Adone/Canto XIV
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ALLEGORIA
Il travestirsi d’Adone in arnesi da Donna vuole avertirci l’abito molle della gioventú effeminata. L’esser preso da’ ladroni, il fuggire, il poi di nuovo incappare, il dar nelle mani del Selvaggio, e alla fine l’esser fatto un’altra volta prigioniero, può dimostrarci le difficoltá e i pericoli, che si attraversano al godimento della umana contentezza. La morte di Malagorre ucciso da Orgonte ci avisa il giudicio della divina giustizia, che molte volte a punire i malvagi suol servirsi del mezo degl’istessi malvagi. La caduta d’Orgonte ci dinota il fine dove va a parar la Superbia, la qual quanto piú arrogantemente presume d’opprimere altrui, tanto piú profondamente viene a precipitare. Il caso di Filauro e di Filora, che in fin dal nascimento sono accompagnati dalle sciagure, ci disegna la vita travagliata di quegl’infelici orfani, che nascono alle tribulazioni e alle miserie. L’avvenimento di Sido- nio e di Dorisbe, le cui tragiche fortune vanno a terminarsi in alleggrezze, ci rappresenta il ritratto d’un vero e leale amore, che quando non ha per semplice fine la libidine, ma è guidato dalla prudenza, e regolato dalla temperanza e dalla modestia, spesso sortisce buon successo. La severitá d’Argene, la qual pure al compassionevole oggetto de’ loro amorosi accidenti alla fine si placa e muove a pietá, ci significa il rigore del divino sdegno, il qual non può fare di non intenerirsi quando vede patire per bontá
l’innocenza, o dolersi d’aver peccato per debolezza la fragilitá.ARGOMENTO
Ascolta di Sidonio i tristi amori
piú volte preso e liberato Adone.
Condotto a Pafo, e dal gentil Barone
difeso poi, ritorna ai primi errori.
1.Deh come fatta è vile a’ giorni nostri
la milizia, ch’un tempo era sí degna!
Non manca giá chi ben cavalchi e giostri,
né chi con leggiadria l’asta sostegna.
Non vi manca guerrier ch’armato mostri
sovravesta superba e ricca insegna,
non giá per acquistar nel mondo fama,
ma sol per farsi noto a colei ch’ama.
2.Vie piú si studia in cittadina piazza
tra lieti palchi e ben ornate schiere
a far dove si scherza e si sollazza
fregi e divise al popolo vedere,
che sotto grave e ruvida corazza
in campo ad assalir squadre guerriere,
e dimostrarsi in alcun gran conflitto
piú con ardir che con vaghezza invitto.
3.Son forbiti gli usberghi e risplendenti,
tersi gli scudi, e gli elmi luminosi.
Perché non sono ancor chiari e lucenti
coloro che ne van cosí pomposi?
Poveri di riccami e d’ornamenti,
anzi rotti, smagliati e sanguinosi
da gran colpi di stocchi e di quadrella,
quanto oh quanto farian vista piú bella!
4.Quanto fora il miglior spada o bipenne
trattar ne’ duri assalti, o Cavalieri,
che per gioco spezzar fragili antenne,
stancando al corso i Barbari e gl’Iberi?
Che vai gli augelli impoverir di penne
per dispiegar al vento alti cimieri,
s’onor mercando in fra ’l nemico stuolo
non impennate a’ vostri nomi il volo?
5.Vuoisi piú tosto con qualch’atto egregio
onorar l’armi, ed illustrar gli arnesi,
ch’aver con procacciar da quelle il pregio
da rugin di viltá gli animi offesi.
Far devrebbe non men corona e fregio
a color c’han di gloria i cori accesi,
con non men bella ed onorata salma
che l’acciaio e che ’l ferro, alloro e palma.
6.Oggi pochi ha tra noi veri soldati,
che per vero valor vestan lorica.
Calzan piú per fuggir, sproni dorati,
che per seguir talor l’oste nemica.
E con abuso tal son tralignati
da la virtú, da la prodezza antica,
che sol rubando e violando alfine
son le guerre per lor fatte rapine.
7.T a i forse esser devran gli empi villani
che far al nostro Adon vogliono oltraggio.
Non giá tal è il Campion, che da le mani
lo scampa poi del predator selvaggio.
Iva per monti Adone, iva per piani
continovando il misero viaggio,
poi che fuor de’ ritegni, onde fu chiuso,
de la Fata ogn’inganno ebbe deluso.
8.Ma perché da la fame è spinto a forza
e da la sete a desiar ristoro,
tosto de l’aurea noce apre la scorza,
e credenza gli appar d’alto lavoro,
e la sete e la fame in un gli ammorza
vasellamento di cristallo e d’oro,
pien di quanto la terra e ’l mar dispensa:
e non v’ha servi, ed è servito a mensa.
9.Non molto dopo, giunto a la marina,
vide che pur allor per rinfrescarsi
sceso ne l’acqua chiara e cristallina
stormo di villanelle era a lavarsi.
Ciascuna avea di lor ne la vicina
sponda lasciati i vestimenti sparsi;
e tutte a scherzi ed a trastulli intente,
ai panni ed al Garzon non ponean mente.
10.Ei sospettando pur, che Falsirena
dietro gli manderá gente a la pesta,
pensa, che se tra lor Fortuna il mena,
potrá meglio celarsi in altra vesta.
Prende un abito allor da quell’arena,
e perché ’l crin gli è giá cresciuto in testa,
sovra il farsetto póstasi la gonna,
in ogni parte sua rassembra donna.
11.A la spoglia, a la chioma, a l’atto, al viso,
a l’andar, al parlar fallace e finto
chiunque il vede, ha di veder aviso
vaga Ninfa di Menalo, o di Cinto.
Ne la selva ricovra, e quivi assiso
in un pratel di mille fior dipinto,
prende la gemma che nel ricco incastro
fu giá legata da sí dotto mastro.
12.Mira nel sacro anel la cara imago
di lei, ch’ancor per lui tragge sospiri,
e dietro a l’occhio ingordo il pensier vago
fermando in esso, inganna i suoi desiri.
Resta in parte però contento e pago
degli amorosi suoi lunghi martiri,
veggendo almen, che pur da lei si parte
per girne altrove il furioso Marte.
13.Non gli lascia serrar gli occhi dolenti
il folto stuol de le noiose cure;
e volgendo tra sé gli aspri accidenti
de le passate sue disaventure,
la desperazion de le presenti,
e I’aspettazi’on de le future,
per trovar al suo mal qualche consiglio
scaccia ogni requie da lo stanco ciglio.
14.Pur da’ travagli de l’afflitta mente
e del corpo affannato e faticoso
vinto, a forza convien che finalmente
ubbidisca a Natura il cor doglioso.
Cosí malvolentier cede, e consente
a la necessitá d’alcun riposo,
né piú difender gli occhi egri si ponno
dal dolce assalto d’un piacevol sonno.
15.Mentre giace dormendo, ecco il circonda
turba di masnadieri e di ladroni,
gente scherana, errante e vagabonda,
son forse trenta, e son tutti pedoni.
Alcuni di lontan rotan la fionda,
molti soglion da presso usar spuntoni.
Troppo si tien chi di metallo armato
porta in braccio il brocchier, lo stocco a lato.
16.De l’armi e de Tannar son vari i modi,
han camice di maglia, ed han corazze,
adunchi raffi, e piali acuti e sodi
adusti in cima, e cappelline, ed azze.
Tempestati di punte, irte di chiodi
adopran parte e mazzafrusti, e mazze,
ghiaverine e lanciotti, e curve e larghe
le storte a’ fianchi, a’ gomiti le targhe.
17.Viene a tutti davante il Capitano,
capo conforme a compagnia sí fatta.
Malagorre s’appella; è Rhod’iano
di nazione, e di non bassa schiatta.
Piú d’una volta in guerra armò la mano,
ch’a nobil’opre, a grand’imprese er’atta;
ma di vendette cupido e di prede
a l’indegno mestier poscia si diede.
18.Nera e folta la barba, il viso ha bruno,
occhio schizzato e piccolino e rosso,
monca la manca, e senza dito alcuno,
fregiato il naso, ove s’incurva Tosso.
Asciugator di tazze, e del digiuno
mortai nemico, uom sí pesante e grosso
ch’a pena il cape il ruginoso usbergo,
né può portarlo alcun destrier su ’l tergo.
19.La destra tien di lungo spiedo annata,
di cuoio cotto a l’altro una rotella.
Una testa di Lupo ha per celata,
celata insieme e spaventosa e bella,
che la bocca sbarrando ampia e dentata
le fauci formidabili smascella.
L’ispide orecchie, ch’irte in alto stanno,
in loco di cimier cresta le fanno.
20.Appressati costoro al Giovinetto,
che dagli occhi dal sonno ancor sopiti
spirava un dolce e languido diletto,
stupefatti restaro, e sbigottiti,
quasi a la vista di quel primo aspetto
da repentino fólgore feriti.
De l’armi intanto al suon, che tocche e mosse
facean strepito insieme, ei si riscosse.
21.Non s’atterrí (che vago era di morte)
in mirar gente sí feroce e cruda.
— Venite — disse — e con l’estrema sorte
la mia favola lunga omai si chiuda. —
Il Bargel de la squadra, acceso forte
di beltá tanta, alzò la destra ignuda,
e confortollo, e fe’ che si drizzasse,
poi pian pian prigionier dietro sei trasse.
22.Di strada uscirò, e quindi or alto, or basso
tra l’erte piú diffícili d’un monte
giunser, torcendo il calle, a piè d’un sasso,
che d’alte querce ombrosa avea la fronte.
Torre in cima sorgea, cui dava il passo
sovra doppie catene angusto ponte.
Quest’era de’ Ladron la cova e ’l nido,
questo il refugio lor secreto e fido.
i5«
GLI ERRORI
23.D’altri ladri abitanti in questa torre
numerosa famiglia anco s’accoglie,
che cura han de l’albergo, e di riporre
dal Capitan le riportate spoglie.
Ognun l’onora, incontro ognun gli corre
sí come a proprio Re, fuor de le soglie;
ed essaltando il Duce e la Donzella,
lodan di forte l’un, l’altra di bella.
24.Entrato Malagor disse — Compagni,
da ch’io Rhodo cangiai con questo bosco,
uom che non m’ami, o che di me si lagni,
tra voi fin qui non veggio, e non conosco.
Sapete ch’ogni parte ho de’ guadagni
sempr’egualmente accommunata vosco.
Dividendo prigion’, vesti o danari,
sempre trattati v’ho meco del pari.
25.Ché quando elessi una tal vita, e quando
io declinai de’ miei l’alte vestigia,
non tanto a gir fuor de la patria in bando
de l’ór mi mosse l’avida ingordigia,
quanto con atto illustre e memorando
de’ nemici mandati a l’onda Stigia
da fronte a fronte, e sol per valor d’armi,
generoso desio di vendicarmi.
26.Or se non son di mercé tanta indegno,
vi cheggio in cortesia sola costei.
Ben per la potestá, di cui giá degno
mi giudicaste, tòrlami potrei;
ma tolga il Ciel, ch’io nulla aver con sdegno
voglia giá mai de’ famigliari miei.
Da voi terrolla, e sotto i vostri auspici,
quando vi piaccia, io ve ne prego. Amici. —
27.Tutti d’un voto acconsentirò a lui,
e gradir molto il ragionar cortese.
Ei rivolto a colei, ch’era colui,
parlolle affabilmente, e la richiese
a dargli parte de’ successi sui,
de lo stato, del nome, e del paese.
Adon, che vuol celarsi a l’empie genti,
copre con pianti veri i falsi accenti.
28.Dissegli che ’l suo nome era Licasta,
natia del vago e peregrino Alfeo,
che frequentava con la Dea piú casta
del Parthenio le selve, e del Liceo;
e che l’onda solcando orrida e vasta,
per girne a Deio, del profondo Egeo,
l’avea di quella spiaggia in su la costa
tempestosa procella a forza esposta.
29.Fu messo in compagnia libero e sciolto
d’una fanciulla Adone, e d’un donzello,
che nel bosco vicin, non era molto,
fur presi, e tratti a quel medesmo ostello.
Xon si tosto il donzel mirò quel volto
unico, e senza pari in esser bello,
eh’avido d’involarne i rai leggiadri,
prese con gli occhi ad imitare i ladri.
30.Ladri son gli occhi, ed a rubare arditi
van per le strade publiche d’Amore,
e tutti i furti a la beltá rapiti,
per nascondergli ben, portano al core.
Il cor, poi che gli ha presi e custoditi,
fa che d’essi il desio scelga il migliore;
ma quantunque al desio la scelta tocchi,
contento è il cor, se si contentan gli occhi.
GLI ERRORI
IÓO
31.Il fanciul, che non sa ciò che nasconde
di vero e di viril gonna bugiarda,
or i bei lumi, or l’auree chiome bionde
fiso contempla, e cupido risguarda.
Ma quanto mira piú, piú si confonde,
e piú convien che se n’accenda ed arda.
Cosí sviata dietro al cor che fugge,
l’alma si perde, ed egli invan si strugge.
32.Mentre cerca or con gesti, or con parole
scoprirgli di qual piaga ha il core offeso,
Adon ben se n’accorge, e ben si dole
di sua follia, che ’l sesso in cambio ha preso.
Pur se n’infinge, e de’ begli occhi il Sole
gli volge, per temprar quel foco acceso:
ch’a sconsolato cor che vive in guai
anco i finti favor son cari assai.
33.Ma cosí scarso è il refrigerio, e breve,
che tante fiamme a mitigar non vale,
anzi quel van piacer, che ne riceve,
è mantice a l’ardor, cote a lo strale.
Or mentr’ei langue, e si disfa qual neve
a Sole estivo, o pur a vento Australe,
chi sia colei, qual egli siasi, e donde
Adon dimanda, e ’l giovane risponde.
34.— È proverbio vulgar, ch’aver consorti
ne le miserie ai miseri pur giova.
Ma veri non sent’io questi conforti,
che ’l mio mal per l’altrui pace non trova.
Anzi veggendo ch’agli antichi torti
Fortuna aggiunge ognor materia nova,
mentre me piango, e in un di te m’incresce,
nel tuo dolore il mio dolor s’accresce.
35.E se non temess’io che nel tuo petto
la doglia e la pietá degli altrui danni
farebbon forse ancor l’istesso effetto,
parte ti conterei de’ nostri affanni.
Noioso è troppo e tragico il suggetto,
e d’assai gl’infortunii eccedon gli anni;
ma pur tacere almen non si conviene
chi siamo, e qual cagion qui ne ritiene.
36.Abbiamo a la squadriglia infame e ria
la veritá sott’altro velo involta,
ché ben che falsa e mentitrice sia,
lecita è la menzogna anco talvolta,
quando giova a chi mente il dir bugia
e non noce il mentire a chi l’ascolta.
