ospiti, col sangue del principe, quantunque reo. Meglio in Roma, in quella odiosa, e delle spoglie de’ cittadini edificata reggia, ovvero in pubblico, l’impresa per la repubblica compierieno. Così dicea loro; ma in sè temea, non L. Silano di somma nobiltà, da C. Cassio allevato e sollevato ad ogni splendore, s’insignorisse dell’imperio con gli aiuti che avrebbe pronti de’ non intìnti, e aventi compassimi di Nerone, quasi sceleratamente ammazzato. Fu creduto che Pisone dubitasse anco di Vestino Consolo, feroce, e da voler rimetter la libertà o dar l’imperio a chi lo riconoscesse da lui. Della congiura non sapeva niente, benchè Nerone se ne servisse a sfogare il suo antico odio.
LIII. Fermarono finalmente di far l’effetto nel Cerchio il giorno della festa di Cerere; perchè Cesare usciva poco fuori di casa e dei giardini; e quando nel Cerchio andava a rallegrarsi di quegli spettacoli, era più agevole accostarglisi. L’ordine dato, fu, che Laterano, quasi chiedendogli aiuto per vivere, gli si gittasse alle ginocchia; e fattol cadere, come grande di corpo e d’animo, il pigiasse; corresacci Tribuni e Centurioni, ciascuno secondo suo coraggio, e lui in terra e intrigato, ammazzassero. Servino chieder d’essere il primo con un pugnale tratto del tempio della Salute in Toscana, altri dicono, della Fortuna in Perento: e ’l portava, quasi consagrato a grande opera; Pisone intanto gli attendesse nel tempio di Cerere; onde Fenio e gli altri il traessero e portassero in campo, accompagnato da Antonia figliuola di Claudio Cesare, per guadagnarsi il popolo. Così dice C. Plinio, che non l’ho voluto tacere; ma a me non consuona, nè che Antonia prestasse il suo nome a cosa tanto in aria e pericolosa, nè che Pisone innamorato della moglie, si promettesse a una altra, se già l’amore del dominare non tira più che altro affetto.
LIV. Fu in tanta diversità di sangui, gradi, stati, sensi, età, ricchi, poveri, maravigliosa la segretezza insino a che ne venne indizio di casa Scevino, il quale il dì innanzi al destinato, fu con Antonio Natale molto alle strette: tornato a casa fece testamento: sfoderò il detto pugnale, mangiato dalla ruggine, e diello a Milico liberto che lo arrotasse e brunisse. Più riccamente del solito apparecchiò: a’ più cari schiavi donò libertà, e ad altri danari. Esso si vedeva accigliato e fisso in gran pensiero; benchè mostrasse con vario ragionare letizia sforzata. In ultimo, fece apprestar fasce da stagnare il sangue dal detto Milico, forse consapevole della congiura, e siilo allora fidato o, come alcuni scrivono, da quelli andamenti ne sospicò, e pensando quel servile animo, che premj, che danari e potenza gli darebbe la tradigione, lasciò da parte il debito suo, la salute del padrone, la memoria della libertà ricevuta; presone anche parere dalla moglie, donnesco e peggiore: la quale lo spaventava che molti schiavi e liberti avevan quelle cose vedute: che gioverebbe tacerle egli solo? i premj avrebbe quel solo che fosse primo a rivelarle.
LV. All’alba Milico ne va al giardino dei Servilj; e non cadendogli aperto, disse che gran cosa portava, e atroce; i portinari lo menaro a Epafrodito liberto, di Nerone; egli a lui. Contagli, esserci urgente pericolo, gran congiure, e ciocchè aveva udito e conghietturato. Mostragli quel pugnale, che doveva ammazzarlo, e domandò che Scevino fosse condotto quivi. Rapitovi da soldati, si difese con dire: Che aveva tenuto per antica reliquia di sua casa quel pugnale in sua camera, onde l’empio liberto il furò: fatto più testamenti, senza badare più a uno che a un altro dì; donato libertà e moneta a’ suoi schiavi altre volte; ma più largo allora, perchè lasciando loro per testamento, e più debito che avere, i creditori erano anteriori; tenuta vita sempre splendida e allega, e poco approvata da’ severi censori; non chiesto fasce per ferite: averci questa vanitade aggiunta per l’altre malignitadi corroborare, e spia fattasene e testimonio. Alle parole accompagnò feroce animo, volto, e voce; chiamandolo scelerato e infame, con tanta efficacia che l’indizio svaniva. Ma la moglie di Milico avverti, che Antonio Natale e Scevino, ambi anima e corpo di G. Pisone, avevan fatto un gran ragionare in segreto.
