Libro 14

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Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
Libro 14
XIII XV
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LIBRO DECIMOQUARTO

SOMMARIO

I. Nerone, acceso vie più sempre di Poppea, la madre Agrippina uccide. — XI. Scrive al senato scusandosene. — XII. Pricissioni stabilite: Trasea più non reggendo esce di senato. — XIII. Nerone dirotto in tutte libidini. — XVII. Gran sangue tra’ coloni Nucerini e Pompeani. - XVIII. Stato di Cirene: chiare morti. — Festa cinquennale instituita in Roma. — XXII. Rubellio Plauto rimosso. — XXIII. Corbulone in Armenia fa da Marte: presi i Tigranocerti fa re Tigrane. — XXVII. Laodicea da tremuoto a terra, ergesi da sè: mal si provvede al popolar le colonie. — XXVIII. Gli squittinj de’ pretori in accordo. — XXIX. Rovina de’ nostri in Brettagna, mentre Svetonio Paolino investe Mona: tutta quasi la provincia perduta con singolar costanza e in una giornata ricovra Svetonio. — XL. Orrendi delitti: Prefetto di Roma ucciso da un suo schiavo: pagane il fio la famiglia. — XLVI. Tarquizio Prisco condannato. Catasti per la Gallia. — XLVII. Muore Memmio Regolo: Ginnasio dedicato. — XLVIII. Legge di Stato rinnovata. — LI. Nel colmo dei pubblici mali muore Burro. — LII. Morto Burro, e abbassato Seneca: per sottrarsi all’invidia e all’accuse, parla a Nerone, che risponde furbo. — LVII. [p. 42 modifica]Tibellino sempre più in auge procura la morte di Plauto e Silla. — LX. Nerone scaccia Ottavia, richiama Poppea. Il popolo in tumulto fa che s’affretti l’esilio d’Ottavia; uccisa poi in Palmarola.
Anno di Roma dcccxii. Di Cristo 59.

C. C. Vipsanio Aproniano e L. Fonteio Capitone.

An. di Roma dcccxii di Cristo 60.

C. Ner. Claud. Ces. la IV volta e Cosso Cornel. Lentulo.

An. di Roma dcccxvi. Di Cristo 61.

Consoli. Cesonio Peto e Petronio Turbiliano.

An. di Roma dcccxv. di Cristo. 62.

Consoli. P. Mario Celso e L. Asinio Gallo.

I. Nel consolato dì C. Vipsanio e Fonteio, non soprattenne più lungo Nerone il suo lungo e scellerato pensiero, fatto audace per lo molto regnare, e spasimando ogni di più di Poppea, la quale non isperando, vivente Agrippina, ch’ei la togliesse per moglie, e cacciasse Ottavia, a ogni, poco il garriva, o motteggiava, che egli era ne’ pupilli, aveva il compito; non che imperio, non libertà. „Per che altro indugiava a torla? Forse li parea brutta? senz’avoli trionfanti? temea noa fosse sterile o di poco animo, o si peritasse, essendo moglie, a scoprirgli l’ingiurie de’ Padri, l’ira del popolo per la superbia e avarizia di sua madre? La quale, se non poteva patir nuora, se non odiosa al figliuolo, rendessela al suo Otone; dileguerebbesi in capo del mondo, per udire, anzi che vedere con suo pericolo, gli smacchi dello Imperadore.„ Tali stoccate alla superba madre, con [p. 43 modifica]lagrime e arte concubinesca, piacevano a tutti per abbassarla, non credendo però che il figliuolo la dovesse ammazzare per quantunque odio.

II. Cluvio narra, che l’ardore del mantener sua grandezza stigò Agrippina sino a presentarsi più volte a Nerone ubbriaco di mezzo dì, quando egli nel vino e vivande si riscaldava, lisciata e pronta all’incesto; e già dalle carezze e lascivi baci, notati da’ circostanti, venivano all’atto, se Seneca non riparava, con mandatali Atte liberta, che per lo pericolo suo e per l’onor di Nerone gli dicesse, che sua madre si gloriava d’averlo goduto, nè soffrerieno i soldati sì profano Imperadore. Fabio Rustico dice che Nerone, e non Agrippina, tal voglia ebbe, e che Atte lo distolse con astuzia. Ma gli altri scrivono come Cluvio e credesi più tal bestialità venuta da lei, che giovanetta, per la speranza del dominare, si era giaciuta con Lepido, poi, insino a Pallante sottomessasi; e, moglie del zio, fatto callo ad ogni obbrobrio.

III. Nerone adunque fuggiva il trovarsi con lei a ristretto; lòdavala del ricrearsi ne’ giardini e ville di Anzio e Tusculano: finalmente non la potendo in nessun luogo patire, risolvè d’ammazzarla; dubitò solamente, se con veleno o ferro o altra forza. Piaquegli prima il veleno; ma a tavola sua non si poteva coprire, essendo stato così ucciso Britannico; fargliele dare si potea male, perchè ella, a’ tradimenti usata, s’avea cura, e pigliava contravveleni; uccisa con ferro, non si poteva nascondere; e temeva di non trovare esecutore di si gran fatto. Trovò il modo Aniceto liberto, capo dell’armata di Miseno, maestro già di Nerone fanciullo, e sarebbonsi egli e Agrippina manicati col sale. Mostrò, ch’e’ si poteva [p. 44 modifica]congegnare una parte di nave che s’aprisse, e la facesse all’improvviso cadere in mare, capacissimo di tutti i casi. Se ella affogasse, chi ne imputerebbe mai altri che i venti e l’onde? il principe gli farebbe i tempj, gli altari, e l’altre onoranze pie.

IV. Piacque l’avvedimento, e venne a tempo l’andata di Nerone a Baia alla festa de’ Cinque Dì, ove la invitò; e andava dicendo che gli sdegni delle madri si deon tollerare e placarli, per dar nome d’essersi rappattumato, e accogliere Agrippina che veniva (come son le donne preste al credere) a rallegrarsi. Giunta da Anzio al lito, le si fe’ incontro, e la prese per mano e abbracciò, e condusse a Bauli, villa in sul mare, che gira dal Capo di Miseno al lago di Baia. Aspettavala una nave più adorna dell’altre, quasi per onorarla, usando ella farsi portar da galea o altro legno a remi. Allora la invitò a cena, perchè la notte coprisse l’eccesso. Seppesi che l’inganno le fu scoperto; credesselo o no, si fece in seggiola portar a Baia. Quivi passò la paura per le carezze che le fece Nerone; misela nel primo luogo, e ora con cianciar giovenile, ora con inarcar le ciglia quasi conferendole cose gravi, la cena allungò. Partendosi ella, non si saziava di guatarla e strignerlasi al petto, o per compiere l’inganno o perchè l’ultima vista di lei vicina alla morte rattenesse quell’ànimo, benchè di tigre.

V. Parve che gl’Iddii facessero a posta quella notte stellata e quieto il mare, per convincere il fatto. Non guari era camminata la nave, ove tra gli altri accompagnanti Agrippina, Crepereio Gallo stava presso al timone; e Aceronia a’ piedi di lei, che giaceva, per allegrezza contava del figliuolo [p. 45 modifica]ripentito e della madre tornata in grazia; quando, fatto cenno, il tetto in quella parte caricato di piombo rovinò e schiacciò Crepereio. Agrippina e Àceronia si salvarono sotto i fianchi del getto, che alti e riusciti gagliardi, ressero al peso. La nave non si finiva di aprire, essendo sossopra ognuno, e quei che l’ordine non sapevano impedivano gli altri. Volevano i rematori mandar la nave alla banda e sommergerla, ma non furon d’accordo subito: e gli altri col far forza in contrario, fur cagione che la caduta in mare fu più dolce. Aceronia, che giuocando a rovescio, gridava, sè esser Agrippina, aiutassesi la madre del principe, con bastoni e remi, e ciocchè venne alle mani fu morta. Agrippina cheta, però men conosciuta, pur fu ferita in una spalla. Notando s’avvenne a un battello, e fu portata al lago Lucrino in villa sua.

VI. Ivi riandava, che perciò era stata invitata da quella lettera traditora, più del solito onorata; la nave a proda, non per vento ne scoglio di sopra, come terrestre macchina, esser caduta: Aceronia essere stata uccisa, lei ferita; e altro rimedio a questi lacci non vedendo che infingersi di non li conoscere, mandò a dire al figliuolo per Agerino suo liberto, che per grazia degl’Iddìi e fortuna, di lui, era scampata di gran pericolo. Non venisse per questo travaglio per allora a vederla; si volea riposare; e mostrandosi tutta sicura, attese a medicar la ferita e ristorarsi. Fece trovar il testamento d’Àceronia, e suggellar le sue robe: ciò solo senza fingere.

