Questa pagina è stata trascritta ma deve essere formattata o controllata. |
LIBRO DECIMOQUINTO | 109 |
cose vedute: che gioverebbe tacerle egli solo? i premj avrebbe quel solo che fosse primo a rivelarle.
LV. All’alba Milico ne va al giardino dei Servilj; e non cadendogli aperto, disse che gran cosa portava, e atroce; i portinari lo menaro a Epafrodito liberto, di Nerone; egli a lui. Contagli, esserci urgente pericolo, gran congiure, e ciocchè aveva udito e conghietturato. Mostragli quel pugnale, che doveva ammazzarlo, e domandò che Scevino fosse condotto quivi. Rapitovi da soldati, si difese con dire: Che aveva tenuto per antica reliquia di sua casa quel pugnale in sua camera, onde l’empio liberto il furò: fatto più testamenti, senza badare più a uno che a un altro dì; donato libertà e moneta a’ suoi schiavi altre volte; ma più largo allora, perchè lasciando loro per testamento, e più debito che avere, i creditori erano anteriori; tenuta vita sempre splendida e allega, e poco approvata da’ severi censori; non chiesto fasce per ferite: averci questa vanitade aggiunta per l’altre malignitadi corroborare, e spia fattasene e testimonio. Alle parole accompagnò feroce animo, volto, e voce; chiamandolo scelerato e infame, con tanta efficacia che l’indizio svaniva. Ma la moglie di Milico avverti, che Antonio Natale e Scevino, ambi anima e corpo di G. Pisone, avevan fatto un gran ragionare in segreto.
LVI. Fu mandato per Natale: domandanti in disparte di che ragionassero, non si riscontrando, mison sospetto, e furon legati. Alla vista del tormento e alle minacce, cederono. E prima Natale più sciente della congiura e più atto a convincere, nominò Pisone, poi Seneca: o per aver portato ragionamenti tra lui e Pisone, o per grazia di Nerone