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LIBRO DECIMOSESTO 97

a Nerone cresceva la voglia ogni dì più dal cantare a tutte le commedie; perchè sin allora aveva cantato in casa, ne’ giuochi Giovenali, che gli parevan luoghi gretti e indegni di tanta voce. Non ardì cominciare in Roma: elesse Napoli come città greca; indi passare in Àcaia, e farvisi incoronare come i sagri poeti antichi, per aver maggiore applauso dai cittadini. Incontinente il teatro di Napoli s’empiè dì genti, che delle terre e colonie vicine trassero a grido; e di quelli che seguitaron Cesare per fargli corte, e altre bisogne, e di squadre di soldati ancora.

XXXIV. Ivi avvenne caso, secondo i più doloroso, e secondo lui bene auguroso: che uscito tutto ’l popolo, il teatro voto cadde senza far male a veruno. Rendenne grazie agi’Iddii con canti musicali: e la fortuna del nuovo caso cantando, e verso il mare d’Adria avviandosi, si posò a Benevento, ove Vatinio fece la festa de’ gladiatóri bellissima. Costui fu uno dei più infàmi mostri di quella corte, allievo d’un sarto, gobbo, buffon magro, ricevuto prima per ischerno, poi, calunniando i migliori, tanto potè, che in favori, danari e possanza di nuócere, i pessimi avanzò.

XXXV. Il piacere di questa festa non diviava l’animo di Nerone dalle sceleratezze: e forzò a morir Torquato Silano, perchè, oltre alla chiarezza del sangue Giunio, riconosceva il divino Augusto per bisarcavolo. Fu commesso agli accusatori che gli apponessero, che essendo prodigo in donare, non isperava in altro che in novità: tener nobili per segretarj, computisti, cancellieri, nomi e pensieri da principe. Essendo i suoi liberti principali presi e legati, la