VII. Nerone, che novelle aspettava dello affondamento, l’ebbe dello scampo con poca ferita, e che il caso era passato in guisa che l’autore era [p. 46 modifica]chiaro. Basì di paura, gridando che ella verrebbe subito a vendicarsi, armare schiari, accender soldati, chiamar il senato, il popolo, gridar del naufragio, della ferita, de’ morti amici; che rimedio avrebbe? se già Burro e Seneca non s’aguzzassono un poco; per cui tosto mandò, e forse prima il sapeano. Stettero un pezzo mutoli, per non lo consigliare in vano; vedendo il caso in termine, che se Agrippina non era vinta della mano, Nerone era spacciato. Dipoi Seneca, prima risoluto, guardò Burro in viso, quasi domandandolo se dovea mandarsi soldati a finirla. Rispose: i Pretoriani aver obblighi a tutta la casa de’ Cesari, e memoria di Germanico; non ardirebbon toccare il suo sangue: finissela Aniceto che vi avea messo mano. „Lasciate fare a me,„ disse egli incontanente. A questa voce Nerone sclamò: „Oggi da te, o liberto mio, riconosco l’imperio: corri con arditissimi e fa l’effetto.„ Egli, udito che Agerino, messaggio d’Agrippina, era giunto, gli ordi subitamente un atto da scena: mentre sponeva, gli lasciò cadere tra’ piedi un pugnale. Allora, quasi colto in peccato, il fe’ legare, come mandato dalla madre a uccider il principe, per poter dar voce che ella per vergogna della cosa scoperta si fosse ammazzata.

VIII. Intanto si sparse, come Agrippina aveva corso pericolo per fortuna; corre ognuno al mare: chi monta in su’l molo, chi in su le barche; altri guazza, quanto oltre può; altri si spenzola, o sporge le mani; empiesi ciò ch’è, di lamenti, boci, grida, domande varie, risposte dubbie: accorre con lumi gran popolo; o quando fu inteso il suo scampo, pignevano innanzi per rallegrarsi, sino a che non furono [p. 47 modifica]minacciati e scacciati da gente armata. Aniceto accerchia di soldati la villa, e spezzata la porta, piglia quanti servi riscontra. Giunto alla camera, i servi s’eran quasi tutti fuggiti per lo fracasso; dentro era un lumicino e una servente, e Agrippina sempre più sbigottita non vedendo Agerino, nè altri tornare dal figliuolo, la ripa spazzata, non gremita come prima, strepiti repentini e segni d’ultimo male. Andandosene la servente, „Anche tu, disse, m’abbandoni?„ Vide Aniceto in mezzo a Erculeo Capitano di galee, e Oloarito Centurione dell’armata, e disse: „Se vieni a vedermi, digli ch’io mi son riavuta; se ad uccidermi, non credo che il mio figliuolo il ti abbia commesso.„ Accostatisi al letto, Erculeo prima le die d’un bastone in su’l capo, perocchè al Centurione, che impugnava la spada, avea porto il ventre, gridando: „Qui ferisci;„ e di molte ferite mori.

IX. Queste cose scrivono tutti; che Nerone la vedesse morta, e sua bellezza lodasse, chi sì, chi no. Fu arsa la stessa notte in letto da mensa con povere esequie, senza sepolcro, mentre Nerone visse: poi le ne fecero i suoi di casa un piccolo, lungo la via di Miseno, e la villa di Cesare Dettatore, altissima, che guarda i golfi. Mnestero liberto le accese il rogo, e si passò fuor fuore; se per amor della padrona o per paura di sè, non è certo. Agrippina aveva molti anni prima inteso, ma non atteso, questo suo fine: domandò i Caldei della ventura di Nerone, e dissero ch’ei sarebbe Imperadore, e ammazzerebbe sua madre. „Ammazzila, disse, purchè ei sia.„

X. Ma Cesare al fine conobbe la grande [p. 48 modifica]sceleratezza, fatta che ei l’ebbe. Stette lo rimagnente di quella notte affisato e mutolo: spesso si rizzava spaventato, e sbalordito aspettava con la luce del giorno la sua rovina. I primi a rincorarlo furon certi Centurioni e Tribuni, mandatigli da Burro a baciargli la mano, e rallegrarsi che ei fusse scampato dal tradimento non mai aspettato di sua madre. Corsero poi gli amici a’ tempj, e dietro a loro le vicine città di Terra dì Lavoro mostraron con sagrificj e ambascerie allegrezza. Esso al contrario si faceva mesto, e quasi dolente del proprio scampo, e piagneva la madre sua; e perchè i luoghi non si metton la maschera come gli uomini, non poteva veder quel mare, quei siti; e alcuni credevano uscir suoni di trombe dai colli vicini, e pianti dalla sepoltura della madre. Se n’andò a Napoli, e scrisse al senato.

XI. „Essersi trovato con l’arme Agerino, liberto principale d’Agrippina, mandato a ucciderlo; lei sè stessa per rimorso di coscienza punitasi per la scelleratezza ordinata. Aggiunse peccati vecchi: „sperato farseli compagna, giurarsele ubbidienza dai pretoriani: dal senato e dal popolo il medesimo vitupero: fallitole ogni disegno, aver tempestato lui a levar a’soldati i donativi, alla plebe le mance; rovinare i Grandi, nimicarsi ognuno. Quanta fatica essere stata a tenerla di non entrar in senato, non risponder alli ambasciadori?„ Per fianco biasimò i tempi di Claudio, ogni male apponendo alla madre, estinta (diceva egli) per ventura pubblica; contando quel naufragio come egli andò: e chi sarebbe stato sì tondo che l’avesse creduto a caso? o che una donna ripescata mandasse con l’arme un solo a romper le guardie e l’armate dell’Imperadore? Levavansi [p. 49 modifica]adunque i pezzi, non di Nerone, già spacciato per mostro infame, ma di Seneca, che scrivesse in quella lettera la confessione del peccato.

XII. Con tutto ciò que’ principali con gare stupende ordinavano adorazione a tutti gli altari; e che ogn’anno si festeggiassero i Cinque di, quando fu scoperto il tradimento; ponessesi in senato una statua d’oro a Minerva, accantole una del principe: rìponessesi il dì che giacque Agrippina, tra gl’infelici. A questa adulazione, Trasea Peto, che all’altre aveva taciuto o passatole con poche parole, s’usci di senato; rovinò sè, e non fu agli altri principio di libertà. Apparsero ancora molti segni senza effetti: una donna partorì una serpe; un’altra sotto ’l marito mori di saetta; il Sole scurò a un tratto; in tutt’e quattordici regioni di Roma caddero saette. Cose avvenute tanto senza cura degli Iddii, che Nerone continuò le sceleratezze e l’imperio molti anni, Per far più odiosa la madre, e parer, levata lei, più benigno, fece tornare alla patria Giunia e Calpurnia gran donne, e Valerio Capitone, e Licinio Gabolo, stati in governi, scacciati da lei: e ritrovar le ceneri di Lollia Paulina, e farle sepolcro. Ad Iturio e Calvisio, dinanzi da lui confinati, fe’ grazia. Silana tornando di lontano ponfino, si era morta a Taranto consolata, vedendo già cadere o placarsi Agrippina, la cui nimicizia fu la rovina sua.

XIII. Trattenendosi per le castella di Terra di Liavoro confuso di come s’entrare in Roma; se dolesse richieder l’incontro del senato o l’applauso della plebe: i più sciagurati, dei quali quella corte n’era la più fornita del mondo, dicevano, che il nome di Agrippina era odiato, e per la morte di lei [p. 50 modifica]racceso l’amor del popolo verso lui; andasse sicuro che e’ si vedrebbe adorare. Preganlo a mettersi in via, e trovano più prontezza che non avean promesso. Vennero le tribù; il senato in veste allegre; schiere di donne e fanciulli ordinate secondo l’età e sesso: fatti gradi, per vederlo passare, cóme a’trionfi. Quindi insuperbito e della pubblica servitù trionfante, andò in Campidoglio a ringraziare; e si tuffò in tutte le libidini, rattenute pur un poco da qualche rispetto a quella madre.