Poria, s’ella del ver fusse avertita,
per occultar il mal, tòme la vita.
37.Oranta, che d’Armenia ebbe il governo,
suora fu di Morasto, il Re d’Egitto,
che ’n compagnia morí di Galiferno,
giá di lei sposo, in un mortai conflitto.
Nel maritai eccidio e nel fraterno
le fu da tanta doglia il cor trafitto,
che gravida disperse ed abortivi
partorí duo gemelli intempestivi.
38.Intempestivo il parto ed improviso
per affanno l’assalse innanzi l’ora,
perché súbito giunto il duro aviso,
i duo teneri infanti espose fora.
E per l’amor del gran marito ucciso
chiamò Filauro l’un, l’altra Filora,
figli di madre afflitta, e padre essangue,
prodotti nel dolor, nati tra ’l sangue.
39.Questi fummo noi duo, che come roti
l’instabil Dea, del mondo agitatrice,
provato abbiam, dal dí che tra’ suoi moti
aprimmo gli occhi al Sol, coppia infelice.
Argene poi, di cui noi siam nipoti,
in vece n’allevò di genitrice,
però che quella in su l’angosce estreme
l’anima avea col parto espressa insieme.
40.Non è gran tempo, che per bando espresso
Cipro intorno mandò publici gridi
ch’a tórre il regno al piú bell’uom promesso
venga chiunque in sua beltá confidi.
La nostra Zia, c’ha pretendenza in esso,
fe’ da Menfi tragitto a questi lidi;
e stimandoci ancor tra ’l popol greco
degni di comparir, ne menò seco.
41.L’altr’ier (però che qui nostro costume
era sovente essercitar le cacce)
per un Cervo seguir, ch’entro nel fiume
spaventato da gridi e da minacce,
perdemmo insieme col diurno lume
de la Fera e de’ nostri in un le tracce.
Cosí smarriti, in altri lacci tesi
fummo di cacciator cacciati e presi. —
42.Tacque, e volendo dir ch’altra prigione
tenea le voglie sue strette e legate,
sospirò sí, che ne sorrise Adone,
e parte di quel male ebbe pietate,
ché giá dotto in Amor, di ciò cagione
ben conobbe esser sol la sua beltate:
beltá, principio e fin d’un gran tormento,
vista, amata, e perduta in un momento.
43.Giá da l’ombrose sue riposte cave,
de la notte compagno, aprendo l’ali,
con lento e grato lurto il sonno grave
togliea la luce ai pigri occhi mortali;
e con dolce tirannide e soave
sparse le tempie altrui d’acque letali,
i tranquilli riposi e lusinghieri
s’insignorian de’ sensi, e de’ pensieri:
34.quando le lor parole al mezo rotte
repente fur da súbito tumulto.
Fracassi d’armi e strepiti di bòtte
ferivan l’aere d’un romore occulto.
Coniusa dal timore e da la notte
va la casa sossovra al novo insulto;
ed ecco allor di quel drappel protervo
viene anelante a la lor volta un servo.
45.Furcillo è questi, un giovane Epirota,
ben degno imitator del buon maestro,
che giá sei volte almeno è da la rota
per gran sorte scampato, e dal capestro.
Segnato tien con indelebil nota
de la bolla reai l’omero destro.
Barro di carte, e fíccator di dadi,
tutti d’ogni bell’arte ha scorsi i gradi.
40.Di Filora la bella, e piú de’ suoi
ricchi ornamenti avea l’alma invaghita.
Venia per violarla, e tòrle poi
con le misere spoglie anco la vita.
Va il mondo a sangue — ei disse — e qui sol voi
seggendo, al mal commun non date aita.
Parlo a te bel Garzon, che pur mi sembri
di forte core, e di robusti membri!
47.Gente comparsa a l’improviso espugna
con terribile assedio il nostro muro.
Non lunge (udite) si combatte e pugna,
e si fa la battaglia a cielo oscuro.
Tuttavia cresce la dubbiosa pugna,
né per voi questo loco è ben securo.
Giá fuor con gli altri tutti è Malagorre
de la vita a difesa, e de la torre. —
48.Se ben solea Furcillo esser mendace,
ciò che narrava allor, tutt’era vero.
N’era Orgonte l’autor, d’Adon seguace,
ch’avea di lui tracciato ogni sentiero.
Ch’ei fusse in preda a lo squadron rapace
non so come sapesse il caso intero.
Di quanto ei fatto avea né piú né meno
da che partissi, era informato a pieno.
49.Di lá passando, ove il medesmo die
vestiti avea ’l fanciul drappi donneschi,
intese il tutto, e da sagaci spie
gli giungean d’ora in ora avisi freschi.
Qual cacciator che per diverse vie
cerca com’augel vago al ramo inveschi,
tenendo sempre insoliti camini,
pervenne a la magion degli assassini.
50.Non era il ponticel levato in alto,
onde con sua brigata entrar vi volle,
ma da’ ladroni opposti al fiero assalto
fu per forza respinto a mezo il colle.
Incominciò di sanguinoso smalto
l’erba a farsi vermiglia, e ’l terren molle;
e i foschi orrori a l’orrido scompiglio
(come il servo dicea) crescean periglio.
51.— Or piú tempo non è da far dimora —
soggiunse il ladro —, ognun pensi a se stesso.
Esseguir mi convien l’ordine or ora,
che di salvar costei mi fu commesso. —
Cosi disse, e per man prese Filora,
che fu costretta a forza irne con esso.
Pianse, e gridò, ma pose freno alquanto
lo spavento del ferro al grido, al pianto.
52.Filauro, in cui per l’acerbetta etade
eran gli spirti ancor debili e infermi,
oltre che fra tant’aste e tante spade
le forze avea d’ogni difesa inermi,
contro quel fier nemico di pietade
fu mal possente a far ripari o schermi,
né seppe altro il meschin che con querele
seguir la vergin mesta, e l’uom crudele.
53.Tal rondine talor, che veggia l’angue
guastarle il nido, e divorar la prole,
e le viscere care e ’l caro sangue
crudelmente lambir, s’afflige e dole.
Tra paura e dolor paventa e langue,
teme accostarsi, e dipartir non vòle,
e con pietoso gemito dolente
l’orecchie assedia a chi pietá non sente.
54.Veduto Adon, fra tanti casi avèrsi,
in quel punto Fortuna essergli destra,
si ch’essendo i ladron tutti dispersi,
rimanea solo in quella casa alpestra,
pigro non fu del tempo a prevalersi,
e salse ove s’apriva alta finestra.
Quindi affacciossi a risguardar nel monte,
e vide in vive fiamme ardere il ponte.
GLI ERRORI
I6t>
55.Avean gli assalitori in quella parte
dove il legno s’incurva in su la fossa,
che molt’acque oziose intorno sparte
raccoglie, e forma una palude grossa,
acceso il foco, onde Vulcano e Marte
la fér tosto apparir fervida e rossa.
Ardea la torre, e de lo stuol rapace
le rapine rapla fiamma predace.
56.Sorge in groppi di fumo il foco al cielo
confuso, e scorre in queste parti e ’n quelle,
poi rompendo de l’aria il fosco velo,
s’allarga e snoda in lucide fiammelle.
Ricovra Cinthia al cerchio suo di gelo,
agli epicicli lor fuggon le stelle,
ché quella teme inaridir gli umori,
queste disfarsi a sí vicini ardori.
57.Per mille bocche, e con ben mille e mille
lingue stridendo e mormorando svampa.
Con acque ardenti ed umide faville
bolle lo stagno, e ’l margin tutto avampa.
Quivi si pugna, e di sanguigne stille
spruzzata ad or ad or cresce la vampa,
che spranghe, ed asse, ed ogni altr’ésca secca
divora, e i sassi morde, e Tonde lecca.
58.Chi da Torlo del ponte in giú trabocca,
chi da la ripa, e nel fossato affonda.
Altri dal ferro, che ’l persegue e tocca,
fugge, e nel foco inciampa, o muor ne Tonda.
Di su la vetta de l’eccelsa rocca,
da cui discopre Adon tutta la sponda,
chiaro il tutto gli mostra a l’aria bruna
lo splendor de l’incendio, e de la Luna.
59.La chioma che, cresciuta, il feminile
uso imitando, in fin al sen gli scende,
disciolta allor, con rozo ferro e vile
tronca quell’ór, che sovra l’ór risplende.
Poi degli stami del bel crin sottile
treccia forte e tenente attorce e stende,
quasi lubrica fune, in linea lunga,
tanto che dal balcone a terra giunga.
60.Ma Malagor, che ’n que’ mortali ardori
la nova fiamma sua serba ancor viva,
né tra l’armi e le furie oblia gli amori,
ripensando a la Vergine cattiva,
per salvarla ove salva i suoi tesori
lascia la zuffa, ed a l’albergo arriva
a punto allor che per l’aurata scala
vede che sdrucciolando in giú si cala.
61.Adon, che ’n preda de l’iniquo Duce
si trova pur, del fier destin si lagna.
Per mano il prende, e sotto dubbia luce
a la valle vicina ei l’accompagna.
In una occulta grotta indi il conduce,
che le viscere fora a la montagna,
dentro i cui penetrali ermi e riposti
i bottini piú ricchi ei tien nascosti.
62.Opra non di Natura è questa grotta,
qual de l’altre esser suol la maggior parte,
ma la man de’ ladroni esperta e dotta,
pur come naturai, cavolla ad arte.
È stretta, obliqua, e diroccata e rotta,
e nel mezo in due parti si diparte.
Scende la prima entrata oscura e bassa
fin dove a l’antro interior si passa.
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GLI ERRORI
63.Tra gli spazii del primo e del secondo
un sasso s’interpon, quasi parete,
acconcio in guisa ch’è leggiero il pondo,
pur che note altrui sien le vie secrete;
ma de lo speco par l’ultimo fondo
a chi trova il confin di quelle mete.
E quest’uscio di sterpi è cosí folto,
che tra le spine ognor giace sepolto.
64.Ne la soglia e ne l’arco è di tal sorte
quel riparo commesso, e fitto in terra,
che non sembra la tana aver due porte,
e s’apre agevolmente e si riserra.
Da indi in lá per strade anguste e torte,
quasi Meandro, si ravolge ed erra,
e poi che molti giri intrica e mesce,
ne la costa del poggio alfin riesce.
65.Riesce in su la balza alpestra ed erta,
d’alni infecondi fertile e di faggi,
colá dove la pietra alquanto aperta,
ma riturata d’arbori selvaggi,
riceve pur dal Ciel di luce incerta
per un breve spiraglio ombrosi raggi,
e da l’un fesso a l’altro il suo gran seno
tiene un miglio di tratto, o poco meno.
66.Fu dentro questa inospita caverna
non so se pur depositata io dica,
ne la maggior profonditate interna,
o sepolta da lui l’amata amica.
Quivi baci e parole insieme alterna,
e molto a consolarla ei s’affatica;
e poi c’ha lo sportel chiuso co’ marmi,
lascia i trastulli, e fa ritorno a l’armi.
67.Filauro intanto, il qual ne l’istess’ora
la sorella e la donna ha in un perdute,
del nome di Licasta e di Filora
fa l’ombre risonar tacite e mute.
De l’una la beltá sospira e plora,
de l’altra l’onestate e la salute;
e fa dentro il suo cor fiero duello
l’amor del sangue con l’amor del bello.
68.Impronta di suggel tenera cera
sí salda in sé non serba e non ritiene,
come un cor giovenil de la primiera
beltá l’effigie, ov’a scontrar si viene.
Costui del primo amor la viva e vera
sembianza impressa ha nel pensier sí bene,
che non vai del bel foco, ond’egli avampa,
altro accidente a cancellar la stampa.
69.Mentre che per la selva erra e s’imbosca
desperato e dolente in questa guisa,
incontro a sé venir per l’ombra fosca
vede persona che non ben ravisa,
e possibil non è ch’ei la conosca,
se ben intento assai l’occhio v’affisa,
ché lontano è l’oggetto, e l’aria oscura:
ma per lemina pur la raffigura.
70.L’attese, e poi che donna esser s’accorse,
con cor tremante avicinossi a quella.
Se sia Luna o sia l’altra è ancora in torse,
alfin conosce pur, ch’è la sorella.
Con qual affetto ad abbracciar la corse,
con quai segni d’amor l’accolse anch’ella,
con quai baci iterati, e con quai sensi,
chi può dirlo e pensarlo il dica e ’l pensi.
71.La Giovane al fratei conta piangendo,
poi c’ha l’anima alquanto in sé raccolta,
come fu tratta entro il burrone orrendo
d’una foresta desviata e folta,
lá dove seco il mascalzon volendo
trarsi la voglia scelerata e stolta,
gli fu per non pensata alta ventura
interrotto il piacer da la paura:
72.perché di genti e d’armi intanto udissi
repentino romor giú per la valle,
onde villanamente egli fuggissi,
ed a loro ed a lei volse le spalle;
e ch’ella, poi che il traditor partissi,
per lo piú destro e men segnato calle,
timida di duo rischi, in fretta diede
la chioma al vento, ed a la fuga il piede.
73.L’egro Garzon, ch’occultamente avea
d’amorosa ferita il sen piagato,
e giá Torme del cor seguir volea,
che dietro a chi ferillo era volato,
disse: — Di questa gente infame e rea
arde la casa, e ’l bosco è tutto armato;
né ben securi siam di novo inciampo,
se non si studia a procacciar lo scampo.
74.Buon sará dunque alcun riposto loco
cercar tra queste piante e questi sassi,
dov’io fin ch’a spiar vada del foco
e del ferro i successi, almen ti lassi.
Tu lá m’attenderai, ch’a te tra poco
ritornerò con ben veloci passi. —
Mentre parla cosí, vede non lunge
la spelonca de’ ladri, onde soggiunge:
75.— Questa mi par per breve spazio stanza
commoda ed oportuna al tuo soggiorno.
Cara suora, se m’ami, abbi costanza
infino al venir mio, ch’io parto e torno. —
Cosi le dice, ed ella ogni baldanza
perdendo, e scolorando il viso adorno,
stupida resta, e conturbata tanto,
che risponder non sa, se non col pianto.
76.Pur rivolgendo in lui gli umidi rai,
lo stringe con dolcissime ragioni.
— Frate — dicea la misera —, tu vai,
e tra fere mi lasci, e tra ladroni:
e mi predice il cor, che piú giá mai
non t’ho da riveder, se m’abbandoni.
Se non senti pietá del mio dolore,
murato hai ben di rigid’Alpe il core! —
77.Con lo sprone e col fren fan lite in lui
Natura, Amor, desire, e tenerezza.
Ma convien che costei ceda a colui,
che di ragione ogni ritegno spezza;
né cura aver de la sorella altrui
può chi la propria madre anco disprezza.
