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LIBRO DECIMOSESTO 99

un tavolato mobile, ove pose il convito tirato da galee tutte commesse d’oro e d’avorio; remavano sbarbati giovani, collocati secondo l’età e maestria di libidini; eranvi uccellami e selvaggiumi di vari capi del Mondo, e pesci insin dell’Oceano; camere rizzate in su la riva del lago, piene di gentildonne; e a fronte puttane ignude, con gesti e dimenari sporcissimi. Venuta la notte, i boschi e le case d’intorno risonavano e risplendevano di canti e di lumi. Per non lasciar alcuna nefandigia lecita e non lecita, indi a pochi giorni tolse per marito uno stallone di quella mandria, detto Pittagora: fu celebrato lo sponsalizio con tutte le sagre cirimonie: messo in capo al nostro Imperadore il velo giallo, fatti gli augurj, la dote, il letto geniale, accesi i torchi; e finalmente veduto fare quanto, coprono anco le femmine con la notte.

XXXVIII. Seguita la più grave e atroce rovina che mai avvenisse in Roma per violenza di fuoco, non si sa se per caso o per frode del principe, che dell’uno e dell’altro ei sono autori. Il fuoco s’appiccò nel Cerchio contiguo al monte Palatino e al Celio, ove nelle botteghe piene di merci che gli sono esca, levatasi cubito gran fiamma, con vento, senza intoppo di muri o tempj o altro, corse per tutto il Cerchio; allargossi nel piano; salì a’ colli, scese, e comprese ogni cosa, senza dar tempo a’ripari la furia sua; e fece quella Roma vecchia con sue viuzze strette e torte, e chiassuoli, subito un falò. Lo spegnere era impedito dalle donne, da’ vecchi e fanciulli, spauriti e gridanti, e da quelli che brigavano di salvar sè e altri; strascinando i deboli, aspettandoli, correndo che spesso nel guatarsi a dietro, eran