XIV. Avea umore antico di correre in su le carrette, e non men bruttamente, cenando, cantare sulla cetera a uso di giocolare. Diceva essere ciò usato da’ Re antichi e duci: lodato da’ poeti, e onoratone gl’Iddii; la musica consagrata ad Apollo; e questo gran Dio e Oracolo, non pure nelle greche città, ma nei tempj di Roma vedersi ceteratore. Parve a Burro e Seneca, non potendo medicarlo delle due pazzie, lasciargliene una. Fecesi in Vaticano un chiuso, dove egli facesse correre i cavalli ritirato; poscia vi fu chiamato il popol romano, che lo alzava al cielo; essendo dei piaceri vago, e pazzo se il principe ve l’invita: e dove pensarono con quella indegnità, a pien popolo, farneli uscir l’appetito, l’aguzzarono; e parendogli nettar sè, imbrattando altrui, indusse molti nobili scaduti a far lo strione a prezzo. Son morti, e non li nomino per non disonorar le famiglie; perchè l’onta fa sua pure, che doveva più tosto pagarli acciò non facesser bruttura, perchè indusse ancora de’ primi cavalieri romani a combattere nell’anfiteatro con gran donativi. Ma questi importano necessità d’ubbidire quando vengono da chi può comandare. [p. 51 modifica]

XV. E per non si vituperare affatto, giocando ancora nel teatro pubblico, trovò la nuova festa detta Giovanile, ove si scrisse gran numero. Esser nobile, vecchio, aver avuto magistrato, non frenava alcuno dall’usare l’arte delli strioni greci o latini; insino agli atteggiamenti, e gesti non da uomo, anzi le gentildonne ancora studiavano in laidezze; e nella selva che Augusto piantò intorno al lago navale, fece rizzar camere e taverne, e vendere ricette da lussuria. Davansi per cotal festa danari, de’ quali i buoni si servivano per forza, i dissoluti per gloria; onde crebbero le sceleratezze e l’infamia: nè mai fur costumi corrotti quanto in quella canaglia. Appena con l’arti oneste, non che gareggiando ne’ vizj, si mantien pudicizia, modestia, o arte buona. Egli all’ultimo venuto in sul palco, con grande studio la lira accordava e la voce a lume di torchi, presenti ancora una banda di soldati Centurioni e Tribuni, e Burro, che di ciò dolente, pur lo lodava. Creossi all’ora un numero di cavalieri romani detti augustani. Questi giovani, disposti e forti, chi v’entrò per bizzarria di cervello, chi sperando avanzarsi con applaudere dì e notte alla bellezza e boce del principe con titoli divini; erano grandi, e onorati quasi per gran virtù.

XVI. Per non parere questo Imperadore solamente strione, si diede ancora a far versi. Ragunava poetuzzi novellini; metteva loro innanzi, e faceva levare e porre, e rabberciare i versi suoi; e ben si paiono allo stile stentato, rotto e non di vena, nè d’un solo. Udiva ancora filosofi dopo mangiare, che scoprivano loro discordie bisticciandosi: nè mancava chi fra i passatempi del principe desiderasse esser veduto con volto e voce severa. [p. 52 modifica]

XVII. In questo tempo, di picciola contesa tra i Nocerini e ì Pompeani uscì molto sangue nella festa degli accoltellanti, che faceva Livineio Regolo, raso, come dissi, del senato; imperocchè dalle insolenze castellane vennero alle villanie, a’ sassi, all’armi: e vinse la plebe pompeiana, che aveva la festa in casa. Molti Nocerini furon portati in Roma, feriti o storpiati, o morti, e pianti da lor padri e figliuoli. Il principe rimise la causa al senato, esso ai Consoli, e ritornò a’ Padri; i quali vietarono a’ Pompeani tal festa per dieci anni: disfecero lor compagnie fatte fuor di legge, e sbandirono Livineio e gli altri primi rissanti.

XVIII. Fu raso del senato ambe Pledio Bleso, accusato da’ Cirenesi d’aver imbolato il tesoro d’Esculapio, guasta la scelta de’ soldati per danari e favori. Essi Cirenesi ancora accusavano Acillo Strabone, stato Pretore, mandato da Claudio a giudicare dei terreni stati ab antico del Re Apione, che gli lasciò insieme col regno al popol romano, come usurpati da’ vicini, che difendevano l’iniquità col possesso lungo. Ei gli condannò a renderli; e quindi fu l’odio. Il senato disse che non sapeva che commessione gli avesse Claudio data; ricorressero al piùncipe; il quale confermò la sentenza di Strabone; ma per sovvenire gli amici, ne fece lor grazia.

XIX. Morirono due cittadini chiari e potenti per sommi onori e molta eloquenza; Domizio Afro, fazioso avvocato, e M. Servilio, prima avvocato, poi scrittor nobile di storie romane. Questi pari d’ingegno, di costumi diverso, con vivere splendido si fe’ più chiaro.

XX. Nel consolato quarto di Nerone, e di Cornelio Cosso, ordinossi in Roma la festa cinquannale [p. 53 modifica]simile alla greca Olimpia, e fu presa variamente, come quasi ogni cosa nuova: „Anche Gn. Pompeo, dicevano alcuni, fu da’ vecchi biasimato d’aver murato il teatro stabile, solendosi alle feste fare i gradi e la scena posticci; e più anticamente il popolo stava ritto a vedere, perchè non si stesse, sedendo, a baloccare i giorni interi. Ne anche osservarsi l’antichità, la quale non forzava niuno a combattere quando i Pretori faceano i giuochi. Ma delle usanze buone della città nostra averne spento il seme a poco a poco la licenza forestiera; vedendocisi introdotto, se nulla è al mondo da esser corrotto e corrompere; tralignar la gioventù, frequentando esercizj stranieri, scuole, ozj e brutti amori. Perchè il principe e il senato non solamente permettono i vizj, ma li comandano. I primi di Roma in vista di recitare prose e versi, dire alle commedie; che altro mancare, che spogliarsi, mettersi i guanti del piombo, e fare alle pugna, in luogo di militar disciplina? Farà forse veri Auguri, buoni cavalieri, l’udire squartar le voci e i nomi addolcire? Impiegarsi anche le notti in queste infamie, per non lasciare alcun tempo alla modestia; compiendo in quel mescuglio quel che da ogni reo uomo s’era il giorno agognato.

XXI. A molti cotal licenza piaceva, e la coprivano con vocaboli onesti: „Non avere anche gli antichi abborrito i piaceri degli spettacoli conformi a que’ tempi, con istrioni chiamati di Toscana, e zuffe di cavalli da i Turj: vinte l’Acaia e l’Asia, essersi fatti più belli. Da dugento anni in qua, che il trionfo di L. Mummio c’introdusse prima questi spettacoli, niuno romano nobile esser diventato, per esercitarli, non nobile. Essersi ancora col teatro [p. 54 modifica]fermo avanzato grossa spesa, non avendosi ogn’anno a rifare: e se la repubblica stessa spende nei giuochi, non impoveriranno quei di magistrato, nè avrà il popolo cagione di chieder loro le feste alla greca. I riportati doni di belle dicerie e versi, aguzzerieno gl’ingegni; e volentieri i giudicatori ascolterieno gli studi onesti e passatempi conceduti. Per rallegramento, non per lascivia, concedersi in cinque anni poche notti, ove tra tanti lumi, che disonestà potersi fare?„ Veramente la festa passò senza notevole disonestà o risse di plebe parteggiante, perchè i giocolari, benchè renduti alle scene, non entravano ne’ sacri ludi. Il vanto del più bello parladore niuno riportò, ma fu dato a Cesare e gli abiti greci, cominciati a vedersi in quei giorni, si riposero.

XXII. Apparì allora una cometa, che il volgo crede significar mutamento di principi; onde, come Nerone fosse cacciato, si ragionava dello scambio. Celebrava ognuno Rubellio Plauto, che era di casa Giulia per madre; osservava i costumi antichi; vestiva modesto; vivea onesto e ritirato; e quanto più per paura nascondeva sue qualità, più se ne diceva. Accrebbe il romore un segno vano altresì d’una folgore, la quale, mangiando Nerone a Tivoli all’Acque Simbruine, luogo detto a Sollago, mandò la mensa e le vivande sossopra; e perchè Plauto traeva sua origine quindi, si credeva che gl’Iddii il volessero; e favorivanlo molti per lo avido e fallace aspirare alle novità, perigliose. Nerone, da tali cose commosso, scrisse a Plauto, che per fuggire scandoli del popolaccio, che a torto lo caricava, si cansasse in Asia a godervi ne’ suoi beni antichi, in pace e sicuro, la sua gioventù. E così fece, con la moglie [p. 55 modifica]Antistia e poca famiglia. In que’ giorni la troppa dolizia portò biasimo e pericolo a Nerone. Essendosi bagnato nella fonte dell’Acqua Marzia condotta in Roma, parve col notarvi e lavarsi tutto ’l corpo, aver contaminato lo sagro beveraggio e la religione del luogo; e confermollo una malattia di pericolo ch’ei ne cavò.