Sí dopo molte alfin lagrime sparte
al Ciel la raccomanda, e si diparte.
78.Come s’allor che piú spedito corre
per l’Olimpica polve o per l’Elea,
tra via carro si schioda, e viensi a sciorre
una de le due rote onde correa,
arresta il moto, e vedesi scomporre
la gemina uni’on che ’l sostenea:
gemono gli assi, e sotto il duro intoppo
va serpendo il timon spezzato e zoppo:
79.cosí rimase allor senza l’aita
del buon german, che se ne giá ramingo,
pallida, lagrimosa, e sbigottita
la Verginella in quell’orror solingo.
La Scaramuzza intanto era inasprita,
e Malagor, tornato al fiero arringo,
tra’ suoi si mise, e diede in apparire
vergogna ai vili, agli animosi ardire.
80.Nel cominciar de la battaglia un pezzo
vantaggio ebbero ai Bravi i Farinelli,
de’ quai ciascuno era gran tempo avezzo
in quel sito, ove gli altri eran novelli;
e le vite vendendo a caro prezzo,
si difendean da questi assalti e quelli.
Saltando or macchie, or fossi, or pruni, or selci,
scudo si fean de’ frassini e de Felci.
81.Il Signor de la ciurma alza la spada,
e comincia a ferir colpi sí duri,
che la rupe ne trema, e la contrada,
e temon d’appressarlo i piú securi.
Fère Armonte il primier, che non vi bada,
qual uom ch’altrove intenda, o poco il curi;
ma mentre al suon del ferro il volto ei volse,
tra la fronte e le ciglia il colpo il colse.
82.La fibbia gli tagliò, che de le ciglia
con gli squamosi muscoli confina,
onde ferí la fronte (oh meraviglia)
e la luce ammorzò ch’era vicina.
Tronca del destro gomito a Scarmiglia
la chiave, e ’l braccio in giú mozzo ruina.
E da la spalla in un medesmo instante
a la forca del petto apre Mimante.
83.L’elmo e ’l capo a Tricosso in un divide,
e di vita e d’orgoglio in un l’ha privo.
E per la schiena Dragonetto uccide,
mentre corre anelante e fuggitivo.
Il ferro poi, che lampeggiando stride,
lá dov’è Tuoni piú palpitante e vivo
cacciando a Bricco entro la poppa manca,
le latebre de l’anima spalanca.
84.Ne la noce del collo ha d’un riverso
còlto Squarcon con furia e forza tale,
che quinci il busto al suol cade converso,
quindi il teschio per l’aria in alto sale.
Di fendente a Creúso è per traverso
presa del cinto la misura eguale,
sí che ben mostra altrui qual ira n’abbia
tra le viscere aperte il fiel ch’arrabbia.
85.Trovavasi di qua poco lontano
Armillo il cacciatore, Armillo il bello,
Ciprioto non giá, ma Soriano,
Ganimede secondo, Adon novello.
Mentr’ei con l’arco e le saette in mano
questo guerrier va provocando e quello,
a Tarmi, agli atti, al viso ed a le membra
(tranne la benda e Tali) Amor rassembra.
86.Avealo il gran Tiranno di Soria
mandato in don pur dianzi al Re d’Ormusse,
perché l’alta beltá, che ’n lui fioria,
del Serraglio reai delizia fusse.
Ma rotti e morti i condottier tra via,
lo stormo predator seco il condusse.
Tratto ei poi da l’amor del vii guadagno,
s’era lor di prigion fatto compagno.
87.Vaghezza piieril (si come è l’uso
de’ fanciulli inesperti) in pugna il mena.
Non avea questi il quarto spazio chiuso
de la stagion piú fresca e piú serena,
però ch’avea del debil filo al fuso
Cloto sedici giri attorti a pena;
né gli segnava ancor poco né molto
vestigio pur di nova piuma il volto.
88.Semplicetto credea, lá tra le schiere,
dove l’ira e ’l furor fère e minaccia,
quel trastullo trovarsi, e quel piacere,
che per le selve avea trovato in caccia;
e che ’l seguir de le fugaci fere
co’ cani a lato e ’l dardo in man la traccia
non fusse ardir men coraggioso e forte,
che ’l girne in campo ad affrontar la morte.
89.Il fianco e ’l tergo ha senz’altr’armi armati
d’una pelle di Lince oscura e bianca.
Gli è cuffia il teschio, e pendon d’ambo i lati
con l’unghie intere e l’una e l’altra branca.
Duo di fiero Cinghiai denti lunati,
un da la destra parte, un da la manca
gli escono innanzi, e con due fibbie stretto
gli fan vago fermaglio in mezo al petto.
90.A que’ sembianti angelici diventa
qual piú rigido cor molle e cortese.
Trattiene i colpi, e con man lieve e lenta
schermo si fa da l’innocenti offese.
Ma ’l Garzon piú s’inaspra, e piú s’aventa
tra le piú dubbie e men secure imprese;
e chi gli cede irrita, e di chi ’l mira
contro se stesso e sua beltá s’adira.
91.Melanto nato al freddo Tronto in riva
lá tra l’Alpe Picena e la Peligna,
suo curator, suo difensor veniva,
e seco in un facea l’erba sanguigna.
Per la calca maggior questi il seguiva,
e fermando talor l’asta ferrigna,
volgeasi a rimirar quai piú mortali,
de l’occhio o de la man, fusser gli strali.
92.Or davante, or da tergo, ed or da’ fianchi
gli lasciava i guerrier feriti e vinti,
perché gli avanzi suoi storditi e stanchi
fusser da lui con minor rischio estinti.
In cotal guisa, ove i piú fieri e franchi
segnalarsi vedea di sangue tinti,
le fatiche scemando al bel fanciullo,
di spianargli la strada avea trastullo.
93.Cosí strozziero a l’aghiron talora
spuntando il lungo rostro e i curvi artigli,
al falcon giovinetto, e non ancora
uso a le cacce, agevola i perigli.
Cosí Leon, traendo al bosco fora
de l’aspra cova i non chiomati figli,
Caprio o Torel, cui di branar disdegna,
lor mezo ucciso a divorare insegna.
04.Va tra’ nemici Armillo, e l’arco tende,
ch’è di fin or pomposamene adorno,
e ’l cordone ha di seta, e tutto splende
di sottil minio e di lucente corno.
Con la manca nel mezo il nervo prende,
ed al dritto de l’occhio il gira intorno,
con l’altra il laccio tira, e fuor del legno
fa guizzar l’asta, ed accertar nel segno.
95.Or chi può dir, quanti da te fur morti,
baldanzoso donzel, prodi guerrieri?
Ferracozzo fu il primo, un de’ piú forti
partigiani d’Orgonte, e de’ piú fieri;
e ben volgea, se non volgea si corti
i suoi stami la Parca, alti pensieri,
ma gli passò crudel saetta ed empia
tutto il cervel da l’una a l’altra tempia.
96.Poi vide Orcan, che la sua fame ingorda
pascea di strage, e facea prove eccelse,
e d’ostil sangue distillante e lorda
la scimitarra avea fin sovra l’else.
Tosto per porlo in su la tesa corda,
e commetterlo a l’aure, un strale ei scelse,
e torcendo il gagliardo arco leggiero,
fe’ d’una Luna scema un cerchio intero.
97.Volea gli accenti allor trar de la gola
l’altro, e scior contro lui la lingua irata,
quando in aprir la bocca, ecco che vola
a chiuderla al meschin la morte alata,
e la vita in un punto e la parola
per mezo il gorgozzuol gli fu troncata.
La voce intanto in fra le fauci mozza
gorgogliava bestemmie entro la strozza.
98.Vólto a Bravier, con quanta forza ei potè
lo strai pungente in su la noce incocca,
poi la fune a sé trae fin su le gote,
scaglia la canna, e sovra ’l braccio il tocca.
Nel pesce a punto il calamo il percote,
col pasmo a terra il poverel trabocca.
Egli noi cura, e palpitante il lassa,
indi sovra Cerauno ardito passa.
99.Aveva allor allor spogliato e scarco
d’alma e d’armi in un punto e Vespa e Grillo,
quando segnollo e come fera al varco
l’attese e giunse il faretrato Armillo.
Con l’arco in pugno, e con lo strai su l’arco
di traverso nel fianco egli ferillo.
Quei cadde in giú rivolto, e la saetta
scrivea note di sangue in su l’erbetta.
100.Sovragiunge a Guizirro un altro strale,
ed apre, aprendo al caldo umor l’uscita,
ne la guardia del cor, viva e vitale
officina del sangue, ampia ferita.
Passa la manca costa oltra quell’ale
che ministran col moto aura a la vita,
e nel centro del petto a fermar viensi,
dove il trono han gli spirti, il fonte i sensi.
101.Furfasso il gran guercio, in fra lo stuolo
piú d’un bandito a piè si tenea morto.
E’ non avea costui ch’un occhio solo,
e questo ancora il volgea torvo e torto.
Piega l’arme bicorne e manda a volo
anco una freccia il Sagittario accorto,
freccia, ch’eguale al fulmine congiunte
in sé torte ed aguzze avea tre punte.
102.Dal tridente mortai, che per la cava
conca de l’occhio oltre la coppa il fíede,
colui del lume onde la fronte ornava
orbo rimane in tutto, e piú non vede.
Pur mentre il sangue il volto e ’l sen gli lava,
drizza vèr lá, dond’uscio ’l colpo, il piede,
e corre, e grida, e porta in man due spade:
ma in un’asta caduta inciampa e cade.
103.Saetta il fier Garzon dopo costoro
Lupardo il nero, e Serpentano il brutto,
e Tigrane il crudele aggiunge loro,
ch’avea de’ buon gran numero distrutto.
Piovono a mille le quadrella d’oro,
scompigliato ne sona il bosco tutto;
né qui s’affrena ancor l’animo audace,
né riposa la man, né l’arco tace.
104.Giá la faretra omai di dardi ha vota,
e ’l braccio quasi indebolito e lasso,
quand’ecco il fiero Orgonte, eecol che rota
la spada a cerchio, e s’apre intorno il passo.
Fermo l’aspetta, e con lo sguardo il nota,
poi trae l’ultimo strai fuor del turcasso
ed accelera il piede ov’empia sorte
il fa quasi volar contro la morte.
105.Presto, ovunqu’egli vada, al suo soccorso
Melante il segue pur, né l’abbandona:
e come il vede in si gran rischio, il corso
colá súbito volge, e gli ragiona:
— Raccogli omai, fanciul malcauto, il morso
a l’ardir, che tropp’oltre oggi ti sprona.
Orme fin qui del tuo valor lasciasti
fra’ nemici assai chiare, or tanto basti. —
106.E quegli a lui: — Deh quest’altier, che tanto
spaventa altrui, consenti almen ch’assaglia.
Non mi disdir ch’io ’l provi, e provi quanto
(poi che in vista è si fiero) in fatti ei vaglia.
Di ciò ti prego sol, caro Melanto,
non cheggio dopo questa altra battaglia.
Se vincerò, tu mio fedel custode
n’avrai Tarmi e le spoglie, ed io la lode. —
107.Ciò detto il lascia, e per l’orribil mischia
dove Orgonte combatte, in fretta giunge,
ed aventa lo strai, che stride e fischia,
ma ’l bersaglio ove va, punto non punge.
Contro il meschin, ch’oltre l’etá s’arrischia,
la vista gira, e guatalo da lunge:
indi s’accosta, e con sorriso acerbo
cosí ’l motteggia il Barbaro superbo:
108.— Deh fino a quando esser potrá che tardi
a rincontrar ciò che ’l tuo cor desia,
sí ch’uom la morte, che d’aver tant’ardi,
fanciulletto importuno, alfin ti dia?
Or io non vo’ che piú gli altrui riguardi
facciano insolentir tanta follia.
So che per te miglior fora la sferza:
ma la mia spada ancor talvolta scherza. —
109.Tacque, e con lui si strinse: e quei smarrito
quando mirò la spaventosa fronte
vòlse fuggir, ma nel sanguigno sito
smucciò col piede, e sdrucciolò dal monte.
Sovra gli va di rabbia infellonito,
e giá di sangue innebriato Orgonte.
Melanto il vede, ed al Garzon caduto
corre per dar nel gran periglio aiuto.
110.Ma perché quel crudel mostro inumano
giá l’ha giunto in un salto, e giá gli ha presa
la chioma d’or con la sinistra mano,
e l’altra per ferirlo alzata e stesa,
ed ei non può, per esserne lontano,
a tempo ritrovarsi a la difesa,
gitta la spada, e dá di piglio a l’arco,
e giá l’ha teso in un momento, e carco.
111.O la fretta soverchia, o il caso rio
da la mira lo strai travolse e torse:
si che del fido amico il colpo pio
del fier nemico il colpo empio precorse;
del nemico, che pur s’intenerio,
ed era di ferirlo ancora in forse:
e forse piú da presso avendo scorto
quel bel viso gentil, non l’avria morto.
112.Tassa il cuoio macchiato a nero e bianco,
spinto dal braccio de TArder gagliardo,
e fiede al caro Armillo il miglior fianco
il disleale e dispietato dardo.
Quei la man bella in su ’l costato manco
si pone, e dice a l’uccisor col guardo:
— Io moro (ahi crudo) ma la tua saetta
porta insieme l’offesa, e la vendetta. —
113.Come fonte talor limpido e puro,
dove il piè sozzo il zappador si lavi,
o come bel giardin, cui l’aspro e duro
rastro de l’arator fieda ed aggravò,
cosí del volto pallido ed oscuro,
cosí de’ torbidetti occhi soavi,
e secchi e spenti da’ mortali oltraggi
languirò i fiori, e s’offuscaro i raggi.
114.Sospende il ferro, e vòlgesi a Melanto
pien di disdegno Orgonte, e di fierezza:
e vede che ’l gran duol gli ha tolto il pianto
a lo sparir di quell’alta bellezza,
e de la piaga involontaria intanto
l’arco ingrato ministro a terra spezza:
la destra errante, al suo diletto infida,
si morde: e brama pur ch’altri l’uccida.
115.In un punto al meschino ardono il petto
due fiamme, anzi due Furie, Amore ed Ira.
Quello il move a pietá del Giovinetto,
questa in se stesso a vendicarlo il tira.
Ma mentre la sua mente un doppio affetto
or quinci or quindi irrisoluta aggira,
dal busto il capo Orgonte ecco gli scioglie,
e dal dubbio e dal mondo insieme il toglie.
116.Chi descriver poria l’insana rabbia
di quel prodigio orribil di Natura,
tra quanti mai la terra armati n’abbia
mostruoso di forze e di statura?
Fumo le nari fuor, schiuma le labbia
gittan, che ’l del seren turba ed oscura,
e quell’alito ardente ed arrabbiato
è foco, è fiamma, è folgore, non fiato.
