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LIBRO DECIMOQUINTO | 119 |
fidio. Di costui, non venutomi prima alle mani, darò breve notizia come parte anch’egli delle miserie di Roma. Sua madre fu libertina, bella e cosa di liberti e schiavi dei principi; facevasi figliuolo di G. Cesare, abbattendosi ad esser grande e d’aspetto terribile; o forse perchè G. Cesare, che randagio era, con sua madre si trastullò.
LXXIII. Nerone fatta a’ Padri sua diceria, bandì al popolo i condannati, e fece registrare a’ libri pubblici i lor processi per l’appunto; per chetar le lingue che lo laceravano d’avere spento tanti uomini dabbene per odio o paura. Ma del principio, progresso e fine di questa congiura, non fu dubitato allora da chi volle saperne il vero, e confessato da quei che in Roma tornarono, morto Nerone. I senatori, cui più toccava piagnere, più adulavano. Giulio Gallione, fratel di Seneca, raccomandava la salute sua pieno di spavento. Salieno Clemente chiamava nimico parricida; e tutti i Padri gli dettero in su la voce: Non misurasse l’occasione de’ mali pubblici contro agli odj privati; nè stuzzicando rinciprignisse la piaga dello sdegno del principe già risaldata.
LXXIV. Ordinaronsi offerte e grazie alli Iddii, e speziale onore al Sole nel suo tempio antico presso al Cerchio, dove s’aveva a fare lo eccesso, per averlo quella divina luce scoperto: e che a Cerere nel Cerchio più palii di barberi si corressero, e che il mese d’aprile si chiamasse Nerone: s’edificasse un tempio alla Salute in quel luogo onde Scevino cavò il pugnale, il quale Nerone consagrò in Campidoglio, e scrisse: A giove vindice; e non fu allora considerato; ma dopo la sollevazione di Giulio Vindice si avvertì come agurio dglla futura vendetta. Trovo nel-