XXIII. Corbulone, spiantata Artassata, si voltò a pigliare con lo spavento fresco Tigranocerta, per più impaurire i nimici, disfacendola; o perdonandole, nome acquistar di clemente; andarvi, senza farle l’esercito danno alcuno, per non torre la speranza del perdono: stando però in su le sue, sapendo la voltabil gente che ell’è; a’ pericoli tarda; vedendo il bello traditora. I Barbari, secondo le nature, o si arresero o dileguarono, o nascosero in caverne con loro cose più care; co’ primi fu Corbulone benigno; contro i secondi veloce; con gli altri crudele; con fascine e stipa gli turò e arse là entro. Passando da’ confini loro, i Mardi, usati a rubare, e salvarsi ne’ monti quando son rincacciati, Corbulone mandò a sconfiggerli; e col sangue forestiero vendicò lo nimico ardimento.

XXIV. Niuno danno pativa egli, nè l’esercito per battaglie, ma per carestia e fatiche; sfamandosi di carne di pecore; carestia d’acqua, state ardente, viaggi lunghi; cònsolavali la sola tolleranza del capitano, maggiore che di qualunque fantaccino. Vennesi in paese dimestico, e si mietè delle biade. Dei due castelli, ove s’eran rifuggiti gli Armeni, l’uno al primo assalto, l’altro che ’l sostenne, s’ebbe per assedio. Quindi passò ne’ Tauranti, ove corse pericolo non aspettato da un Barbaro non ignobile, [p. 56 modifica]trovato poco fuori del suo padiglione con arme; e confessò per tormenti l’ordine del suo tradimento, e i compagni, e quelli che, come amici, lo conducevano, che furon convinti e puniti. Vennero poco a presso ambasciadori da Tigranocerta, che gli apriva le porte, e il popolo era pronto a ubbidire; e presentarongli una corona d’oro, quasi a buono ospite: ei l’accettò con paròle onorate: alla città nulla mutò, perch’e’ servissono più volentieri.

XXV. Ma la fortezza fu difesa da fiera gioventù per lo Re, innanzi alle mura, e poi dentro a’ ripari; finalmente cede alla forza. Succedevano queste cose più agevolmente, per essere i Parti impacciati nella guerra con gli Ircani, che avevano mandato al principe romano a chieder lega; vantandosi, per segno d’amicizia, di tener Vologese impedito. Al ritorno loro, Corbulone, acciò non fussero, passato l’Eufrate, presi dalle guardie de’ nimici, li fece bene accompagnati condurre al mar Rosso, per lo quale, sfuggiti li paesi dei Parti, a casa se ne tornarono.

XXVI. Sforzò ancora Tiridate, che avuto il passo per la Media, entrava nell’ultima Armenia, mandatovi Verulano Legato con gli aiuti, e corsovi esso con le legioni, a ritirarsi e torsi giù dall’impresa; e mettendo a ferro e fuoco qualunqne aveva veduto pigliarla per lo Re, s’impadroniva dell’Armenia, quando vi comparì Tigrane, eletto Re da Nerone, de’ nobili di Cappadocia, nipote del Re Archelao; ma per lo essere tanto stato in Roma ostaggio, pusillanime come schiavo. Nè l’accettarono tutti, durando in alcuni l’amore agli Arsacidi. Ma i più odiando la superbia de’ Parti, volevano anzi Re dato dai Romani. Gli fu dato per guardia mille soldati di [p. 57 modifica]legione, tre compagnie di aiuti e due bande di cavalli; e, per sicurezza del nuovo regno, fu ordinato che parte dell’Armenia ubbidisse a Trascipoli, Aristobolo e Antioco, secondo che con loro confinava; e Corbulone se n’andò in Soria, datagli in governo per la morte di Vinidio.

XXVII. In quell’anno Laodicea, grossa città dell’Asia, rovinò per tremuoti, e si rifece col suo, senza nostro aiuto. In Italia Pozzuolo, terra antica, fu rifatta colonia, e da Nerone rinomata. A Taranto e Anzio assegnati soldati vecchi; ma non però le popolarono, tornandosene molti nelle province dove avevano militato: gli altri, non usati a maritaggi e allevar fìgliuoli, spegnevano lor famiglie; perchè non si rifornivano a legioni intere co’ lor Tribuni, Centurioni, e ordini, come già, per fare unita e caritatevole comunanza, ma alla spicciolata, di compagnie vane, senza Capo, senza conoscersi nè amarsi, quasi d’un alto mondo raccogliticcia moltitudine, anzi che colonia.

XXVIII. La creazione de’ Pretori al senato toccava; ma per la ressa de’ chieditori il principe ne contentò tre che passavano il numero, facendoli Capi di tre legioni. Un altro onor fece a’ Padri, che chi da privato giudice appellasse al senato (a che non era pena), soggiacesse, perdendo, a quella di chi appella all’Imperadore. Nel fine dell’anno, Vibio Secondo cavaliere, accusato da’ Mori di governo iniquo, fu cacciato d’Italia per minor pena, per favori ’di Vibio Crispo suo fratello.

XXIX. Nel consolato di Cesonio Peto e Petronio Turpiliano, s’ebbe grande sconfitta in Britannia, ove Avito Legato non aveva fatto altro che mantenere [p. 58 modifica]l’acquistato: Verannio suo successore alquanto scorso, saccheggiato i Siluri; e per morte impedito di più avanzarsi, fu tenuto molto severo; nel testamento si chiarì vano col dire, dopo molto adular Nerone, che s’egli vivea due anni gli soggiogava tutte quelle contrade. Eravi allora Svetonio Paulino, che per saper di guerra e grido del popolo, che niuno lascia senza paragonarlo, competeva con Corbulone. Lo cui onore della ripresa Armenia desiando di pareggiare col domar quei ribelli, deliberò d’assaltare l’isola di Mona, possente di popolo, e ricetto de’ ribellati. I navili fabbricò piatti per quelle coste di poco fondo e non fermo. Con essi passò i pedoni; seguitaronli i cavalieri a -guazzo o per li fondi a nuoto.

XXX. Stavano i nimici in sul lito armati e stretti: tra essi correano femmine scapigliate con vesti nere e facelle in mano, come furie: i Druidi, loro sacerdoti, con le mani al cielo ci pregavano cose orrende; e tanto la nuova vista stupefece i soldati, che stavan fermi come statue a lasciarsi ferire; ma confortati dal capitano, e stimolatisi tra loro a non aver paura di donne e di pazzi, danno dentro, e gl’incontranti abbattono e rinvolgono nelle lor fiamme. Ne’ borghi furon poste le guardie e tagliati i boschetti, sagrati a loro divozioni orride; ove gli altari incensavano col sangue de prigioni, e dalle umane viscere indovinavano de’ casi propri. Facendo queste cose Svetonio, ebbe avviso che la provincia s’era in un subito ribellata.

XXXI. Prasutago Re delli Iceni, di famosa ricchezza, lasciò erede due sue figliuole, e Cesare per metà; pensando che tal cortesia facesse riguardare il regno e la sua casa. S’appose male: i Centurioni gli [p. 59 modifica]saccheggiarono il regno, e gli schiavi la casa, come lor preda. Boudicea sua moglie fu bastonata, le figliuole sforzate, i principali Iceni (come il lascio comprendesse tutto ’l paese) spogliati de’ lor beni antichi; i parenti del Re messi tra gli schiavi. Por questi oltraggi, e paura di peggio (essendo divenuti come vassalli), danno all’arme; fanno ribellar i Trinobanti; altri non usati a servire congiurano di ripigliare la libertà, odiando a morte i veterani, messi ultimamente nella colonia dì Camaloduno, che li cacciavan di casa e de’ poderi, dicendoli lor prigioni e schiavi, e amavano i soldati la loro insolenza, per la somiglianza de’ costumi e speranza della medesima licenza. Avevano anche in sugli occhi il tempio a Claudio fatto per arra d’eterna servitù: e i sacerdoti, sotto spezie di religione, si divoravano tutte le facoltadi. Ne pareva molta fatica abbattere quella colonia niente fortificata, per aver più atteso i nostri capitani a farla amena che utile.