117.Quasi vento il crudel va furiando,
e piovendo di sangue aspre tempeste.
Fioccano i colpi, ovunqu’ei vien passando,
grandinan d’ognintorno e braccia e teste.
Tuona col grido, e fulmina col brando,
sono i fulmini suoi piaghe funeste:
e freme, e stride, e soffia, e sbuffa, e spira
procelle di furor, turbini d’ira.
118.Cinta d’un mar vermiglio, in alto sorge
del corpo giganteo l’isola viva.
Volpino il mira, e perché ben s’accorge
di ciò che fia, se quella man l’arriva,
cacciasi in fuga; ei che fuggir lo scorge,
ratto il prende a seguir lungo la riva,
e minacciando il va con questi detti:
— Mal se mi fuggi, e peggio se m’aspetti. —
GLI ERRORI
I«2
119.Tra le piante piú folte, e colá dove
lo stuol de’ fidi amici era piú spesso,
per campar da la morte il passo move,
ma la spada crudel gli è molto appresso;
quand’ecco il ferro, che calava altrove,
l’incauto Truffarei prende in se stesso,
Truffarei, ch’illustrò col nascimento
per infamia immortai Crati e Basento.
120.Questi in pace vie piú che per battaglie,
con man sottili e di rapina ingorde
sa, meglio ch’adoprar spade e zagaglie,
trattar chiavi, e trivelle, e scale, e corde.
Porta ognor seco, ovunque va, tanaglie,
grimaldelli, acque forti, e lime sorde;
e di rubar con sua destrezza tanta
le stelle al Ciel, la luce al Sol si vanta.
121.Iva, pur troppo in sua malizia sciocco,
spogliando i morti, ond’era pieno il fosso,
e per tórre a Giaffer la banda e ’l fiocco,
ch’eran di seta e d’or, s’era giá mosso,
quando dal fiero inaspettato stocco
irreparabilmente ei fu percosso.
— Ladron — gli disse Orgonte — io non t’incolpo,
vántati pur che mi rubasti il colpo! —
122.Torna a seguir Volpino, e non si stanca
tanto che ’l giunge e per le reni il passa.
Fende a Ronciglio la mascella manca,
l’ascella destra a Rampicon fracassa;
a Cavicchio, a Fregusso il seno e l’anca,
l’un quasi estinto, e l’altro estinto lassa.
Folchetto atterra poi, che cade e langue,
mordendo il suolo, e vomitando il sangue.
CAXTO DECIMOQUARTO
IS 3
123.Duo germani eran qui. Trinco e Trifemo,
da la natura l’un, l’altro dal caso,
privo giá quei del posolino estremo,
questi del destro Sole orbo rimaso.
Tronca egli il naso a quel che l’occhio ha scemo,
e scema l’occhio a quel c’ha tronco il naso.
Cosí sa, cosí suol con egual sorte
ogni disagguaglianza agguagliar Morte.
124.Rotte, malconce, dissipate e sparse
di Malagorre omai le genti sono,
onde pian pian cominciano a ritrarse,
e poi prendon la fuga in abbandono.
— Volgete il viso! — ei che di sdegno n’arse
gridò con fiero e minaccevol suono;
né pertanto a fuggir son giá men tardi,
però che ’l tergo è il viso de’ codardi.
125.Quando il feroce alfin mira que’ pochi
de le reliquie sue sgombrar le piagge,
e ’ncenerite da’ nemici fuochi
le sí superbe giá case selvagge,
e che gli aiuti suoi son scarsi e fiochi,
e che l’impeto altrui seco nel tragge,
va bestemmiando in suon rabbioso e rio,
il Cielo, e ’l Sole, e la Natura, e Dio.
126.Fugge il ladron, ma la terribil faccia
volge, e sí del suo piè la fuga è lenta
che fa spesso fuggir chi ’l segue e caccia,
e per forza mortai non si sgomenta.
Ancor cedendo il fier pugna e minaccia,
e spaventato in vista, altrui spaventa:
e fugace, e seguito, e combattuto
è tal, che ’l suo timore anco è temuto.
127.Gli entra un pensier, pur tuttavia fuggendo,
barbaro ne la mente, e desperato.
Di perder certo, né soffrir potendo
ch’altri abbia a posseder l’acquisto amato,
punto da gelosia, toma correndo
a la grotta, ove dianzi ei l’ha lasciato,
e viene in su la bocca allora allora
ad incontrar la misera Filora.
128.Filora in su l’entrar del cavo speco
guidollo a ritrovar crudo destino,
e da l’ombre abbagliato e fatto cieco
dal furor de la rabbia, e piú del vino,
del vin, che tolto a un navigante Greco
bebbe quel di soverchio il malandrino,
prestando fede al feminile arnese,
in cambio di Licasta egli la prese.
129.Senz’altro dire allor la spada strinse,
e nel bel seno il perfido l’ascose,
e ’l vivo latte arrubinando tinse
di calde porporette e rugiadose.
Degli occhi il lume in un balen s’estinse,
e de le guance impallidir le rose.
Ella giacque gemendo, e senza moto
lasciò l’anima ignuda il corpo vóto.
130.Ciò fatto, qual pietoso angue d’Egitto,
ch’uccide altrui, poi si lamenta e dole,
tra se stesso piangendo, e forte afflitto
del suo ecclissato e tramontato Sole,
in un vicin sepolcro il vel trafitto
(giá de’ Regi di Cipro antica mole)
prestamente trasporta, e quivi il serra:
poi con rabbia maggior ritorna in guerra.
131.Torna di pieno corso ove distrutta
vede sua gente, e ratto oltre si spinge.
Trova Orgonte che ’n vista orrida e brutta
di quel sangue villan la terra tinge,
e dal pome a la punta ha rossa tutta
quella ch’ai fianco s’attraversa e cinge:
la qual tra i foschi orror rassembra quella
che vibra in Ciel la procellosa stella.
132.Trovata avea pur dianzi al muro appesa
de’ capelli d’Adon l’aurea catena,
e ’n pegno di vendetta a l’alta offesa
per un messo mandata a Falsirena.
Or seguitando l’ostinata impresa,
vien per la via ch’a la spelonca il mena,
né lascia in pago de’ suoi molti estinti
d’insuperbir, d’incrudelir ne’ vinti.
133.Ed ecco in Malagor quivi s’abbatte,
che ’l piè rivolge da l’infausta buca,
e ben di quelle squadre omai disfatte
chiaramente comprende essere il Duca.
Quei gli s’aventa allor di fianco, e ’l batte
d’un gagliardo mandritto in su la nuca,
ma la tempra de l’elmo adamantina
manda in pezzi la spada, ancor che fina.
134.Spezzato il ferro al suol cade, e reciso,
e sol l’impugnatura in man gli resta.
Ride il Gigante, ma somiglia il riso
di Cometa crudel luce funesta:
un Mongibello ha di faville in viso,
alza la sua, poi nel ferir l’arresta,
e dice — Or or di noi vedrem la prova,
chi con polso migliore il braccio mova!
iS6
GLI ERRORI
135.Ma pria che ’n polve ben minuta e trita
io mandi Tossa, e dia la polve al vento,
se mi dirai dov’è colei fuggita,
ch’io son piú giorni a seguitare intento,
esser potrá ch’a toglierti di vita
alquanto il furor mio caggia piú lento. —
Malagorre a quel dir contro la guancia
del brando rotto il manico gli lancia.
136.Ed oltracciò fra l’indice e ’l mezano
per beffa il primo dito in mezo accolto,
stendendo verso lui la destra mano,
gli dice — Or togli — e spútagli in su ’l volto.
Per tórre indi un forcon si cala al piano,
e perché teme intanto esserne còlto,
solleva il moncherin de la sinistra,
de le difese sue debil ministra.
137.Ché ’ncontro a quel furor tremendo e crudo
schermo non è, ch’a ricoprire il vaglia:
né gli varria, s’avesse anco per scudo
di triplicato bronzo ampia muraglia.
Giá piombando d’Orgonte il ferro ignudo,
tutto per mezo Tosso il braccio taglia;
rotto l’arnese poi, che lo ripara,
sovra l’omero scende, e ’n due Io spara.
138.Non bel concerto di dentato ingegno,
misurator del tempo, unqua si vide,
mentre il girar con infallibil segno
e de Tore e del Sol mostra e divide,
se talvolta gli stami, ond’han sostegno
i suoi pesi piombati, altri recide,
del volubile ordigno a un punto immote
fermar sí ratto le correnti rote:
139.come poi ch’ai fellon tronco è repente
dal ferro il filo a cui la vita attiensi,
pèrdon la forza i nervi immantenente,
mancano al core i moti, al corpo i sensi:
lasciano estinta ogni virtú vivente
de l’estremo dolor gli eccessi immensi,
caggion le membra, e l’alma si dissolve,
e i languid’occhi ombra mortale involve.
140.Morto il Ladron, la cavernosa pietra
ricerca Orgonte, e nulla entro vi sceme.
Non però da l’inchiesta il passo arretra,
e innanzi va per qualch’indizio averne.
Passa il primo sogliar, ma non penetra
ne la seconda de le due caverne:
ch’oltre il gran muro, che ’l camin gli chiude,
un altro inganno il suo pensier delude.
141.Il buon Motor de la seconda stella,
che sa ben dove il Giovane si cela,
per sottrarlo al gran rischio, Aracne appella,
ch’ordisce in un momento estrania tela,
e con meravigliosa arte novella
s’attraversa per mezo, e ’l varco vela:
e ’l vel sí dense ha le sue fila industri,
che par tessuto giá di molti lustri.
142.Orgonte, che ’l lavor ritrova intero,
né sa l’aguato de l’occulta via,
né creder può ch’alcun per quel sentiero
senza stracciar le reti entrato sia,
de l’antro fuor fuliginoso e nero
ritorna indietro, e pur ricerca e spia.
Lo circonda, lo squadra, e lo misura
fin dove a sboccar va l’altra fessura.
GLI ERRORI
l88
143.Una misera Vecchia appo il forame
ch’esce a quest’altra banda, in terra siede,
dove d’api selvagge un folto essame
ronzando intorno, ir e tornar si vede.
A costei, che ’l ritratto è de la Fame,
del fugace Garzon novelle chiede;
a costei, ch’è sí scarna e contrafatta,
che di radici d’arbori par fatta.
144.Trema, e con un parlar confuso e roco
non rende per timor chiara risposta,
se non ch’ai fiero Orgonte addita il loco
dov’è sbucata la sassosa costa,
la cui bocca di fuor si scorge poco,
tutta fra bronchi e lappole nascosta.
Quegli allor la rincalza, e minacciando
dritto le pone in su la vista il brando.
145.Ella, il cui spirto languido e meschino
debilmente reggea le membra lasse,
a pena il ferro folgorar vicino
vide, che senza pur ch’ei la toccasse,
da l’insolito lampo e repentino
mortalmente atterrita, un grido trasse,
e fuor del petto essangue e spaventato
di súbito essalú l’ultimo fiato.
146.Per farne scherno allora un con la ronca
d’umano sangue ancor macchiata e sporca
d’una rovere annosa il ramo tronca
sí ch’a guisa d’uncin s’incurvi e torca,
e ben acconcia a lato a la spelonca
col suo groppo corrente e fune e forca,
v’appende, e pender lascia, orrido pondo,
de la povera Vecchia il corpo immondo.
147.Tien certo che lá dentro Adon s’appiatti
Orgonte, e pensa pur come lo scopra.
Vássene al buco, ove gran tempo fatti
han Tapi industri i casamenti sopra.
Fa che ciascun de’ suoi la zappa tratti,
e chi la pala, e chi la marra adopra,
stromenti che quel di dopo i lavori
quivi lasciati avean gli agricoltori.
148.Le pecchie allor, ch’a lavorare il favo
stavano travagliando entro i covili,
quando picchiar sentirò il sasso cavo
da vomeri, da vanghe, e da badili,
s’aventaro a lo stuol perverso e pravo
con spine acute e stiinuli sottili,
e con tal furia e tanta stizza uscirò,
che n’uccisero molti e ne ferirò.
149.Ma quantunque salvatiche e superbe
trafigessero lor le mani e ’l volto,
il mal però de le punture acerbe
appo il danno maggior non parve molto.
Sparsesi il mèl, che di pestifer’erbe
e di fior velenosi era raccolto,
e quei che da’ ladron non fur distrutti,
gustando quel licor, moriron tutti.
150.Orgonte sol, vie piú che mai feroce,
passa ove l’erba il gran pertugio occupa,
e fa d’orrenda e formidabil voce
la voragin sonar profonda e cupa.
Ma giunto al vado occulto, entro la foce
del rúinoso baratro dirupa,
e con scoppio terribile e rimbombo
vien d’alto in giú precipitando a piombo.
151.Non la bombarda, eccesso de’ tormenti,
non il monton cozzante e furibondo,
non il furor de’ piú crucciosi vènti,
non il fragor de l’Ocean profondo,
non il fulmin terror degli elementi,
non il tremoto scotitor del mondo,
non d’Etna o d’Ischia il fremito e ’l fracasso
si pareggi al romor che fe’ quel sasso.
152.Cadde, e con tal subbisso in giú portollo
il grave peso de le membra vaste,
che fiaccandosi in pezzi il capo e ’l collo.
Tossa tutte lasciò lacere e guaste.
Ditelo voi, se vi crollaste al crollo
selve, e voi fere se ’l covil lasciaste,
se lasciaste per tema augelli il nido
al suon de la caduta, al tuon del grido.
153.Parve tuono il suo grido, e parve telo,
e con strepito tal l’aure percosse,
che sparso il cor di timoroso gelo
dal suo gran seggio il gran Motor si mosse,
temendo pur, non da la terra il Cielo
fuor d’ogni usanza fulminato fosse.
Tremaro i poli a l’impeto soverchio,
né stette saldo il sempr’immobil cerchio.
154.Ed ecco alfine il fin (prendete essempio
temerari superbi) a cui soggiace
l’alterigia mortai, che giusto scempio
dal Ciel aspetta, e l’insolenza audace.
Cadde, e caduto ancor, mostrò quest’empio
segni d’ira arrogante e pertinace.
Con atti di furor, non di cordoglio
minacciando spirò l’ultimo orgoglio.
155.Adon fra questo mezo era assai prima
campato fuor del periglioso varco,
perché reggendo scintillar da l’ima
parte le stelle, ove s’apria quell’arco,
asceso de la vòlta in su la cima
il passo si spedi leggiero e scarco,
e malgrado de’ rubi, e de l’ortiche,
al termine arrivò de le fatiche.