LVI. Fu mandato per Natale: domandanti in disparte di che ragionassero, non si riscontrando, mison sospetto, e furon legati. Alla vista del tormento e alle minacce, cederono. E prima Natale più sciente della congiura e più atto a convincere, nominò Pisone, poi Seneca: o per aver portato ragionamenti tra lui e Pisone, o per grazia di Nerone acquistare, che recatolsi a noja, cercava con ogn’arte opprimerlo. Scevino, inteso che Natale avea confessato, per pari fiacchezza, o per credere scoperto il tutto, e non giovar il tacere, nominò gli altri. Lucano, Quinziano e Senecione’ stettero alla dura: poi guastatisi, per promesso perdono; per loro scusa di aver penato, nominarono Lucano, Atilla sua madre, Quinziano, Glicio Gallo, Senecione, Annio Pollione i loro più cari amici.
LVII. Nerone si ricordò di Epicari, ritenuta per indizio di Procolo; e non credendo che una donna reggesse al dolore, ne comandò ogni strazio. Nè verga nè fuoco, nè ira dei martorianti, del non sapere sgarare una femmina, la fecero confessare: e vinse il primo dì. Portata il seguente a’ tormenti medesimi in seggiola, non potendo reggersi sopra le membra lacerate, si trasse di sedo una fascia, l’annodò alla seggiola, incalacppiò alla gola, stringendosela col peso del corpo, e trassene quel poco di fiato che v’era. Esempio memorevole, che una femmina libertina volesse salvare con tanta agonia gli strani, e quasi non mai conosciuti, quando gl’ingenui uomini, cavalieri senatori, senza tormenti, scoprivano i più cari, non lasciando Lucano, Senecione e Quinziano, di nominare anche gli altri a dilungo, onde a Nerone cresceva sempre più la paura: raddoppiò la sua guardia.
LVIII. Le sentinelle tenevano la città e le mura, ronzavano per le piazze e case e ville, e terre; al mare, al fiume, schiere di fanti e cavalli, mescolatovi Tedeschi, de’ quali si fidava per essere forestieri. Tiravano al detto giardino le funate de’ congiurati, che aspettavano fuori, e per terra, quando erano chiamati al tormento. L’aver fatto festa ad alcuno della congiura, favellato, incontrato, convitato, essere entrati insieme alle festa, eran peccati mortali. Oltre alle domande crudeli di Nerone e Tigellino a’ congiurati, Fenio Rufo, non ancora nominato, le faceva, per non parer quel desso, atrocissime a’ suoi compagni; e Subrio Flavio, che gli era innanzi, gli accennò d’ammazzarlo: ma Fenio lui già verso Nerone infuriato, e con la mano in sul pome, rattenne.