XXXII. La statua della Vittoria, cadutavi senza veder cagione con le spalle voltate, quasi cèdesse ai nimici; donne infuriate che gridavano, finimondo; fremiti forestieri uditi nel lor senato; rimbombi di urla nel teatro; un’ombra apparita nel fiume Tamigi; figure di corpi umani lasciatevi dal reflusso, e già l’Oceano, che parea sanguinoso, tutti eran segni che la colonia era spacciata, e davano speranza a’ Britanni e spavento a’ coloni; i quali, perchè Svetonio era lontano, chiederon soccorso a Cato Deciano procuratore. Mandò loro non più che dugento e male armati; eranvi pochi soldati, avendo fede che quel tempio si difenderebbe. In corpo avevano congiurati occulti che guastavano i lor consigli; e non avendo [p. 60 modifica]tirato fosso, nè steccato, non mandato fuori i disutili, e ritenuta sola la gioventù, non pensato a nulla, come fossono nella pace a gola, moltitudine di Barbari gli circondò: e tutto a furia rubò, àrse e assediò, e in due di prese il tempio, ove s’eràn ristretti; affrontò vittoriosa Petillo Ceriale, Legato della legion nona, che veniva al soccorso; ruppe quella legione, e i pedoni ammazzò. Ceriale co’ cavalli si salvò e difese nel campo; Cato procuratore, impaurito di questa rotta e dal malissimo talento della provincia, messa in guerra per sua avarizia, si fuggìo in Gallia.

XXXIII. Ma Svetonio con maravigliosa fermezza per mezzo i nimici passò a Londra, colonia non grande, ma grassa, e di gran traffico mercantile, pensando, se era bene piantar quivi la sede della guerra. Considerato i suoi pochi soldati, la gran rotta, la temerità di Petilio, pur troppo costare, deliberò col danno d’una terra salvàre il tutto; e senza udir prego nè pianto, dette il segno del partire, menando seco chi volle andare; le donne, i vecchi o gli amadori del luogo rimasivi, furon oppressi dal nimico. La rovina medesima patì la città di Verulamio; perchè i Barbari usciti de’ castelli e Fortezze gùardate, ciò che trovano di buono e mal difeso, lieti rapiscono e portano in salvo. Da settantamila cittadini e collegati morirono ne’ detti luoghi; perchè quivi non si trattava di prigioni o vendite o altro traffico soldatesco: ferro, fuoco, pali, croce, che aspettavan da noi, si studiavano renderci quasi per anticipata vendetta.

XXXIV. A Svetonio, avendo già in arme la legione quattordicesima co’ vessillari della ventesima, e [p. 61 modifica]aiuti vicini da diecimila, non parve da perder tempo: e s’ordina alla battaglia. Scelse luogo dinanzi stretto, e dietro chiuso da boscaglia, sicuro d’agguati; sapendo tutti i nimici esser a fronte, e la campagna rasa. Ordinò la legione in molte squadre; ì leggieri armati d’intorno, i cavalli alle bande. L’esercito britanno, sparso per caterve e frotte di cavalli, braveggiava più numeroso che mai, e sì fiero, che menaron le donne a veder la vittoria in carri, che facevan corona a quella pianura.

XXXV. Boudicea in carretta con sue figliuole innanzi, andava a ogni nazione dicendo: „Solere in Britannia maneggiar le guerre le donne; ma ella allora non venire a difender quel regno e le sue forze, come nata di tanti eroi, ma come una delle più plebee a vendicar le sue bastonate, la perduta libertà, e l’onor tolto a quelle figliuole, da che la libidine romana era venuta a tale, che non le campava vergini nè vecchie. Ma gl’Iddii aver messo mano alla giusta vendetta; tagliato a pezzi una legione che ardì far testa; gli altri starsi serrati nel campo o specolare via da fuggirsi; non sopporterieno il romoro e le grida, non che l’impeto e le mani di tante migliaia. Quelle, e la tanta ragione sforzarli a vincere morire in quella battaglia; ella donna il farebbe; vivansi gli uomini e servano.„

XXXVI. E Svetonio non taceva in tanto pericolo: ma, se bene confidava nella virtù, esortava e pregava: „Ridessonsi delle minacce e del fracasso dei Barbari; vedervisi più donne che gioventù; non guerrieri, non armati, tante volte rotti, che la darieno a gambe come vedessero i vincitori e ’l ferro. Nei grossissimi eserciti ancora pochi esser quei che [p. 62 modifica]rompano e sbaraglino; se essi pochi facessero da grossissimo esercito, avrebbono tanta più gloria. Serrati sempre e prima co’ dardi, poi con la spada e rotella, non finissero d’ammazzatre: dimenticassero il predare; e vincendo, sarebbe loro ogni cosa„. Vennero per le parole del capitano in tanto ardore, e sì bene s’adattavano a lanciare quei soldati vecchi di prova in molti fatti d’arme, che Svetonio certo dell’evento, sonò a battaglia.

XXXVII. Primieramente la legione senza muoversi e della strettezza del luogo servendosi per riparo, quando il nimico sì presso le fu, che i lanciotti colpivano, ed ebbegli consumati, rovinosamente, quasi conio lo fessa; e gli aiuti altresì fecero l’istesso: la cavalleria con le lance ogni forte incontro abbattè; gli altri voltaron le spalle; ma que’ carri facevan siepe alla fuga; e i soldati non risparmiavan le donne; le bestie anche trafitte crescevano i monti delle corpora. Gloriosa, e pari all’antiche fu la vittoria di quel giorno; non mancando chi dice esservi morti de’ Britanni bene ottantamila; di nostri da quattrocento e feriti poco più. Boudicea s’avvelenò; e Penio Postumo, maestro del campo della legion seconda, veduto il felice successo della quattordicesima e ventesima, e aver tolto la medesima gloria alla sua, col disubbidir contro alla buona milizia al capitano, s’infilzò nella spada.

XXXVIII. L’esercito fu rassegnato e attendato per dar fine alla guerra; e Cesare dumila soldati di legione vi mandò di Germania, otto coorti d’aiuti e mille cavalli; i quali arrivati, la legion nona fu rifornita di legionarj. Fanti è cavalli messi in nuove guarnigioni, e tutti i paesani neutrali o nimici messi [p. 63 modifica]a ferro e fuoco. Ma il peggio loro era la fame, essendo al seminare negligenti, e corsi alla guerra di ogni età: fatto assegnamento dei nostri viveri: e andava quella gente bestiale ancor più adagio alla pace, perchè Giulio Classiciano, mandato successore a Cato, e mal d’accordo con Svetonio, guastava il ben pubblico per l’odio privato; spargendo che aspettassero a darsi al nuovo Legato che farebbe lor carezze, non avendo ira di nimico nè superbia di vincitore; e scriveva a Roma, non s’aspettasse mai fine della guerra alle mani di Svetonio, attribuendo alla malvagità di lui ogni male che seguiva, e ogni bene alla fortuna della repubblica.

XXXIX. Laonde Nerone mandò a riconoscere lo Stato di Britannia Policleto liberto, con grande speranza che l’autorità di costui potesse non pure unire il Legato col procuratore, ma co’ Barbari e ribellati una pace. Egli con gran gente, e aggravio d’Italia e Gallia, passò il mare, terribile eziandio a’ soldati nostri; ma i nimici della libertade ancora ardenti e non informati della potenza de’ liberti, si ridevano che quel capitano e quell’esercito, vincitori di sì gran guerra, ubbidissero alli schiavi. Fu nondimeno riferito il tutto all’Imperadore con più dolcezza. Avendo poi Svetonio nell’attendere a sue gravi cure, perduto certe poche navi con lor ciurma in sul lito, gli fu detto che consegnasse l’esercito, come se la guerra durasse, a Petronio Turpiliano, già uscito dà Consolo. Costui con lasciare stare il nimico ed essersi lasciato stare, pose al suo vile ozio onesto nome di pace.