156.Uscito fuor di tenebre e di grotte,
mosse ai passi dubbiosi i piè tremanti,
né molto andò per quelle balze rotte,
che sentí gente caminarsi avanti;
e vide (perché chiara era la notte)
per la strada medesma andar tre fanti,
e ’l primo innanzi ai duo, sí come Duce,
portava in cavo ferro ascosa luce.
157.Furcillo era costui, che posto cura
quando da Malagor sepolta fue,
venia Filora a trar de l’urna oscura
per cupidigia de le spoglie sue.
Or tosto ch’ad aprir la sepoltura
fu giunto il ladroncel con gli altri due,
la lapida levár, che la copria,
e ’l cadavere suo ne portár via.
158.Per mirar meglio Adon ciò che n’avegna,
ritratto in parte a’ suoi nemici ignota,
ne l’arca istessa ascondersi disegna,
che restò mezo aperta, e tutta vota.
Ma mentre che nel marmo entrar s’ingegna,
fa che caggia il coverchio, e ’l suol percota.
A quel romor color, ch’innanzi vanno,
lascian la preda, ed a fuggir si danno.
159.— Tempo è via da scampar (gente vien dietro),
marcia Scatizzo, sbrigati Brigante —:
con questo dire, il misero feretro
gittando a terra, accelerar le piante.
Vassene scòrto allor per l’aér tetro
da la candida face e lampeggiante
e trova Adon la sventurata Donna
sanguinosa, trafitta, e senza gonna.
160.Un de’ ladron, da troppo ingorda voglia
spinto, quando posò le belle some,
fuor che l’ultimo lino, ogni altra spoglia
tolta in fretta l’avea, non so dir come.
Ben ei conosce (e n’ha pietate e doglia)
a le fattezze, al viso, ed a le chiome
Filora esser colei, né sa in che guisa
o chi sia quel crudel che l’abbia uccisa.
161.Dal freddo cerchio de la Dea di Cinto
una corda di luce in terra scende,
e dritto lá, dov’è il bel corpo estinto,
quasi linea d’argento, il tratto stende;
onde d’atro livore il ciglio tinto
veder ben può, si chiaro il lume splende,
e nel volto giá candido e vermiglio
solo fiorir senza la rosa il giglio.
162.Vorria pietoso Adon del duro caso
risepelir quelle bellezze spente,
ma da portarle entro ’l marmoreo vaso
forze non ha, né ’l tempo anco il consente.
Non vuol però, ch’ignudo ivi rimaso
il corpo de la giovane innocente,
poi che cibo a le fere in terra il lassa,
sia scherno ancora al peregrin che passa.
163.E perch’ornai che raccorciato ha il crine
vano stima il celarsi in altra veste,
depon le spoglie lunghe e peregrine,
e la vergin reai copre di queste.
Dopo l’ufficio pio partendo alfine,
e stillando dal cor lagrime meste,
poi ch’onorarla allor non può di tossa,
prega requie a lo spirto, e pace a Tossa.
164.Partito a pena Adon, Ciaffo v’arriva,
un de’ piú bravi e piú temuti cani
che mai d’Irlanda in su l’algente riva
prodotto fusse, o pur tra i monti Hircani.
Lo scelse Malagor, che lo nutriva,
tra ben cento Molossi e cento Alani,
e ne’ suoi ladronecci empi e malvagi
a le morti avezzollo, ed a le stragi.
165.L’avea giá contro a Taversaria schiera
con intrepido ardir quel di seguito,
e riportò da la battaglia fiera
di due punte di spiedo il sen ferito.
Nel sangue umano era incarnato, ed era
rabbiosissimamente inferocito,
ed or venia con queruli ululati
cercando il suo Signor per tutti i lati.
166.Tosto che stesa al pian col volto in suso
vide giacer la misera Donzella,
sbarrando i ringhi, e distendendo il muso,
inchinossi a lambir la faccia bella;
e come a tai vivande assai ben uso,
il capo tutto divorò di quella:
e poi che l’ebbe a pien mangiato e guasto,
la bocca sollevò dal fiero pasto.
13
167.Mentre nel bianco vel forbisce e netta
l’orrenda lingua, e la spietata zanna,
ecco su la sbranata Giovinetta
giunge Filauro, e per error s’inganna.
L’orme seguendo de la sua diletta,
trova il crudo mastin che la tracanna.
Cosi pensò, schernito da la vesta,
e dal tronco, che scema avea la testa.
168.Imaginò senz’alcun dubbio al mondo
Licasta esser colei, ch’era Filora:
onde rivolto a l’animale immondo,
trangugiator de la beltá ch’adora,
e rapito da l’impeto iracondo,
un stiletto ch’avea traendo fora,
strozzollo, e con mortai colpo improviso
il fc’ cader sovra l’uccisa ucciso.
169.Stringendo tuttavia l’acuto stile,
il bel busto stracciato ei tolse in braccio.
— Deh s’ancor per quest’aere, ombra gentile,
voli sciolta — dicea — dal caro laccio,
gradisci il sacrificio, ancor che vile,
ch’oggi col core e con la man ti faccio.
Ecco ad offrir due vittime ti vegno,
l’una offerta è d’amor, l’altra di sdegno.
170.L’una è del sozzo can, che ’l fior m’invola
di beltá tanta in sua stagion piú fresca,
il sangue sparso, e la scannata gola,
divoratrice di si nobil ésca.
L’altra è l’anima mia, ch’a te sen vola:
deh di teco raccòrla or non t’incresca.
Accetta il don di questa fragil salma,
mira i pianti, odi i preghi, e prendi l’alma. —
171.Disse, e con questo dir nel proprio fianco
sospinse il ferro al suo Signor malfido,
e ’l varco aprendo a l’egro spirto e stanco,
gli ruppe il nodo, e lo scacciò dal nido.
Cadde su la ferita, e freddo e bianco
languí, dal cor traendo un debil grido,
qual suole in piaggia aprica, o in valle ombrosa,
languir pampino in vite, o foglia in rosa.
172.Tal fu di questi duo l’acerba sorte,
nati insieme ed estinti in sí verd’anni.
Infelici gemelli, a cui dier morte
duo trascurati e dispietati inganni;
ambo del par da destin crudo e forte
per colpa uccisi di fallaci panni.
Ingannò quella altrui, se stesso questi,
e l’una e l’altro alfin tradir le vesti.
173.Adone, il primo autor di tanti mali,
lunge intanto di qua sen va securo.
Stese in alto la Notte ha le grand’ali,
e fregia il ciel d’un bel sereno oscuro,
quand’ei giá stanco alfin le membra frali
si risolve a gittar su ’l terren duro,
e presso l’orlo d’un erboso fonte
vassene afflitto ad appoggiar la fronte.
174.A pena in grembo al suol verde e fiorito
alquanto ha per posar china la testa,
ch’ode fra pianta e pianta alto nitrito,
e voce mormorar flebile e mesta.
Ecco estranio Guerriero a bruii guernito
da manca attraversar l’ampia foresta;
e ’l può chiaro veder, ché chiaro intorno
Cinthia giá trae fuor de le nubi il corno.
OLI ERRORI
Iy6
175.Destro vie piú di qual piú destro augello
preme un destrier l’incognito Campione:
moro di stirpe, e di color morello,
fiamma al moto somiglia, al pel carbone.
10 non credo che foschi a par di quello
ne la quadriga sua gli abbia Plutone.
Sol picciol fregio il bruno capo inalba:
ha nel manto la notte, in fronte l’Alba.
176.Ben s’agguaglia al cavallo il cavaliero
che gli preme la sella e regge il freno.
Veste sovr’armi nere abito nero,
che di stelle dorate è sparso e pieno.
Sembra lo scudo fin d’acciaio intero,
pur brunito e stellato, un Ciel sereno,
lá dove un breve appar scritto di fòre:
“ Assai piú che gli arnesi, ho nero il core
177.Su l’elmo somigliante a l’altre spoglie,
di dilicata e nobile scultura,
sorge d’un Olmo vedovo di foglie,
schiantato i rami, la divisa oscura,
che mentre amica Vite in braccio accoglie
con vicende d’appoggio e di verdura,
fulmine irato il bel nodo recide,
e i suoi dolci imenei rompe e divide.
178.Va per l’ombroso e solitario bosco,
loco a l’oscura mente assai conforme,
tutto dentro e di fuor dolente e fosco
de’ suoi vaghi pensier seguendo Torme.
Posto ha Tira il Cinghiai, l’Aspido il tosco,
11 Pastor col Mastino o tace, o dorme.
Sol l’afflitto Guerrier sveglia ogni belva
per l’ombre de la notte, e de la selva.
179.Scioglie in languidi accenti il freno accolto
ai desperati suoi gravi dolori,
ed a l’agil corsier non men l’ha sciolto,
che vagando sen va per mille errori.
Sotto il seren, per entro il cupo e ’l folto
e de’ notturni e de’ selvaggi orrori
il corsier via sei porta: ed ei che ’l regge,
da chi legge ha da lui prende la legge.
180.Stanco alfin presso il fonte, ove la frasca
è piú densa e frondosa, il passo affrena.
Dismonta a terra, e pria che ’l dí rinasca,
vuol dar ristoro a l’affannata lena.
Lascia ch’a suo diletto a piè gli pasca
libero il corridor senza catena,
ché la nova stagion, quantunque acerba,
gli fa stalla la selva, e biada l’erba.
181.— Tiranno empio e crudel, come n’alletti —
cominciò poi — con dolci inganni e frodi!
Pace, piacer, felicitá prometti,
e dái guerre e miserie, e lacci e nodi.
Tieni i tuoi servi in forte giogo stretti,
e vuoi che prigionier sieno in piú modi;
ed ai corpi ed a l’anime non doni
altro alfin che legami, e che prigioni.
182.Dura prigion, che mi contendi e serri
quel Sol, che l’altro Sol vince d’assai,
ahi quanto è vano il tuo rigor, quant’erri
s’offuscar pensi i suoi lucenti rai.
Fosti oscura spelonca, or che i tuoi ferri
luce sí bella indora, un Ciel sarai:
e fora un Ciel, se ’n quell’orrore eterno
penetrasse un suo lampo, anco l’Inferno.
GLI ERRORI
I98
183.Voi, che chiudete in cavernoso tetto
il mio dolce tesoro, o chiavi avare,
aprite (prego), e poi m’aprite il petto,
quell’uscio sordo a le mie voci amare;
ond’egli a riveder l’amato oggetto
torni del Sole, io de le luci care:
luci, che piú di voi fide e soavi
son del mio core e carceriere, e chiavi.
184.Ferri spietati, che que’ lumi belli
sotto tenebre indegne avete ascosí,
per cancellar con rigidi cancelli
di celeste beltá raggi amorosi,
s’ai fedeli d’Amor siete rubelli,
se sdegnate ascoltar preghi amorosi,
crudel quella fucina, e quel terreno,
che vi temprò, che vi raccolse in seno.
185.Ché non cedete omai libero il loco
di chi vi prega al fervido desio?
O come a tanto, e sí cocente foco
ancora intenerir non vi vegg’io?
Concedetemi almen, che pur un poco
possa l’ésca appressar de l’ardor mio.
Poi di voi faccia (io son contento) Amore
e catena al mio piede, e spada al core. —
186.Qui tacque, e risalir vòlse in arcione
l’aventurier da l’armatura bruna,
perché vide non lunge il vago Adone
al balenar de la sorgente Luna;
e stretto il ferro avea contro il Garzone,
la cui vista gli fu troppo importuna,
e si sdegnò che lamentar l’udisse:
se non ch’egli il prevenne, e cosí disse:
187.— Uopo qui non vi fía di brando o d’asta.
Signor, giostra non vo; guerra non cheggio.
Cheggio pace e pietá, ché ben mi basta
se con Fortuna e con Amor guerreggio.
Chi con Fortuna e con Amor contrasta,
che può da Marte mai temer di peggio?
Lasso, che con altr’arini, e d’altra sorte,
per man d’altra Guerrera ebbi la morte!
188.Egli m’ha ben di sí pietosa cura
vostro dolce languire il core impresso,
ch’io saprei volentier di questa dura
amorosa tragedia ogni successo.
Qual talento, qual forza, o qual ventura
vi desvia da le genti, e da voi stesso?
Ch’io, che non son da simil laccio sciolto,
gli affanni altrui non senz’affanno ascolto.
189.E tanto piú de l’ascoltate pene
forte a pietá m’intenerisco e movo,
ché ’l nostro stato si confá si bene,
ch’udendo i vostri, i dolor miei rinovo.
Di ceppi, e ferri, e carceri, e catene
(s’io ben comprendo) a ragionar vi trovo.
Ed anch’io tra prigioni e sepolture
di loco in loco ognor cangio sciagure.
190.Questo amarvi non solo e reverirvi
mi fa, quantunque incognito e straniero,
ma la persona istessa anco offerirvi,
quando pur non abbiate altro scudiero.
Saprò con pronto affetto almen servirvi,
tenervi l’armi anch’io, darvi il destriero.
Chi porta ognor tante saette al fianco
una lancia portar potrá ben anco. —
191.A questo favellar cortese e pio,
a quella egregia e signoril presenza
il Guerrier placò l’ira, e ne stupio,
mirando di beltá tanta eccellenza;
né men ch’egli di lui, venne in desio
d’averne a pien contezza e conoscenza,
e gli occhi intento ne’ begli occhi affisse,
pensando pur chi fusse, onde venisse.
192.L’armi depose, e gli rispose — Amico,
poi che tanto ti preme il mio lamento,
non vo’ tacerlo, ancor che quant’io dico
tempri no, ma rinfreschi il mal ch’io sento,
con la inembranza del diletto antico:
dissi diletto, e devea dir tormento:
ché non ha doglia il misero maggiore
che ricordar la gioia entro il dolore.
193.Gir cosí solo e sconsolato errando
dura del Ciel necessitá mi face;
dagli altri lunge, e da me stesso in bando
non vo però senza conforto e pace.
Son discepol d’Amore, e contemplando
filosofar co’ miei pensier mi piace:
ch’a chiunque d’Amor s’afflige e lagna
l’istessa solitudine è compagna.
194.Ma se l’istoria amara e lagrimosa
pur d’intender ti cal, cónta ti fía,
e stupir ti fará quanto vuol cosa
ch’altrui pietate e meraviglia dia.
Fin che ’l dí sia vicin, meco riposa,
poi sorgeremo, e parlerem per via,
ché ben ch’uopo al mio affar non sia d’aiuto,
né compagnia, né cortesia rifiuto. —
195.Ciò detto, in riva al fonte ambo posaro,
l’un si fe’ seggio un tronco, e l’altro un sasso,
e quei verso il Donzel, che gli era al paro,
levato alquanto il viso umido e basso,
dopo la tratta d’un sospiro amaro,
che ’l profondo dolor ruppe in «Ahi lasso!»,
finalmente allargò per lungo corso
in questa guisa a la favella il morso:
196.— Su ’l mar d’Assiria in fra duo porti siede
Sidon la terra, ov’io mi nacqui in prima.