LIX. Scoperta la congiura, v’ebbe chi consigliò Pisone, che mentre era ascoltata Milico e titubava Scevino, andasse in campo, o salisse in ringhiera a tentar il favor de’ soldati e del popolo. Se i compagni della impresa sua s’adunassero, anco gli altri andrebbero dietro a loro, e al romor grande del movimento, che nelle novità molto vale. A questo non aver pensato Nerone. Le cose repentine sbigottire i valenti, non che quel chitarrista con Tigellìno e sue femmine, movesse armi contro. Molte cose, mettendovisi, riuscire, che paiono ai due a chi si sta. Silenzio e fede in tanti cervelli consapevoli non potersi sperare; tormento e premio ogni cosa forzare. Comparirebbe gente a incatenare anche lui, e ucciderlo indegnamente, quanto morrebbe egli più lodato in abbracciando la repubblica, chiamando aiuti alla libertà: e mancandogli i soldati, abbandonandolo la plebe, più a’ passati, più alli avvenire, giustificato. Non se ne mosse: e poco in pubblico dimorato, si chiuse in casa, e acconciossi a morire. Eccoti venir da Nerone una mano di giovani e novelli soldati, perchè de’ vecchi come a Pisone inchinati, temeva. Segossi le vene delle braccia; lasciò un testamento pieno di brutte adulazioni a Nerone; per amor del la moglie Aria Galla, bella e non altro, tolta a Silio Domizio amico suo; la cui pazienza e la disonestà di lei, fruttaro a Pisone infamia.
LX. Il secondo a morire fu Plauzio Laterano eletto Consolo, sì a furia, che non ebbe agio d’abbracciare i figliuoli nè d’elegger il modo. Arraffatto, e dove si giustiziano gli schiavi, ammazzato da Stazio Tribuno, uno de’ congiurati; non lo scoperse, non fiatò. Dopo seguì la morte di Seneca, con allegrezza del principe, per finirlo col ferro perchè gli era fallito il veleno: e non perchè fusse convinto della congiura, perchè Natale solo disse appunto lo mandò a visitar Seneca ammalato, e a dolersi perchè non volle vi venisse egli; sarebbe meglio che ragionando insieme «i valessero dell’amicizia, E che Seneca rispose; gli spessi ragionamenti fra loro non far nè per l’uno nè per l’altro, ma la salute sua consistere in quella di Pisone. Nerone mandò Granio Silvano Tribuno d’una coorte di guardia a interrogar Seneca se Natale gli portò, e se ei rispose quelle parole. Egli era quel giorno, per sorte o a studio, tornato di campagna in villa sua fuor di Roma quattro miglia. In su la sera il Tribuno la circondò di soldati, e trovatolo a cena con Pompea Paulina sua moglie, e due amici, disse quanto il principe comandava.
LXI. Rispose: „Che Pisone gli mandò Natale a dolersi del non averlo lasciato visitare, ed egli si scusò che era infermo, e si volea riposarcene avere avuto cagione di stimar più la salute d’un privato che la propria. Non sapere adulare, nè ninno saperlo meglio di Nerone, che l’avea trovato più volte libero che servile„. Il Tribuno riferì, presenti Tigellino e Poppea: questi erano la consulta della crudeltà del principe; il quale domandò: se Seneca avea deliberato d’uccidersi. Nè paura, nè maninconia, rispose aver conosciuto in sue parole o volto. „Orsù„ disse „torna, e digli che muoia.„ Fabio Rustico narra, che egli non tornò per la medesima, ma voltò a Fenio Rufo Prefetto, per sapere se a tal comandamento da ubbidire era; rispose, che sì; tanto fu ìn tutti fatale la viltà. Benchè Silvano era de’ congiurati, e fomentava quelle sceleratezze, alla cui vendetta avea già consentito, pure di dare il comandamento a Seneca non ebbe faccia nè voce, e fece entrare un Centurione.