XL. Nel detto anno due brutte sceleratezze ardiron fare in Roma, un Senatore e uno schiavo. Era [p. 64 modifica]Domizio Balbo, stato Pretore, molto vecchio, senza figliuoli, e danaroso, e però soggetto a insidie. Valerio Fabiano suo parente destinato alli onori, gli falsificò un testamento, e chiamò Vicio Rufino e Terenzio Lentino, cavalieri romani, i quali chiamarono Antonio Primo, e Asinio Marcello; quegli ardito e sfacciato; questi illustre per Asinio Pollione suo bisavolo, e di non mali, costumi; se non che l’esser povero stimava il maggiore di tutti i mali. Da questi e altri di minor conto, Fabiano fece suggellare il testamento, e funne convinto in senato; e dannati, Fabiano, Antonio, Rufino, e Terenzio, nella legge Cornelia; Marcello per la memoria de’ suoi maggiori e preghi di Cesare, fu liberato più dalla pena che dall’infamia

XLI. E Pompeo Eliano, giovane stato Questore, quel giorno non andò netto; ma come consapevole, fu cacciato d’Italia e di Spagna, ove nacque. Pari vergogna ebbe Valerio Pontico, che per fuggire il giudizio del Prefetto di Roma, avea acculato i rei al Pretore, affinchè scampasser la pena, ora sotto colore delle leggi, ’poi per collusione. E nacque decreto, che ogni operatore di simile baratteria s’intendesse condannato nella pena delle false accuse.

XLII. Indi a poco uno schiavo di Pediano Secondo, Prefetto di Roma, Tammaro, perchè gli negava la libertà mercatata, o non poteo patirlo rivale nell’amore d’un giovane. Ora dovendoci per antica Costume far morire tutta la famiglia che sotto quel tetto abitava, la plebe corse a difender tanti innocenti, e fece sollevamento; e nel senato stesso ad alcuni non piaceva tanta severità; ma i più niente [p. 65 modifica]volevano rimutare; tra i quali C. Cassio per sua sentenza disse:

XLIII. „Molte volte mi son trovato, Padri Coscritti, a sentir chieder in questo senato leggi e ordinanze nuove contro all’antiche, e non ho contraddetto; non per dubitanza, che già non fusse a tutte le cose provveduto meglio e più rettamente, da non potersi, ritoccandole, se non peggiorare, ma per non parere d’innalzare con troppo amore questa mia antichità, e anche, per non mi giocare, contraddicendoci ogni dì, quella autorità che abbiamo, ma risparmiarla per servigio della repubblica se mai bisognasse; come oggi, che sì prode uomo consolare è stato in casa sua assassinato da uno schiavo, lasciato fare, non iscoperto: e non è però ancora stracciato il decreto, che tutta la famiglia n’abbia il supplizio. Assolvetela pure; ma chi fia unque difeso da sua dignità se non ci basta l’esser prefetto? Qual numero di schiavi da tanto, se quattrocento non hanno difeso Pedanio Secondo? Cui aiuterà la famiglia, se ora che importa a lei altresì, se ne sta? Essi forse l’ucciditore vendicato (come alcuni hanno faccia di fingere) del non avergli attenuta il padrone la libertà mercatata, qualche gran tesoro paterno, o toltogli uno schiavo de’ suoi antichi? Giudichiamo adunque che ei l’abbia ucciso con ragione.

XLIV. „Consideriamo ora le cagioni perchè i più saggi così determinarono. Ma se noi al presente sopra questo caso avessimo a deliberare per la prima volta, erederemo uno schiavo avere ardito ammazzar il padrone, senza averne sputato prima qualche bottone o minaccia o parola non saggia? Oh e’ non si volle scoprire, nascose l’arme; come poteo egli passar le [p. 66 modifica]guardie, aprir la camera, portar il lume, ammazzarlo che niuno sentisse? Antiveggon bene gli schiavi i ma’ pensieri per molti indizj; scoprendoceli noi potrem vivere soli tra molti, sicuri tra i mal contenti, e (morir bisognando) vendicati tra i traditori. Sospetta ai nostri antichi fu la natura degli schiavi, quando anco nascevano con l’affezione ai padroni nell’istesse case o ville; oggi che ne abbiamo in famiglia le nazioni intere, di leggi e religioni strane o nulle, non frenereste tal feccia d’uomini sè non con la paura. Morranno degl’innocenti. A che quando d’uno esercito vigliacco si trae per sorte de’ dieci l’uno a morir di bastone, n’escono de’ valenti. Ogni grande esempio ha qualche po’ dell’iniquo contro qualcuno, ma è contrappesato dall’util pubblico„.

XLV. Al parer di Cassio niuno ardì contraddir solo; ma uscì un tuono di voci moventi a pietà; del numero, dell’età, del sesso, e la maggior parte, senza dubbio, innocenti. Vinse nondimeno la patte che voleva il supplizio; ma non poteva esser ubbidita per lo popolo ragunato, che minacciava sassi e fuoco. Cesare lo sgridò per bando; e pose soldati per tutta la via, per la quale andaro a morire i cattivi. Cingonio Varrone voleva che anche i liberti, trovatisi in quella casa, si cacciasser d’Italia: al prìncipe non piacque con la severitate accrescer la rigidezza antica, cui non aveva ammollita la misericordia.

XLVI. in quest’anno fu condannato Tarquizio Prisco di rapacità, a stanza de’ Bitini, con gran piacere de’ Padri, che si ricordavano che egli accusò Statilio Tauro suo viceconsolo. Per le Gallie fecero il catasto Q. Volusio e Sesto Affricano, e Trebellio [p. 67 modifica]simo; i primi contendendo tra loro di nobiltà, e schifando Trebellio per compagno, l'ebbero per sopraccapo.

XLVII. Morì Memmio Regolo, per autorità, fortezza e fama, per quanto sotto l'uggia dell'imperio si può, tanto chiaro, che Nerone ammalato, adulando certi, che, mancando egli l'imperio cadrebbe, disse: „Non mancare chi sostenerlo„ Domandando essi: „Chi?„ rispose: „Memmio Regolo.„ E nondimeno lo campò il non s’ingerire, l’avere nobiltà nuova e ricchezza non invidiata. Nerone finì le terme; e donò l'olio a’ Senatori e cavalieri con cortesia greca.

XLVIII. Nel consolato di P. Mario e L. Asinio, il Pretore Antistio, stato, come dissi, licenzioso tribuno della plebe, compose pasquinate contro al principe, e pubblicolle a una cena fattagli Ostorio Scapola. Cossuziano Capitone, rifatto Senatore per favore di Tigellino suo suocero, l'accusò di caso di Stato. Parve rimesso su allora questa legge, perchè non tanto portasse rovina ad Anfistio, quanto gloria all’Imperadore, acciò condennato a morte dal senato, fusse salvato per intercessione del Tribuno. Ostorio testimoniò che non aveva udito niente; e fu creduto a’ testimoni contrari; e Giulio Marullo, eletto Consolo, sentenziò che al reo si togliesse la pretura, e la vita al modo antico. Quando gli altri acconsentivano, Trasea Peto con grande onore di Cesare, ripreso Antistio agramente, disse: „Non tutto quello che merita il reo, doversi, sotto il buon principe, se da necessità non è stretto il senato, deliberare. Capestro e boia esser levati più fa; e per leggi, ordinate le pene da gastigare, senza fare i giudici [p. 68 modifica]crudeli, né i tempi infami. Meglio è, toltogli i beni, confinarlo in un’isola ove la vita a lui proprio fu misera, e al pubblico, esempio grandissimo di demenza„.

XLIX. La libertà di Trasea ruppe il silenzio degli altri, e andarono nel suo parere, di licenza del Consolo; salvo, alcuni pochi, tra i quali A. Vitellio, prontissimo all'adulare, mordace di parole contra i migliori; e a chi mostrava il dente, mutolo come i codardi usano. Ma i Consoli non attentati di fare il decreto del senato, scrissero il suo parere a Cesare, il quale, stato alquanto tra la modestia e l'ira, finalmente rescrisse: „Antistio niente provocato aver di lui mordacemente sparlato: esserne stato a’ Padri domandato il gastigo, e richiederlo delitto sì grave; ma egli, che non avrebbe conceduto il rigore, non vietava la moderanza: rimettevala in loro, e l'assolverlo ancora„. Veduto per tale rescritto lo sdegno manifesto; nè i consoli proposero altramente, né Trasea si rimutò, per la solita fermezza d’animo, e per non ci metter di reputazione: nè gli altri che l'aveano seguitato, si voltarono, chi per non parere di rendere odioso il principe, e i più assicurati dal numero.