Il mio gran genitor tutto possiede
tra Cilicia e Panfilia il fertil clima.
Sidonio, de’ Fenici unico erede
son io, che salsi a la gran rota in cima;
ma caddi in breve, e i fior del mio gioire,
misero, si seccaro in su l’aprire.
197.Giunt’era il festo dí, quando tra noi
l’Idol crudel si reverisce e cole,
quando non pur con gli abitanti suoi
onorar sí gran festa Egitto suole,
ma Siria, e Saba, e dagli estremi Eoi
vien l’Indo e ’l Perso a la Cittá del Sole;
cittá vera del Sol, tra le cui mura
abitava quel Sol, che ’l Sole oscura.
198.A celebrar quel memorabil giorno,
peregrin sconosciuto, anch’io ne venni.
Nel ricco Tempio, e di bei fregi adorno,
fra le turbe confuso, il piè ritenni.
Ed ecco fuor del suo reai soggiorno
Argene uscir con pompe alte e sollenni,
movendo a visitar (com’è costume),
da gran popol seguita, il fiero Nume.
199.Era Argene di Cinira sorella,
che fu giá di quest’isola signore.
Costei poi che del bando udí novella,
che chiamava a lo scettro il successore,
precorse ogni altro, e qua sen venne anch’ella
ambiziosa del reale onore;
ma pria ch’uscisse il generale editto,
nel tempo ch’io ti dico, era in Egitto.
200.Fu maritata al Principe Morasto,
udito ricordar l’avrai talvolta.
Ma la cara uni’on del letto casto
fu poi per morte in breve spazio sciolta.
Pianse il nodo gentil reciso e guasto
vedova acerba in brune spoglie avolta,
né di lui le restò, fuor che sol una
pargoletta reai. progenie alcuna.
201.Leggiadra è la fanciulla a meraviglia,
e vie piú ch’altri imaginar non potè:
si che Tesser erede unica e figlia
d’un sí gran Rege, è la minor sua dote.
Vergin di bianco sen, di brune ciglia,
di bionde chiome e di purpuree gote.
Mira la fronte, ivi tien Corte Onore,
volgiti agli occhi, ivi trionfa Amore.
202.La novella infelice a lei pervenne
ch’ucciso in campo il Re fu di mia mano.
Lungo a dir fora in qual battaglia avenne
Torribil caso, onde mi dolsi invano.
Noi conobb’io, ché sott’altr’armi venne,
e guerrier lo stimai privato e strano.
Ma sempre in guerra e tra Tarmate schiere
lice (comunque sia) ferir chi fère.
203.Prese da indi in poi sempre che l’anno
ri nova il dí de la memoria mesta,
in testimonio d’un sí grave danno,
quasi insegna terribile e funesta,
a dispiegar pubicamente un panno,
ch’è del Re morto la sanguigna vesta,
per irritar ancor la Giovinetta
con quel drappo vermiglio a la vendetta.
204.Deve il gran Tempio forse esserti noto
a la Vendetta edificato e sacro,
dove suol venerar con cor devoto
de la Dea sanguinosa il simulacro.
Su i negri altari ha quel dí stesso in voto
sparger di sangue uman largo lavacro;
e i vassalli miei cari, i servi miei
son l’ostie che sacrifica costei.
203.Cosí fin da quel dí giurato avea,
che del Re sposo suo la morte intese.
Cosí promise a l’implacabil Dea
per l’oltraggio emendar di chi l’offese.
Né questa legge rigorosa e rea
fia giá mai cancellata in quel paese,
fin che di farlo alfin le sia concesso
col sangue ancor de l’omicida istesso.
206.L’altera Donna, acciò ch’ognun si mova
tratto da l’ésca de’ soavi inviti,
la figlia ch’è si bella, e che si trova
su la verdura ancor de’ dí fioriti,
ben che cento di lei bramino a prova
potentissimi Regi esser mariti,
promise in guiderdon solo a chi questa
mi troncherá dal busto odiata testa.
207.Venne al delubro dispietato e crudo
la cruda Argene, e scese entro la soglia.
Sostenea ne la destra un ferro ignudo,
nera e spruzzata a rosso avea la spoglia.
Seco era quella, per cui tremo e sudo:
Dorisbe, la cagion d’ogni mia doglia,
che seguia pur del barbaro olocausto
l’apparecchio inumano, e ’l culto infausto.
208.Deh perché la cagion de’ primi pianti
rammento? e sveglio pur gl’incendii miei?
Poco destra Fortuna ai riti santi
in forte punto, oimè, trasse costei.
Vinti da’ fiati allor dolce spiranti
furo i fumi odoriferi Sabei,
e presso ai lampi de le vive stelle
tramortirò le lampe e le facelle.
209.Al folgorar del rapido splendore
arsi, e rimasi abbarbagliato e cieco.
Pur cieco, io vidi in quel bel viso Amore,
ed avea l’arco e le quadrella seco.
«Fuggi» gridar volea «fuggi o mio core»,
ma m’avidi che ’l cor non era meco:
ch’era volato (ahi pensier vani e sciocchi)
a farsi prigionier dentro i begli occhi.
210.Or qual securo Asilo, o qual magione
fia che vaglia a sottrarne ai lacci tui,
se fin ne’ sacri alberghi, Amor fellone,
persegui i cori, ed incateni altrui?
Quindi da’ tuoi ministri a ria prigione,
sacrilego crudel, condotto io fui,
né dal tuo nodo ingiurioso ed empio
valse allor punto ad affidarmi il Tempio.
211.Erano giá le cerimonie in punto,
il coltello e l’incendio in ordin messo,
e ’l ministerio abominabil giunto
a l’altar luneral molto da presso.
Lavorato l’altare era e trapunto
d’un drappo bruno a tronchi di cipresso.
Grand’urna alabastrina èravi suso,
che tenea di Morasto il cener chiuso.
212.In cima a l’ara con sembianze orrende
tutto armato d’acciar, d’acciar scolpito
de la Vendetta il simulacro splende,
stringe un pugnale, e sí si morde il dito.
Vermiglia fiamma il lucid’elmo accende,
fiero Leon le giace a piè ferito,
ch’a la ferita, ov’è confitto il dardo,
fiso rivolge e minaccioso il guardo.
213.La reverente e supplice Reina
colá dove la statua in alto appare
le luci alzata e le ginocchia china
umilmente spargea lagrime amare.
10 fatto intanto a la beltá divina
del bell’idolo amato il core altare,
fuor del foco traea de’ miei desiri,
quasi incensi fumanti, alti sospiri.
214.Mentre che tutto al sacro ufficio inteso,
fiero tributo a la severa Diva,
11 Sacerdote entro il gran rogo acceso
la sviscerata vittima offeriva;
io di ben mille strali il petto offeso,
sbranato il core, ed arso in fiamma viva,
Idolatra fedele, a la mia Dea
sacrificio de l’anima facea.
215.Poi che l’impure fiamme il sangue estinse
che da le vene un sventurato aperse,
còltolo in vasel d’or, la man v’intinse
Argene, e ’l maritai cener n’asperse.
Poi chiamandolo a nome, il brando strinse,
e l’estremo del ferro entro v’immerse.
Confermò ’l voto, e pianse; alfin di lei
cessare i pianti, e cominciare i miei.
216.D’Heliopoli a Menfi, ov’è la sede
principal de la reggia, e ’l maggior trono,
riede la Corte, e la Reina riede:
io l’accompagno, e mai non l’abbandono.
Seguo colei che, come il core, il piede
tragge a sua voglia, onde piú mio non sono.
Patria non curo, e fatto Egizzio anch’io,
per la Fenice mia Fenicia oblio.
217.La fama intanto a dissipar si viene
che crear qui si deve il Re novello,
onde d’Egitto alfin si parte Argene,
e con seco ne trae l’Idol mio bello,
e passa a Cipro, e ’n Pafo si trattiene:
quivi dimora entro il reai castello;
ed a gran volo di spalmato legno
tosto a Cipro ed a Pafo anch’io ne vegno.
218.D’un guardo almen, d’un detto (altro non cheggio)
cheggio appagar l’innamorate voglie.
Volgo mille pensier; ma che far deggio,
se parlarle e mirarla il Ciel mi toglie?
Modo trovar non so, mezo non veggio
da dar picciol conforto a tante doglie,
o come a conseguirne il fin bramato
recar mi possa agevolezza il fato.
219.Lasso, ad amar la mia nemica istessa,
quella ch’a morte m’odia, io son costretto,
quella che ’n virtú dee di sua promessa
il mio capo pagar col proprio letto.
Grande è il periglio, ahi che laro? con essa
discoprirmi non oso, e ’ndarno aspetto.
Se conosciuto son, non spero aita,
e la speranza in un perdo, e la vita.
220.Del ben vietato il disiderio cresce
tra i difficili intoppi assai piú grave,
ch’Argene, in cui di par s’accoppia e mesce
accortezza e rigore, in cura l’have.
Chiusa la tien, sí che giá mai non esce,
sotto secreta e ben fidata chiave,
né, se non seco sol, mai le concede
libero trar del regio albergo il piede.
221.Come la spica incoronar l’ariste,
come soglion la rosa armar le spine,
cosí a Dorisbe intorno in guardia assiste
schiera di Donne illustri e peregrine,
ch’involata la tengono a le viste,
non che de’ vagheggianti a le rapine.
Pensa s’altro io potea, che con lamenti
fastidir l’aure, e con sospir cocenti.
222.Amor (ma che non tenta? o che non osa?)
Amor, che tutto regge, e tutto move,
m’inspirò nel pensier froda ingegnosa,
arti insegnommi inusitate e nove.
Amor, ch’ad onta de la Dea gelosa
cangiar seppe in piú forme il sommo Giove,
Amor stato, sembianza, abito e nome
a mutar mi costrinse, e dirò come.
223.Giardin, che di frondose ombre verdeggia,
le falde infiora al gran palagio augusto,
lá dove unico varco a l’alta reggia
apre in solingo calle un uscio angusto.
Ma cautamente il guarda e signoreggia
il fido Herbosco, un vecchiarei robusto,
del bel verziero, ov’altri entra di raro,
sollecito cultor custode avaro.
224.Scender assai sovente ivi a diporto
le donzelle di Corte hanno per uso,
però che intorno intorno il nobil orto
d’insuperabil muro è tutto chiuso.
Qui da stella benigna a caso scòrto,
qui di stupor, qui di piacer confuso,
passando un dí, mentre il villan n’uscía,
io vidi spaziar l’anima mia.
225.Soviemmi tosto un amoroso inganno,
sembiante e qualitá trasformo e fingo.
Di rotta spoglia e di mendico panno,
fatto vii contadin, mi vesto e cingo.
Scingo la spada, e (sí com’essi fanno)
grossa e ruvida pala in man mi stringo.
Ai rozi arnesi, al rozo andar che vede,
povero zappador ciascun mi crede.
226.Sotto un cappel di paglia il capo appiatto,
c’ha di vago Fagian penna dipinta.
D’aspre lane ho la gonna, aspro sovatto
ricucito in piú parti è la mia cinta.
Malpolita la fibbia innanzi adatto,
che con curvo puntai la tiene avinta.
Calzo sordide cuoia, e sotto il braccio
con vii corda a traverso un zanio allaccio.
227.Porto di marche d’oro il zanio pieno,
con cui velar l’ardita astuzia intendo.
Di gemmate vasella ancor non meno
e di vezzi di perle un groppo prendo.
Soletto poi con queste cose in seno
l’aprir de l’uscio in su la soglia attendo.
Ed ecco in breve uscir quindi vegg’io
il giardinier del Paradiso mio.
228.Fòmmigli incontro, e dico: «Ascolta quanto
a commun prò per ragionar ti vegno,
ed a queste parole, ond’io mi vanto
gran ventura ottener, volgi l’ingegno.
Miser, tu sudi a procacciarti intanto
a la vita cadente alcun sostegno,
e ’l ben non sai, né curi, onde trar puoi
fortunata quiete agli anni tuoi.
229.Tu dèi saver, che colaggiú sotterra
ne l’orticel ch’a coltivar t’è dato,
prezioso tesor s’asconde e serra,
ma da forza invisibile guardato.
Temendo il fin d’una dubbiosa guerra,
dove poi giacque a la campagna armato,
le sue piú scelte e piú pregiate cose
un antico Re vostro ivi ripose.
230.Rivelato han gli Spirti a un Indovino
che di rilievo d’òr v’ha dentro chiuse
inghirlandate di smeraldo fino
intorno al saggio Dio tutte le Muse,
col cavallo che trae dal Caballino
acque d’argento in bel ruscel diffuse:
ed elle di mirabili ornamenti
han gli abiti fregiati, e gli stromenti.
14
231.E che Demogorgón v’è con le Fate
sovra un Dragon che non ha prezzo al mondo,
pur di massiccio intaglio effigiate
di quel metal ch’è piú pesante e biondo,
di gran serti di perle i colli ornate,
da diligente man ridotte in tondo.
E tutte compassati han di gioielli
branchigli al seno, ed a le dita anelli.
232.Tengo di tutto ciò minuto conto,
però che ’l Negromante esperto e saggio,
ch’a Cipro a questo fin venia di Ponto,
a caso riparò nel mio villaggio;
e pago d’un voler cortese e pronto,
mentre infermo giacea dal gran viaggio,
lasciollo in scritto, e miser peregrino
pose mèta a la vita, ed al camino.
233.Io poi le note incantatrici e l’arti
del gran secreto ho dal suo libro apprese,
e qua ne vengo da remote parti
per porlo in opra, e farlo a te palese.
Se di stato sí basso ami levarti,
s’hai punto ad arricchir le voglie intese,
meco (credimi pur) farti prometto
felice possessor di quanto ho detto.
234.Prendi nel crin l’occasion. Ben sai
la fortuna servii quanto è molesta.
Lieto e fuor di disagio almen vivrai
l’ultima etá che da varcar ti resta.
Nel giardino reai, dove tu stai,
(altro non voglio) l’adito mi presta:
e noi voglio però, se non sol quanto
d’uopo mi fia per esseguir l’incanto».
235.Sí dissi, e dissi il ver, ché ’l mio tesoro
vero e la vera mia somma ricchezza
era sol di colei, ch’io sola adoro,
l’infinita ineffabile bellezza.
I zaffiri, i rubin, le perle e l’oro
conquistar del bel volto avea vaghezza,
e vie piú ch’altro, di quel cor costante
spetrar l’impenetrabile diamante.
236.Con crespa fronte e curve ciglia immote
stupido al mio parlar diede l’orecchio,
gli atti osservando e le fattezze ignote,
il semplice e d’aver cupido Vecchio.