LXII. Seneca riposatamente chiedeo il suo testamento; negandoglielo il Centurione, si voltò alli amici e disse: „Poichè gli era tolto il riconoscerli de’ lor meriti, lasciava loro un bel gioiello, solo rimasogli l’esempio della sua vita, della cui bontà ricordandosi, avrebber lode di sì ferma amicizia.„ Cadendo loro le lagrime, li confortava o riprendeva. „Ove esser la filosofia? i rimedi per tanti anni studiati contro ai soprastanti casi? Chi non sapeva la crudeltà di Nerone? nè dopo la madre e’l fratello, rimanergli chi a uccidere, che l’aio e ’l maestro?„
LXIII, Dette tali cose quasi a tutti, abbraccia la moglie, e alquanto intenerito l’ammonisce e prega che temperi il dolore; col tempo vi ponga piè; tolleri il desiderio del marito con l’onorato piacere del contemplare la vita di lui virtuosa. Ella afferma voler morir seco, e chiede il feditore. Allora Seneca, per non le torre la sua gloria, nè lasciare sì amata donna preda alle ingiurie, disse: „Io ti aveva mostrato addolcimenti alla vita; tu vuoi lo splendor della morte, nè io lo ti torrò. Le nostte morti fiano coraggiose del pari; la tua più chiara„. Così detto, si fanno segar le vene delle braccia nel medesimo tempo; Seneca di più quelle delle gambe, e sotto le ginocchia, perchè il sangue stentava a uscire di quel corpo, per vecchiezza e poco cibo, risecco. Vinto da que’ dolori terribili; e per non farne sbigottire la moglie, nè esso, vedendo que’ di lei, inquietarsi, la persuase a irsene in altra camera: e chiamando a ogni poco, scrittore, dettò di vena eloquente concetti, che per esserne divolgate le copie, non dirò loro sustanza.
LXIV. Nerone, perchè a Paulina propria non voleva male, e per non s’accrescer odio, manda soldati a non lasciarla morire; a’ cui conforti, schiavi e liberti fasciano le braccia, fermano il sangue; nè si sa se ella se n’accorse. Imperocchè, come il popolo va sempre al peggiore, non mancò chi credesse, lei mentre disperò perdono, essersi voluta far onore di andarne col suo marito; venutale poi migliore speranza, averla vinta la dolcezza della vita, che durò pochi anni, con lodata memoria del suo marito, e col viso smorto, e le carni sbiancate, per lo molto spirito vitale uscitole. Seneca stentando a morire, prega Anneo Stazio, suo fedele amico e medico, che gli porga certa cicuta molto prima ripostasi, col qual veleno in Atene morivano i condannati; piglialo, e non fa, per esser già le membra fredde e chiusi i pori. Entrò finalmente in bagno d’acqua calda e aspersane agli schiavi d’intorno, disse: Questo liquore consagro a giove liberatore.„ Portato poi in una stufa, in quel vapore spirò; e fu arso senza alcune esequie; così aveva disposto quando era ricchissimo e potentissimo.
LXV. Si disse che Subrio Flavio co’ suoi Centurioni fecer consiglio segreto, sciente Seneca, che morto Nerone, con l’aiuto di Pisone, s’ammazzasse anche lui, e si desse l’imperio a Seneca come innocente, ed eletto per chiarissime virtù al sommo grado. E andava attorno di Sobrio questo motto: „Levarne un chitarrista e porvi un tragediante, non iscemar vergogna;„ perchè Nerone in su la lira e Pisone da tragico vestito, cantavano.
LXVI. Non potettero più frodare la congiura ancora ì soldati; stomacando quelli che avevano confessato, il vedersi da Fenio Rufo lor compagno esaminare. Minacciando egli e stringendo forte Scevino a dir su, Scevino ghignò dicendo: Niuno sapere più di lui; e lo conforta a rendere il cambio a sì buon principe. Fenio non parlò, e non tacque; così gli si rappallottolaron le parole in bocca per lo spavento; onde altri e Cervario Proculo, con l’arco dell’osso si misero a convincerlo. Lo Imperadore il fece, da Cassio soldato, che gli stava appresso, per la sua robustezza, pigliare e legare.