L. Per simile peccato ebbe travaglio Fabrizio Veientone, che compose certi libri, intitolati Codicilli, pieni di vituperj de’ sacerdoti e de’ Padri. E più, diceva Talio Gemino accusatore, che egli aveva rendute le grazie del principe e i magistrati. Perciò Nerone prese la causa: ed essendo Veiéntone convinto, il cacciò d’Italia, e comandò che s’ardessero i libri; raccolti e letti mentre si facea con pericolo; licenza poi del tenerli li fece sprezzare. [p. 69 modifica]

LI. Crescevano ogni dì i mali pubblici, e scemavano i rìmedi. Burro morì di spremanzia, che gli enfiò e serrò la gola, o gli fece Nerone ugnere il palato d’olio avvelenato, quasi per medicarlo, come i più dicevano; e Burro, che se n’avvide, venuto il principe a visitarlo, si voltò in là; e domandato, come stesse; disse, „Bene, bene.„ Lasciò in Roma gran desiderio di sè per la memorìa della sua virtù, e per lo paragone di due successori, l’uno buono e dappoco, l’altro scelleratissimo e disonesto. Perchè Cesare diede a’ soldati pretoriani due Generali, Fenio Rufo, per favore del popolo, perchè egli governava l’abbondanza senza farne incetta per sè, e Sofonio Tigellino, andatoli a sangue per le sporche infamia sue antiche e appaiati costumi. Costui che segretario era delle libidini, prese più l’animo del principe. Rufo ebbe buon nome nel popolo e’ tra i soldati; e nocevagli appresso a Nerone.

LII. La morte di Burro abbassò Seneca, perchè le buone arti non avean tanta forza, avendo pentito un de’ capi; e Nerone aderiva più a’ peggiori; i quali assalirono Seneca con varìe calunnie: „Che egli non ristava di accrescere le sue ricchezze grandi, e non da privato; cercava d’aver seguito da’ cittadini; in bei giardini, e ville magnifiche avanzava il principe, niuno bel parladore teneva esserci se non egli; componeva vèrsi tutto dì, poichè a Nerone venne la voglia del poetare; era nimico palese de’ diletti del principe, schernendo sua valentìa nel guidar cavalli, e ridandosi di sua voce quando cantava. A che fine sfutare nella repùbblica ciò che non esce del suo cervello? Nerone oggimai è fuor di [p. 70 modifica]lo; è giovane fatto: lasci il pedagogo: quai maestri migliori che i maggiori suoi?„

LIII. Seneca, che risapeva ogni cosa da quelli che pare avevan qualche zelo del bene, e scantonandolo Cesare ogni di più, gli chiede udienza; e avutàla, cominciò: „Quattordici anni sono, o Cesare, che io fui eletto a indirizzare il gran presagio che tu davi di te: otto, che tu se’ Imperadore: nel qual tempo mi hai ammassati tanti onori e tesori, che alla mia felicità non manca che moderarla. Allegherotti uomini grandi, pari tuoi, non miei: Augusto tuo arcavolo concedè a M. Agrippa il ritirarsi a Mellino; a C. Mecenate lo starsi come forestiero nella città: l’uno compagno nelle guerre, e l’altro affaticatissimo in Roma, avevano avuto di lor gran meriti ampie mercedi; ma io, per tanta liberalità, che ho potuto dare a te altro che studi, per così dire, nutricati all’ombra? i quali mi hanno dato splendore d’aver ammaestrato la tua giovanezza; il che vale assai; ma tu me n’hai renduti favori dismisurati, ricchezza infinita; onde io spesso mi considero, e dico: Io, nato semplice cavaliere, fuor d’Italia, son fatto uno dei primi di Roma! risplendo tra i nobili e pregiati di antichi onori, io nuovo! Dove è quell’animo, già contento del poco, e ora vuole sì bei giardini? vassene per sì comode ville: tanti terreni ha, tanti danari a guadagno? Non risponderò altro, se non che: Io non doveva resistere alle tue liberalità„.

LIV. „Ma ciascun di noi ha colmo il sacco; tu di dare quanto può principe a un amico; io di ricevere quanto può amico da principe. Il soverchio accresce l’invidia, la quale, come tutte le cose mortali, alla tua grandezza sta sotto, e me infragne; [p. 71 modifica]me bisogna sollevare. Si come io, strucco in guerra o viaggio, chiederei aiuto, così in questo cammino della vita trovandomi vecchio, alle cure: ancor leggerissime debole, e sotto il fascio delle mie ricchezze cascante, ti prego che me ne scarìchi e le consegni a’ agenti tuoi come facoltà tua. Non dico di voler mendicare; ma, dati via gli splendori che mi nuocono, quel tempo che si perde nella cura de’ giardini e delle ville darò tutto all’animo. Tu se’ nel sommo vigore: assodato per tanti anni nei governare, noi vecchi amici chiediamo riposo; tu avrai quest’altra gloria, d’aver alzato al sommo quelli che si contentano del moderato.„

LV. A queste cose Nerone quasi così rispose. „Al tuo pensato parlare risponderò improvviso, la tua mercè, che insegnato mi bai l’uno e l’altro; L’arcavolo mio Augusto concedette ad Agrippa e Mecenate riposo dalle fatiche, ma in età che l’autorità sua difendeva questo e tutto ciò, che avesse lor conceduto; e non tolse loro i guiderdoni meritati nella guerra e ne’ pericoli, in che da giovane s’impiegò sempre; nè tu avresti tenuto la spada nel fodero se io fossi stato ìn arme. Ma tu hai, secondo i tempi, con la ragione, consigli e precetti, tirato su la mia fanciullezza e poi la gioventù: questi beneficj tuoi a me dureranno mentre avrò vita: orti, censi e ville, che da me hai, son sottoposti a mille casi; e, quantunque gran doni paiano, molti, che non vogliono quel che tu, ne hanno ottenuti de’ maggiori. Arrosso a nominare que’ liberti che si veggono tanto più ricchi, e che tu da me lo più amato, non sii lo più esaltato„.

LVI. „Ma tu sei di buona età da mantenere a godere lo stato tuo: e io entro ne’ primi arringhi [p. 72 modifica]dell'Imperio; se già tu non tenessi da meno te di Vitellio, che fu tre volte consolo o me di Claudio; ma io non potrei tanto donarti, quanto ha con in lungo risparmio avanzato: Volusio. Anzi se io talora sdrucciolo, come giovane, tu mi reggi e rattieni. Non si dirà che tu mi abbi renduto la roba, per tua moderanza, nè lanciatomi per tua quiete, ma ognuno la darà alla mia avarizia, alla paura della mia crudeltà. E quando tu mi avessi gran lode di continente, non sarebbe da savio fare coll’infamia dell’amico sè glorioso. E qui l’abbracciò e baciò, come nato e usato a coprir l’odio con false carezze. Seneca (conclusion solita dei ragionamenti co’ principi) lo ringraziò; e riformò sua grandezza: levossi le visite, l’accompagnature per la città: usciva poco di casa sotto spezie di malsania o di filosofare.

LVII. Battuto Seneca, poco ci volle ad abbassare Fenio Ruffo, apponendoli l’amicizia di Agrippina. E Tigellino cresceva ogni dì; il quale pensando che le malvagità, per le quali sole era potente, insieme a Nerone più grato, intingendovi anche lui; fantasticò chi gli fusse più di tutti sospetto; e trovò che Silla e Plauto eran dessi, scacciati dianzi, Plauto in Asia, Silla in Proenza. Ricordò quanto erano nobili e vicini alli eserciti, questi d’Oriente, quegli di Germania: „Non tenere essò, come Burro, il piede in più staffe, ma l’occhio alla salute di Neron solo; il quale con la presenza forse poter difendersi dai trattati della città; ma come opprimere i movimenti lontani? A nome di Silla dettatore, aver alzato il capo le Gallie; nè meno sospetti essere i popoli d’Asia, per lo chiarore di Druso, avolo di Plauto. Essere quelli mendico, però arrisicato; e fare il [p. 73 modifica]poco per potere esser tmerario a suo tempo. Questi gran riccone, anche fingere di volersi stare; ma di fare atti da quelli antichi romani. Essersi fatto stoico, cioè arrogante, inquieto, e cupido, di maneggi.„ Non ci volle altro. Silla, il sesto giorno, giunti gli ammazzatori a Marsilia, prima che averne sentore o paura, fu morto a mensa. Nerone, quando vide la testa portatagli, la beffò, che era incanutita innanzi tempo.