«Quando veraci sien queste tue note»
rispose «a compiacerti io m’apparecchio;
né vo’ ch’indugi ad esservi introdotto,
se non sol quanto a Grifa io ne fo motto.»
237.Era costei la sua consorte antica,
rigida, inessorabile, e ritrosa,
di gentilezza e di pietá nemica,
perfida, quanto cauta, e dispettosa.
Questa fu la gragnuola in su la spica,
questa la spina fu sotto la rosa,
la Medea, la Medusa, e la Megera,
che ne l’alba al mio dí portò la sera.
238.Parla a l’iniqua moglie, e seco piglia
partito d’abbracciar sí ricca sorte.
La Vecchia a ciò lo stimula e consiglia,
l’ingordigia de l’ór l’alletta forte,
e di Fortuna avara ignuda figlia,
Povertá, fa ch’alfin m’apra le porte.
Cosí di por le piante entro le mura
del loco aventuroso ebbi ventura.
239.Cloridoro Pastor chiamar mi volli,
e d’Herbosco figliuol fingermi elessi,
che da’ campi d’Arabia aprici e molli,
dove pasciuti i regii armenti avessi,
a le case paterne, ai patrii colli
dopo molti e molt’anni il piè volgessi.
Ne fan festa i duo Vecchi, e lieto il ciglio
mostrano altrui del ritornato figlio.
240.Ma qual ne’ petti lor poscia s’aduna
vero piacer, quand’amboduo presenti,
dentr’ampio cerchio in su la notte bruna
comincio a sussurrar magici accenti!
Alzo gli occhi a le stelle, ed a la Luna,
poi mi raggiro a tutti quattro i vènti,
e vibrando con man verga di legno
caratteri e figure in terra io segno.
241.Segni efficaci no. Coleo o Thessaglia
ne l’infernal Magia non mi fe’ dotto.
Fui sol da Amor, cui nessun Mago agguaglia,
vani scongiuri a mormorar condotto.
Gran coppa d’oro, il cui splendore abbaglia,
da me dianzi celata era lá sotto.
Questa donata ai Vecchi aurea mercede
fu degl’incanti miei la prima fede.
242.«Questa >> diss’io «se ’l Ciel mi mostra il vero,
de l’occulto tesoro è poca parte,
però ch’a poco a poco, e non intero
quinci a trarlo in piú volte insegna l’arte.
Convienimi a far perfetto il magistero
intanto osservar punti, e volger carte.
Di piú Lune è mestier pria che si scopra»;
e ciò dicea sol per dar tempo a l’opra.
243.Non molto va, ch’ai dilettoso Parco
Dorisbe bella a passeggiar ritorna,
e rende d’aurei pomi il grembo carco,
e d’intrecciati fior le trecce adorna.
10 giuro per lo strai, giuro per l’arco
di que’ begli occhi, dov’Amor soggiorna,
ch’io vidi ad infiorar Torme amorose,
non so per qual virtú, nascer le rose.
244.A la beltá, ch’è senza pari al mondo,
11 finto genitor mi rappresenta.
La man le bacio, e in un sospir profondo
vien l’alma fuor, ma poi d’uscir paventa.
Molto mi chiede, e molto le rispondo,
salvo sol la cagion che mi tormenta:
ch’oltre il gran rischio, il qual mel vieta e nega,
colui che lega il cor, la lingua lega.
245.Spesso le luci in lei con dolce affetto
furtivamente innamorate giro,
e tal (quantunque breve) è quel diletto,
che mi fa non curar lungo martiro;
anzi il bramato e sospirato oggetto
piú desio di mirar, quanto piú miro;
né giá mai torno a rimirarla, ch’ella
non paia agli occhi miei sempre piú bella.
246.Non giá serici arazzi ornan le mura
del bel giardin, né d’or cortine altere,
ma tapezzate d’iminortal verdura
veston d’aranci e cedri alte spalliere,
le cui cime intrecciando era mia cura
bizarrie fabricar di piú maniere,
e di fronde e di foglie e frutti e fiori
componea di mia man cento lavori.
247.Talor lungo Talee degli orti aprici
rete tessea di mirto o di ginestra,
e l’industria, ch’è scorta agl’infelici,
in tal necessitá m’era maestra.
Ma che valeami in sí fatti artifici,
per minor doglia, essercitar la destra,
s’ovunque d’ognintorno io mi volgessi
m’apparian di dolor sembianti espressi?
248.S’a l’erbe, ai fior volgea quest’occhi lassi,
il numero vedea de’ miei dolori.
Se la vista girava ai tronchi, ai sassi,
scorgea del duro cor gli aspri rigori.
Se per l’ombrose vie drizzava i passi,
riconoscea de l’alma i ciechi errori.
Se mormorar sentia tra’ rami i vènti,
mi sovenia de’ miei sospiri ardenti.
249.Se per bagnar i fior ne’ caldi estiva
solea con studio a la cultura intento
tirar divise in canaletti e rivi
dal bel fonte vicin righe d’argento,
i torrenti profondi, i fiumi vivi
che scaturian dal mar del mio tormento,
le torbid’onde de’ perpetui pianti,
che pioveano dal cor, m’erano avanti.
250.S’ad inocchiar quell’arboscel con questo
movea l’accorta e diligente mano,
per copular sotto ingegnoso innesto
a virgulto gentil germe villano,
mi parlava il pensier languido e mesto,
e mi dicea: «Lo tuo sperar fia vano:
ché non fa frutto Amor, se non s’incalma
sen con sen, cor con core, alma con alma».
251.Se poi con zappa in man curva e pesante
de la terra talor tenace e molle,
assai miglior ch’agricoltore, amante,
sudava a volger glebe, a franger zolle,
la diffidenza in orrido sembiante
vernami incontro, e mi gridava: * Ahi folle,
e qual mèsse corrai di tua fatica,
se dinanzi a la man fugge la spica?»
252.Vie piú che prima in su l’erboso smalto
Dorisbe a trastullarsi il dí scendea.
10 fender l’aria con spedito salto
or imitando i Satiri solea,
or ben vibrato e ben lanciato in alto
con man leggiera il grave pai movea,
or su i sonori calami forati,
per allettarla, articolava i fiati.
253.Conobbi intanto a mille segni e mille,
ed espresso il notai piú d’una volta,
che s’io l’ardor versava in calde stille,
ed avea l’alma in duro laccio avolta,
non era anco il suo cor senza faville,
né punto ella però sen giá disciolta;
e vidi, ch’egual cambio alfin ne rende
Amor, che ’n gentil cor ratto s’apprende.
234.Ne la stagion che ’n Ciel s’accende d’ira
11 fier Leone, e scalda il piano e ’l monte,
quando per dritto fil le linee tira
Febo da la metá de l’Orizonte,
sitibonda per bere il passo gira
al margin fresco del tranquillo fonte.
Ed ecco l’Ortolan le reca innanzi
l’aureo vasel ch’io gli donai pur dianzi.
255.Il vaso è d’oro, e in una ombrosa fratta
d’un bel ruscel su le fiorite sponde
Diana v’ha col suo Pastor ritratta,
e son rubini i fior, diamanti Tonde.
Di smalti e perle la faretra è fatta,
son di smeraldo fin l’erbe e le fronde.
Duo veltri, che da Torlo il capo tranno,
manico estrano a la bell’urna fanno.
256.Prendo il nappo leggiadro, e prima inchino
l’alta mia Dea, poi reverente assorgo.
Corro, e del fonte terso e cristallino
l’attuffo una e due volte al chiaro gorgo,
indi di molle argento empio l’or fino,
e palpitante a la man bella il porgo.
Le porgo il vaso, e le presento il core:
acqua le dono, c nc ritraggo ardore.
257.Sento in quel che la coppa in man riceve
premermi il dito, il dito anch’io le premo,
ma quasi nel toccar la viva neve
spando a terra l’umor, cosí ne tremo.
Da’ dolci lumi in me, mentr’ella beve,
raggi saetta di conforto estremo.
Levando alfin le rugiadose labbia,
dimanda Herbosco onde ’l bel vaso egli abbia.
258.Rispondo: «Io fui, che ’n dono ottenni il vase
dal gran Signor de l’odorata messe,
quando Fauno al cantar vinto rimase,
giudice il Re, che vincitor m’elesse,
e ’l crin di lauro entro le regie case
cinsemi ancor con le sue mani istesse.
E questo il canto fu, s’io ben rammento
ogni numero a punto, ed ogni accento:
259.' Non son non son Pastor, per che mi veggia
sotto manto villan, Ninfa gentile,
premer il latte, e pascolar la greggia,
tonder la lana, ed abitar l’ovile.
Lasciai per umil mandra eccelsa reggia,
copre pensieri illustri abito vile.
Amor m’ha chiuso in questa roza spoglia,
ma se cangio vestir, non cangio voglia ”».
260.Con queste note a l’unica bellezza
di rossor virginal la guancia sparsi.
Turbar la vidi, e vidila gran pezza
tutta sovra pensier sospesa starsi.
Dal mirarmi piú spesso allor certezza
presi, e da quel sí súbito cambiarsi,
che di quel ch’era a dubitar s’indusse,
e di quel che bramava anco che fusse.
261.Che quei che fece il genitor morire
quei mi fuss’io, sospezzion non ebbe.
Persuadersi un cosí stolto ardire
potuto in modo alcun mai non avrebbe;
né tal secreto io poi le vòlsi aprire,
ch’uomo in donna fidar tanto non debbe.
Credeami ben sott’abito vulgare
cavalier di gran guisa, e d’alto affare.
262.Herbosco a ciò non ponea mente, a cui
or pendente, or monil recando a tempo,
la malizia senil tentava in lui
ciecar con l’oro, ed aspettava il tempo.
In me diletto, ed utile in altrui
l’amorosa Magia nutrirò un tempo.
Alfin di quell’amore, ond’era incerto,
argomento maggior mi venne aperto.
GLI ERRORI
21 8
263.Mentre, quando piú l’aria è d’ombre mista,
sotto color d’incanti a pianger riedo,
ed al chiaro Oriente alzo la vista
de l’amato balcone, e qui mi siedo,
odo di voce dolorosa e trista
flebil lamento, e poi Dorisbe vedo:
Dorisbe mia, che del ginocchio al nodo
tien le mani intrecciate, io veggio ed odo.
264.Uscita sola a la fresc’aura estiva,
abbandonate le compagne e ’l letto,
stavasi assisa in una pietra viva
al rezo del domestico boschetto,
e dimostrava ben, mentre languiva,
dal sasso istesso indifferente aspetto.
Sotto il velo de l’ombre allor nascosto
presso mi faccio, e per udir m’accosto.
265.«Datemi tanta pace in fra l’oscure
ombre» dicea «di questo fido orrore,
famelici pensier, mordaci cure,
che mi rodete e mi pungete il core,
ch’io possa almen le fiamme acerbe e dure
sfogar col Ciel del mio malnato ardore,
e dal petto essalar qualche sospiro,
tacito accusator del mio martiro.
266.Che mi vai dominar popoli e regni,
se di crudo Signor serva languisco?
e posseduta da desiri indegni,
tra le regie ricchezze impoverisco?
Poi che ’l tuo giogo Amor soffrir m’insegni,
ecco a l’empia tirannide ubbidisco,
e soggiacendo al duol che mi tormenta,
vivo Reina sí, ma non contenta.
267.O ombre, o sogni, o fumi, o d’arid’erba
vie piú vili e piú frali onori e fasti,
o di mortale ambizion superba
abissi senza fin voraci e vasti,
s’alcun rispetto Amor vosco non serba,
a che piú nel mio cor fate contrasti?
Povera signoria, mendiche pompe,
se ’l corso al bel desio per voi si rompe!
268.Dorisbe, e che ragioni? insana voglia
come offusca a la mente il lume in tutto?
Qual diletto aver può Vergin che coglia
d’illeggittimo amor furtivo frutto?
Sai le leggi d’Egitto. Ah non discioglia
l’anima il freno a desir folle e brutto,
onde tu deggia poi tardi pentita
perder a un punto ed onestate, e vita!
269.E vorrai dunque tu, che fosti in sorte
a degno Eroe per degna sposa eletta,
gir poverella e misera consorte
a Pastor rozo in roza cappannetta?
Dal palagio al tugurio? ed usa in Corte
ad esser Donna, a farti altrui soggetta?
Celebrando colá tra gli orni e i faggi
nozze palustri, ed imenei selvaggi?»
270.Qui dal pianto il parlar l’è tronco a forza,
e le parole e i gemiti confonde.
«Ma chi sa» dice poi «se ’n tale scorza
alcun famoso Principe s’asconde?
Fors’ama, e teme, e di celar si sforza
le piaghe c’ha nel cor cupe e profonde.
Cosi certo pens’io, ché chi tropp’ama
creder suol volentier ciò che piú brama.
271.Non uom di selva, o cittadin di villa
móstranlo altrui le sue maniere, e l’opre.
Mercenario sudor la fronte stilla,
ma fra stenti e disagi altro si copre.
Qual Sol fra lente nubi arde e sfavilla,
o per vetro sottil gemma si copre,
tal de la nobil aria in lui la luce
per entro panni laceri traluce.
272.Non villano l’andar, non è villano
il parlar pien di grazia e cortesia;
né quella bianca e dilicata mano
tal, se tal egli fusse, esser devria;
né quel cantar misterioso e strano
senso contien, che signoril non sia;
né guadagnato in rustiche contese
quel suo bel vaso è pastorale arnese.
273.Ma che cur’io, che quel ch’altri non crede
involto stia tra boscherecci panni,
se pur malgrado lor, l’anima vede
aperto il core, e i core è senza inganni?
Sconosciuto è il fedel, nota la fede,
mente condizion, non mente affanni.
Gli affanni interni in que’ begli occhi io veggo,
e i secreti pensier scritti vi leggo.
274.Ciò ne la bella fronte impresso e sculto
visibilmente Amor tu mi riveli.
Può ben stato reai talora occulto
celarsi in altri manti, in altri veli,
ma sotto larva di vestire inculto
esser non può giá mai, ch’Amor si celi:
ché chiuso in casa il foco, in grembo l’angue
si manifesta alfin con pianto e sangue».
E cosí detto, al suol Tumide ciglia
china alquanto, e s’arresta, e pensa, e tace,
poi le leva, e l’asciuga, indi ripiglia:
«Che far poss’io, s’Amor mi sforza e sface?
È Pastor: siasi pur: qual meraviglia,
se Pastore e Bifolco anco mi piace?
Amaro ancora in rustica fortuna
Venere Anchise, Endimion la Luna.
Come valor non sia, né vero pregio,
se di porpora e d’oro altri noi segna,
o come altrui non sia tesoro e fregio
virtú, per cui si signoreggia e regna!
Spesso alberga umil servo animo regio,
chiude Principe eccelso anima indegna.