LXVII. E quei si voltarono a Subrio Flavio Tribuno, il quale allegava prima la disformità che un soldato pro’ d’arme non si sarebbe messo con peggio che doane a cotanta impresa. Dipoi, essendo tocco bene, si risolvè a generosa confessione: e da Nerone interrogato per quali cagioni s’era dimenticata la fede giuratali: „Odiaiti,„ disse: „nè avesti più fedel soldato di me mentre meritasti amore. Cominciai a non poterti patire quando uccidesti tua madre e moglie, fusti cocchiere, strione e ardesti Roma.„ Ho messo le proprie parole, perchè non son divolgate come quelle di Seneca; nè men bello è sapere i detti di un soldato rozzi, ma fieri. Niuna cosa di quella congiura tanto alterò Nerone, il quale quanto al fare le sceleratezze era pronto, all’udirsele rinfecciare non usato. Commise il supplizio di Flavio a Veiano Nigro Tribuno. Costui fece far la fossa nel campo vicino. Flavio biasimandola, come piccola e stretta, disse a’ circonstanti: „Nè anche questo ha saputo fare:„ essendogli detto che porgesse il collo; animosamente, rispose: „Così ’l tagliastù!„ Tagliollo tremando a pena in due colpi: e per darsi vanto di averlo fatto patire, riferì avergli tagliato la testa con un colpo e mezzo.
LXVIII. Seguitò altro esempio coraggioso di Sulpizio Aspro Centurione. Interrogato da Nerone perchè volesse con gli altri ucciderla, ripose breve: „Per non potersi a tante tue orribilità riparar altramente.„ Allora con forte animo patì sua pena: e gli altri Centurioni non tralignarono. Fenio Rufo fece il contrario, che insino al testamento impiastrò di lamenti. Nerone aspettava che Vestino Consolo fusse nominato, tenendolo per nimico e violento; ma i congiurati nol vollero, alcuni per vecchie pinistà, gli altri tenendolo precipitoso, e da non convenire; ma l’odio di Nerone nacque dalla troppa intrinsichezza che lo fece conoscere e sprezzar la viltà del principe; ed ei temeva della ferocità dell’amico, che spesso il motteggiava con facezie amare; che quando toccan nel vivo si conficcano nella memoria. Ci s’aggiunse nuova cagione; che Vestino, benchè sapesse che Cesare era uno degli adulteri di Slatilia Messalina, la sposò.
LXIX. Non potendosi adunque, ove non era peccato nè accusa, dar figura di giudizio, giocò d’ autorità, e comandò a Gerelano Tribuno, che con una coorte di soldati andasse e prevenisse il Consolo, pigliando il suo palagio, ch’era a cavaliere alla plazza, quasi una rócca: opprimesse quella gioventù scelta, che e’ teneva per suo servigio, bella e d’una stessa età. Avendo egli quel giorno fomite le faccende del consolato, faceva un convito, senza alcun timore, e lo voleva coprire; la soldateria entrò; fu detto che il Tribuno l’attendeva; e rittosi, e chiuso in camera, venuto il cerusico, segatogli le vene, e messo in bagno caldo, tutto fu uno, semza parlare o mostrar dolore: i convitati fur presi e sostenuti sino a mezza notte, quando Nerone immaginatosi la battisoffìola di que’poveretti aspettanti la morte, ridendo disse, avere essi delle vivande consolari ben pagato lo scotto.
LXX. Appresso comandò la morte di M. Anneo Lucano, che vedendosi versare il sangue, freddandoglisi i piedi e le mani, partendosi a poco a poco lo spirito dall’estremitadi, avendo ancora il petto caldo e la mente sana, recitò, certi suoi versi sopra un soldato ferito, e come lui, moriente: e con questa ultima voce spirò. Senecione poscia, Quinziano e Scevino, vissuti effeminati, morirono virilmente, gli altri senza detto, nè fatto memorevole.