LVIII. L’ordine d’uccider Plauto non andò sì segreto; perchè a più era a cuore la sua salute: e per lo spazio del cammino e del mare e del tempo n’uscì fama; e dicevasi, che egli andò a dire a Corbulone, che allora grandi eserciti governava: Che se gli uomini da bene e famosi, si dovevano così ammazzare ei sarebbe il primo; e che l’Asia prese l’arme a favor del giovane; e che i mandati a far l’effetto non furon tanti, nè v’andaron di buone gambe; e poichè, nol poter fare, con lui s’accontarono, cercando nuove speranze: queste cose dicevano e credevano gli sfaccendati. Ma Antistio suo suocero per un liberto di lui, che per vento prospero giunse prima del Centurione, gli scrisse: „Non volesse vilmente morire; starsi a man giunte; raccomandarsi; far increscere del suo gran nome; troverebbe de’ buoni: ragunerebbe de’ bravi; non disprezzasse niuno aiuto; resistesse a sessanta soldati, che tanti Nerone ne mandava; innanzi che ei lo sapesse, e altra, mano venisse, nascerebbero molte cose atte a fargli guerra; potergli in somma qual partito o recar la salute, o nulla peggio di ciò che, standosene, gli avverrebbe.

LIX. Ma Plauto non se ne mosse, o per non isperare così disarmato e in esiglio, alcuno aiuto, o per [p. 74 modifica]non tentar cosa sì dubbia, o per amor della moglie e figliuoli; verso i quali sperava il principe più dolce, niente irritandolo. Alcuni vogliono che il suocero gli mandasse altri avvisi, che non vi era pericolo; e che due filosofi, Cerano greco, e Mursonio toscano, il persuasero ad aspettar anzi la morte con forte animo, che vivere con pericoli e spaventi: Certo è che ei fu trovato ignudo di mezzo dì a fare esercizio. In tale stato il Centurione l’uccise, presente Pelagone eunuco, da Nerone dato, quasi sopraccapo regio, al Centurione e a’ soldati. Quando il principe vide la testa portatagli, disse queste parole: „Orsù, Nerone, che non solleciti tu le nozze di Poppea, ora che que’ terribili che le allungavano non ci son più, e leviti dinanzi Ottavia, se bene modesta, noiosa per quel padre, e per tanto amore del popolo?„ Al senato scrisse, senza confessare l’uccisione di Silla e Plauto, che ambi erano scandalosi, e la salute della Repubblica gli stàva in sul cuore. Per questo conto furon ordinate pricissioni; e Silla e Plauto rasi del senato, con più scherno che danno.

LX. Avuto dunque questo bel decreto del senato, e veduto che le somme sceleritadi passavano per fatte egregi, ne rimanda Ottavia, dicendola sterile, e sposa Poppea. Questa comandatrice di Nerone; lungo tempo concubina, e or moglie, forzò un ministro d’Ottavia a querelarla di tirarsi addosso uno schiavo detto Eucero Alessandrino, sonator di flauti. Le damigelle furon messe a’ tormenti per dire il falso; alcune lo dissero; le più mantennero, la lor padrona esser santa: e una, serrandola Tigellino, gli disse: „Più casta ha la natura Ottavia, che tu la bocca.„ [p. 75 modifica]Fu nondimeno rìmossa, sotto spezie di civile divorzio: e fattole mal uriosi doni della casa di Burro e beni di Plauto; indi confinata in Terra di Lavoro con guardia. Gran compianto e non celato, ne fece il popolo ignorante, e per poco aver che perdere più sicuro. Per questo Nerone, e non punto per rimorso di coscienza, richiamò la moglie Ottavia.

LXI. Salgono in Campidoglio allegri; ringraziano gli Iddìi. Abbattono le statue di Poppea; in su le spalle portano quelle d’Ottavia: spargonvi fiori; pongonle nel Foso e ne’ tempj; lodano il principe; lo benedicono ch’e’ la ripiglia; e già pieno aveano il palagio di moltitudine e di grida, quando più mani di soldati a suon di bastoni, e voltate le punte, gli sbaragliarono oltre via, e rivoltossi ogni cosa: e l’onore perduto per la sedizione ritornò tutta a Poppea; la quale sempre velenosa per odio, e all’ora per paura di più furia di popolo, o che il tanto fervore di esso non rimutasse Nerone, gittataglisi alle ginocchia disse: „Non trattarsi più (a tale esse ridotta) del suo matrimonio, benchè più a lei caro che la sua vita; ma della stessa vita, messa all’estremo da’ criati e schiavi d’Ottavia, che fattisi chiamar plebe, ardivano nella pace quello che in guerra non si farebbe. Contro al principe essersi quell’armi prese; mancatovi solo un capo, che nel garbuglio si troverebbe agevolmente, uscita che fusse di Campagna, e in Roma entrata, colei che fuore a cenni solleva il popolo. Quanto a sè, che peccato avere? chi offeso? Voler forse il popolo romano, in voce di vera progenie, che essa era per dare alla casa de’ Cesari, mettere nell’imperiale altezza la razza d’uno Egizio oriisolatore? E, per conchiudere, chiamasse, se era [p. 76 modifica]per lo meglio, questa sua padrona allegramente, e non per forza, o pènsasse d’assicurarsene con gastigarla da dovero. Quel poco aver posato il primo romore; ma vedendosi Ottàvia non dover esser moglie, di Nerone, le saria ben trovato un marito.„

LXII. Nerone per tali parole diverse, da metter paura e ira, atterrì e s’accese. Ma l’indizio non era verisimile con uno schiavo; e i tormenti delle damigelle l’avean purgato. Parve adunque da trovar uno che lo confessasse, e appicarlesi un altro ferro di cercata novità. Non ci era meglio che Aniceto, che ammazzò la madre, Prefetto, come dissi dell’armata di Miseno; e dopo il fatto cadde in disgrazia: indi in grave odio; perchè la faccia de’ ministri de’ peccati brutti si li impvovera. Chiamatolo adunque Cesare, gli ricorda il primo servigio; averlo egli solo scampato dall’insidiatrice madre; poternegli fare un altro, non minore, di levargli dinanzi l’odiata moglie. Nè averci uopo di mani o armi; confessar d’averla goduta: promettegli premj segreti allora, ma grandi poi e ville amene: negandogli, l’ucciderebbe. Chiama suoi amici, quasi a consiglio; fallo esaminare: egli, sciagurato per natura, e già dirotto nel mal fare, agevolmente confessò, oltre alle dimandate, cose non mai sognate; onde ebbe confino in Sardigna, sopportollo non povero e morivvisi.

LXIII. Nerone bandì che Ottavia corruppe il Prefetto per aver l’armata dal suo, e mandato via i parti, sapendo eran bastardi (dimenticatosi che poco prima la cacciò per isterile); e che tutto aveva toccato con mano. Però la confinava nella Palmarola. Non andò mai alcuna in esiglio con tanto cordoglio [p. 77 modifica]dei riguardanti. Ricordavano alcuni che Tiberio cacciò Agrippina, e Claudio Giulia più frescamente; ma eran donne fatte; avevano avuto dell’allegrezze: il ricordarsi del tempo felice, nella miseria le consolava. A costei il primo dì delle nozze fu di mortorio: entrò in casa lagrimante per lo padre, e tosto per lo fratello, avvelenati: vi poteva più la serva che la padrona: nè per altro che per lei spegnere, fu Poppea sposata; e per ultimo appostole fallo più grave che mille morti.

LXIV. Tenera di vent’anni, messa tra Centurioni e soldati, per certezza di suo male tolta già di vita, non si riposava però nella morte: della quale pochi giorni dopo ebbe il comandamento, benchè dicesse esser vedova e solamente sorella; e invocasse il nome comune di Germanico e poi di Agrippina, che mentre visse, ben fu malmaritata, ma non uccisa. Fu strettamente legata, e segatole le vene: e non uscendo il sangue ghiacciato per la paura, messa in bagno caldissimo spirò; ed essendo a Roma portato il teschio, Poppea, per giunta d’atrocità, lo volle vedere. A’ tempj furon ordinate offerte per tal successo. Dicolo, perchè chi leggerà i casi di que’ tempi scritti da me o da altri, sia certo che per ogni cacciata o morte che il principe comandava, si correva a ringraziare gl’Iddii; e quelli che solevano esser segni di felicità, erano di miseria pubblica. Nè anco tacerò, quando il senato avrà fatti ordini per adulazione novissima o servitù abbiettissima.

LXV. In questo anno si crede che egli facesse morire di veleno due liberti suoi principalissimi, Doriforo, quasi avesse contrariato le nozze di Poppea, e Pallante, perchè col troppo vivere lo teneva del suo [p. 78 modifica]tesoro strabocchevole a disagio. Romano accusò Seneca in segreto di congiura con C. Pisone, ma Seneca rovesciò questo ranno in capo a lui più rovente; onde Pisone impaurì, e nacquene congiura contro a Nerone, grande ma infelice.



fine del libro decimoquarto.