LXXI. Roma era piena di mortori, Campidoglio di vittime. Cui morto era figliuolo, fratello, parente o amico, ne ringraziavano gli Iddii, ornavano le case d’allori, abbracciavano a Nerone le ginocchia, straccavanlo co’ baciamani. Ei credendo farsi per gaudio, perdonò ad Antonio Natale e a Cervario Procolo, per guiderdone de’ tosto rivelati indizj. Milico fu fatto ricco, e si pose quel nome greco che significa conservadore. De’ Tribuni, Granio Silvano, benchè assoluto, s’ammazzò di sua mano; e Stazio Prossimo si tolse il perdono di Cesare con fine stolta. Pompeo, Cornelio Marziale, Flavio Nipote, Stazio Domizio Tribuni, per aver avuto nome, non fatti, di odiar il principe, furon cassi. Mandati in esiglio Nonio Prisco, come amico di Seneca e Glizio Gallo e ne, più bociati che convinti. Antonia lie di Prisco e Egnazia Massimilla di on con essi con gran ricchezze salvate te; e l’ima cosa e l’altra accrebbe lor no scacciati Rufo Crispino, sotto ombra a ma per odio di Nerone, per essere già di Poppea; e Virginio Rufo per lo lome, perchè egli insegnando eloquenza, e Musonio filosofia, si tiravan dietro la gioventù. Date per confino l’isole dell’Arcipelago come in branco a Cluvidieno Quieto, Giulio Agrippa, Blizio Catulino, Pretonio Prisco, Giulio Aitino. Cacciati dell’Italia Cadicia moglie di Scevino e Cesenio Massimo, che d’essere stati rei s’accorsero solo alla pena. Atilla madre di Lucano non fu prosciolta, ma passata.
LXXII. Fatte queste cose, Nerone parlò ai soldati, e donò cinquanta fiorini per uno, e il grano, solito già da loro pagarsi al pregio corrente. Indi chiama il senato a contargli queste quasi gloriose fazioni di guerra; e dona le insegne de’ trionfanti a Petronio Turpiliano, stato Consolo, a Cocceio Nerva eletto Pretore, a Tigellino Prefetto de’ pretoriani. Tigellino e Nerva cotanto innalzò, che, oltre alle immagini trionfali nel Fóro, rizzò loro le statue dinanzi al palagio. Le insegne di Consolo diede a Ninfidio. Di costui, non venutomi prima alle mani, darò breve notizia come parte anch’egli delle miserie di Roma. Sua madre fu libertina, bella e cosa di liberti e schiavi dei principi; facevasi figliuolo di G. Cesare, abbattendosi ad esser grande e d’aspetto terribile; o forse perchè G. Cesare, che randagio era, con sua madre si trastullò.
LXXIII. Nerone fatta a’ Padri sua diceria, bandì al popolo i condannati, e fece registrare a’ libri pubblici i lor processi per l’appunto; per chetar le lingue che lo laceravano d’avere spento tanti uomini dabbene per odio o paura. Ma del principio, progresso e fine di questa congiura, non fu dubitato allora da chi volle saperne il vero, e confessato da quei che in Roma tornarono, morto Nerone. I senatori, cui più toccava piagnere, più adulavano. Giulio Gallione, fratel di Seneca, raccomandava la salute sua pieno di spavento. Salieno Clemente chiamava nimico parricida; e tutti i Padri gli dettero in su la voce: Non misurasse l’occasione de’ mali pubblici contro agli odj privati; nè stuzzicando rinciprignisse la piaga dello sdegno del principe già risaldata.
LXXIV. Ordinaronsi offerte e grazie alli Iddii, e speziale onore al Sole nel suo tempio antico presso al Cerchio, dove s’aveva a fare lo eccesso, per averlo quella divina luce scoperto: e che a Cerere nel Cerchio più palii di barberi si corressero, e che il mese d’aprile si chiamasse Nerone: s’edificasse un tempio alla Salute in quel luogo onde Scevino cavò il pugnale, il quale Nerone consagrò in Campidoglio, e scrisse: A giove vindice; e non fu allora considerato; ma dopo la sollevazione di Giulio Vindice si avvertì come agurio dglla futura vendetta. Trovo nelle cronache del senato, che Ceriale Anizio elètto Consolo, disse per sentenza: Che quanto prima a spese pubbliche si facesse un tempio al divino Nerone; intendendo egli che Nerone dovesse esser adorato dagli uomini come più che uomo. Ma fu rivoltato a uria della sua morte, perchè niuno principe s’onora come Iddio mentre vive tra gli uomini.
fine del libro decimoquinto.