Perché piacer non dee nobil sembianza,
s’oltre l’ufficio il merito s’avanza?
Guidar gli armenti a piú vii gente or lassi,
ché quantunque l’adombri ignobil veste,
maestá mostran gli atti, i guardi, i passi
degna piú di cittá, che di foreste.
La verga imperiai meglio confassi
che la selvaggia, a quella man celeste.
Corona a quel bel crin, ch’amo ed adoro,
come l’ha di beltá, conviensi d’oro.
Pastor gentil, non dee chi frena e regge
personaggio reai, qual io mi sono,
trattar gli aratri, e governar le gregge,
ma stringer scettro, e comandare in trono.
Se puoi tu solo a’ miei pensier dar legge,
il regno accetta e la Reina in dono;
e s’aversa Fortuna a ciò contrasta,
quel che possiedi in questo cor ti basta.
279.Sí sí, poco mi cal; che può ne segua,
ne verrò teco in solitaria balza.
Ogni disagguaglianza Amor adegua,
ei del natal l’indignitate inalza.
Se si nega al mio mal tanto di tregua
ch’io ti possa seguir discinta e scalza,
lassa, chi fia che tempri il dolor mio?»
Ed io, ch’era vicin, le rispos’ «Io».
280.Io, ch’agitato da pensier diversi,
udito il tutto avea fra stelo e stelo,
pien d’un timido ardir mi discoversi,
tremando al foco, ed avampando al gelo.
Quivi il cor l’apers’io, ma non l’apersi
di mia fortuna in ogni parte il velo.
Le dissi ben, che nobile e reale
era lo stato mio, ma non giá quale.
281.Chiamo voi testimoni amici orrori,
fuste voi secretane amiche piante,
s’altro involai da’ miei modesti amori
che quanto lice a non lascivo amante.
Potea rapire i frutti, e còlsi i fiori,
ardea di voglia, e mi mostrai costante;
e s’ai vaghi desiri il morso sciolsi,
del bel volto i confin passar non vòlsi.
282.Avev’io giá per uno e duo scudieri
con note ardenti e di man propria espresse
esposti al Re mio padre i casi interi,
presago (oimè) di quel ch’indi successe,
perché di lei con lettre e messaggieri
la pace maritai m’intercedesse;
ma col mio ben (cred’io) con la mia speme
per piú mai non tornar, partirò insieme.
83.Io per farle talor piú chiara mostra
de Tesser mio, di lucid’armi adorno
uscire in piazza e comparire in giostra
con pompose livree soleva il giorno.
La notte poi dentro la regia chiostra
a le paci d’Amor iacea ritorno;
né che fuss’io (sí sempre io mi celai)
altri (tráttane lei) seppe giá mai.
84.D’Argene ancor, che seco era sovente,
la conoscenza in questo mezo io presi;
ed un dí che tra’ fior vipera ardente
venia con fauci aperte e lumi accesi
per trafigerle il piè col crudo dente,
col nodoso bastone io la difesi.
La Serpe uccisi, e l’obligo che m’ebbe,
molto di lei Taffezzion m’accrebbe
85.Spesso da indi in poi tacito e cheto
venia le notti a consumar con ella,
né parte ebbe giá mai di tal secreto
(fuor che la fida Arsenia) altra donzella.
Cosí Tore passai felice e lieto
sotto destro favor d’amica stella
fin che venne a mischiar la Vecchia astuta
tra le dolcezze mie fiele e cicuta.
86.O degli orti d’Amor Cani custodi,
vigilanti nel mal, garrule Vecchie,
tra’ piú leggiadri fior tenaci nodi,
nel piú soave mèl pungenti pecchie!
Non ha tante la Volpe insidie e frodi,
tante luci il Sospetto, e tante orecchie,
quante per danno altrui sempre n’ordite,
(deh vi fulmini il Ciel!) quante n’aprite.
287.De le mense amorose Arpie nocenti,
al riposo mortai Larve moleste.
La vita è un prato, e voi siete i serpenti,
voi sol d’ogni piacer siete la peste.
Senza turbini il Cielo e senza venti,
senza procelle il mar, senza tempeste
quanto piú lieto fora, e piú giocondo?
e senza morte, e senza Vecchie il mondo?
288.Furie crude e proterve, onde gli amanti
van de le gioie lor vedovi ed orbi.
Fantasmi vivi, e notomie spiranti,
sepolcri aperti, ombre di morte, e morbi.
Perché d’Abisso in fra gli eterni pianti
Terra omai non le chiudi, e non l’assorbi?
L’invidia (credo) sol de l’altrui bene
le nutrisce, le move, e le sostiene.
289.Grifa, del buon Villan l’empia mogliera,
venne fra i nostri amori ad interporsi.
Questa malvagia intolerabil Fera
di me s’accese, ed io ben me n’accorsi,
però ch’a tutte l’ore intorno m’era
or con scherzi noiosi, or con discorsi.
Ridea talora, e mi mostrava il riso
vóto di denti, e pien di crespe il viso.
290.Crespa è la guancia, e dal visaggio asciutto
si staccan quasi l’aride mascelle.
Grinze ha le membra, e nel suo corpo tutto
informata da Tossa appar la pelle.
Stan nel centro del capo orrido e brutto
fitte degli occhi le profonde celle,
occhi che biechi, e lividi, e sanguigni
aventano in altrui sguardi maligni.
291.Le giunture ha snodate e mal congiunte,
adunco il naso, che ’n su ’l labro scende.
Sporgon le secche coste in fuor le punte,
sgonfio su le ginocchia il ventre pende.
Ciascuna de le poppe arsicce e smunte
fin al bellico il bottoncin distende.
Ne la gola il gavocciolo, e nel mento
porta la barba di filato argento.
292.Ha chiome irsute, ispido ciglio e folto,
bavose labra, obliqua bocca e grossa,
squallida fronte, e disparuto volto,
e ’nsomma altro non è ch’anima ed ossa.
Sembra orrendo cadavere insepolto,
che fuggito pur or sia da la fossa.
Sembra mummia animata, e ’n tutto sgombra
d’umana effigie, una palpabil ombra.
293.Pensa tu s’io devea per cosí fatte
fattezze, e per sí laido e sozzo mostro
lasciar colei ch’oscura il minio e ’l latte,
e vince al paragon l’avorio e l’ostro!
Ella con vezzi ognor piú mi combatte,
io con repulse mi difendo e giostro.
Cangia l’amore alfin, poi che si mira,
non che sprezzata, abominata, in ira.
294.Fusse qualch’atto il dí non ben nascosto,
che le svegliò la mente e la riscosse,
o pur sotterra il cumulo riposto
di cotant’òr, eh’a sospettar la mosse,
o de l’animo perfido piú tosto
la naturai malignitá si fosse,
per ispi’ar ciò ch’io facessi, avenne
ch’una notte pian pian dietro mi tenne.
15
ZZÒ
GLI ERRORI
295.Tennemi dietro, e non so in qual maniera
nel folto del giardin l’insidia tese.
L’ombre splendean, perché la Diva arciera
era nel colmo del suo mezo mese,
e ’l ricco tempio de l’ottava sfera
tutte avea giá l’auree sue lampe accese.
Qual meraviglia allor, se non potei
occultar da Tagliato i falli miei?
296.La Vecchia a la Reina il fatto accusa,
io repente al mio ben son còlto in braccio,
e di vergogna e di timor confusa,
fatta il volto di foco, e ’l cor di ghiaccio,
condur Dorisbe mia legata e chiusa
veggio in altra prigion con altro laccio.
Ma grazie al Ciel, che ne’ miei furti audaci
visto non fui rapire altro che baci.
297.«Uccidetemi» dissi * e qual mi fora
piú bel morir, s’avien che ’n un mi tocchi
(quando sia pur, che per costei mi mora)
lo strai di morte, e ’l raggio de’ begli occhi?»
Ma non è alcun de’ rei sergenti allora
che ’n me spada pur vibri, o dardo scocchi.
Crudel pietá, ch’uccidermi non vòlse,
e pur la vita e l’anima mi tolse.
298.Non tanto il proprio mal m’affíige e nóce,
se ben d’ogni mio ben privo rimango,
quanto il mal di Dorisbe il cor mi coce,
ch’io per me senza lei son fumo e fango.
Te Dorisbe mia cara, ahi con qual voce
chiamo, e sospiro? e con qual’occhi piango?
Son queste (oimè) le pompe? oimè, son queste
de le tue nozze le sperate feste?
299.Cosí dunque cangiar sinistra Sorte
può maniglie in manette? anella in nodi?
gli aurei monili in ruvide ritorte?
i fidi servi in rigidi custodi?
in vece d’Himeneo ti fia la Morte?
ti fiano i pianti epitalami e lodi?
ti fian, rivolta ogni allegrezza in duolo,
camera la prigion, talamo il suolo?
300.Havvi un irrevocabile statuto
che tra gli ordini antichi osserva Egitto,
e ch’a preghi d’Argene ha poi voluto
Cipro che qui per legge anco sia scritto.
Trovarsi in fallo un Cavalier caduto
con vergin Donna, è capitai delitto;
e ’l foco tra lor duo purga l’errore
di chi fu primo a discoprir l’amore.
301.Dico, che chi de’ duo fu prima ardito
di chieder refrigerio al chiuso foco,
convien che sia col foco anco punito,
che ’n ciò favore o nobiltá vai poco.
E s’avien che l’autor del primo invito,
preso ad un tempo in un medesmo loco,
sia dubbio, e che da l’un l’altro discordi,
Marte tra lor le differenze accordi.
302.Se fia che ’n pugna a l’un l’altro prevaglia,
è sottratto a le fiamme il vincitore.
Se nel tempo prefisso a la battaglia
manca a questo ed a quella il difensore,
il supplicio de l’un l’altro ragguaglia,
l’un come l’altro incenerito more.
Se I’una parte l’ha, l’altra n’è priva,
convien pur, che l’un péra, e l’altro viva.
303.Or chi di noi baldanza ebbe primiero
d’aprir le labra agl’interdetti accenti,
dal deputato Giudice severo
con minacce richiesti, e con spaventi,
possibil non fu mai ritrarne il vero
per terror di martiri, e di tormenti:
ch’appropriando a sé la colpa altrui,
dicea ciascuno a prova: «Io sono, io fui».
304.O nobil gara, or chi mai vide o scrisse
per sí degna cagion si degna lite?
Chi d’amor, non d’onor fu mai ch’udisse
piú belle o piú magnanime mentite?
Dolci contese, e generose risse,
ch’aman le morti, e sprezzano le vite,
ne’ cui contrasti divenir s’è visto
vantaggio il danno, e perdita l’acquisto!
305.Stupisce il Magistrato a tal tenzone,
la crucciosa Reina ambo rampogna,
ma vie piú lei, che ’ntrepida pospone
a la salute mia la sua vergogna.
Ben comprende ch’Amor n’è sol cagione,
e che commune è il fallo e la menzogna.
La patria chiede, e le fortune mie,
ed io compongo allor nòve bugie.
306.Veggendo pur la pertinacia Argene
de la coppia in Amor costante e fida,
ch’ad usurparsi le non proprie pene
gareggia, e ch’ella invan minaccia e grida,
a l’usato costume allor s’attiene,
che ’l ferro alfin la question decida,
ch’un campion quinci e quindi in campo vegna,
e d’otto giorni il termine n’assegna.
307.Nel basso fondo d’una torre oscura
sepolto io fui, dal Castellan guardata.
Ma di guardar la Giovane dier cura
a la Vecchia rabbiosa e scelerata.
Imaginar ben puoi, se la sciagura
condotta ha in buone man la sventurata,
se seco dee con ogni strazio indegno
quell’empia ad onta mia sfogar lo sdegno.
308.Giá sette volte chiaro e sette oscuro
s’è fatto da quel dí l’Orto e l’Occaso.
Diman si compie il tempo, ed io procuro
terminar con la morte il fiero caso.
S’io campion m’abbia, o no, né so, né curo,
ch’io son senza morir morto rimaso.
Convien che sol di lei cura mi prenda,
che non ha chi l’aiti, o la difenda.
309.«Or non è il meglio» a me medesmo io dissi,
«se tanto il Ciel di suo favor ti dona,
che tu campando fuor di questi Abissi,
cerchi di sprigionar chi t’imprigiona?
Se per la vita tua di vita uscissi,
non fora il tuo morir palma e corona?
Vattene omai, s’andar ti fia permesso,
a combatter per lei contro te stesso.
310.Se guerrier non appar da la tua parte,
la tua Donna s’assolve, e tu morrai.
S’alcun forse ne vien per liberarte,
tu di Dorisbe il protettor sarai.
S’egli t’uccide entro l’agon di Marte,
chi morí piú di te felice mai?
S’egli ucciso è da te, felice ancora,
fia che chi visse ardendo, ardendo mora».
311.L’inumano Torrier, che pur sovente
compianse al pianger mio, tentai con preghi.
E qual core è di sasso, o di serpente,
cui supplice amator non mova o pieghi?
L’oro però fu piú eh’Amor possente,
l’oro, a cui giá mai nulla è che si neghi.
Tratto l’avanzo fuor del mio tesoro,
dai ferri alfin mi liberai con l’oro.
312.Con l’oro ebbi il destriero, e d’armi cinto
attendo che sia in Ciel l’Alba risorta,
ch’io non vo’ giá, se per Amor fui vinto,
esser vinto in amore: Amor m’è scorta.
O ch’io sia in una o in altra guisa estinto,
che che n’avegna pur, poco m’importa:
perché soffrir non può morte piú ria
che non morir, chi di morir desia.
313.Non stiam dunque d’andar, ch’agghiaccio ed ardo
tanto ch’a l’alta impresa io m’avicini.
Troppo nóce l’indugio, e s’io ben guardo,
par giá la notte a l’Occidente inchini.
Ecco il Pianeta inferiore e tardo
che tien degli Hemisperi ambo i confini.
Vedrai, se movi a seguitarmi il piede,
prova d’ardire, e paragon di fede. —
314.Cosi parlava il Cavalier dal nero,
e poi ch’ebbe a la lingua il fren raccolto,
dissegli Adon: — Pietosa istoria in vero.
Signor, narrate, e con pietá v’ascolto.
Però fate buon cor, ché, com’io spero,
la gran rota a girar non andrá molto.
Figlie son del dolor le gioie estreme,
e del frutto del riso il pianto è seme.
315.Grande l’ardir, ma degno è di clemenza,
e s’è fallo amoroso, il fallo è lieve,
perché l’istesso error fassi innocenza
qualor la volontá forza riceve.
Argene, se ’n sé punto ha di prudenza,
sí leggiadra uni’on scioglier non deve.
Vuoisi in prima pregar; poi quella strada
ch’è chiusa a la ragion, s’apra la spada.
316.Lasciate pur, ch’io sol senza conforto
mi dolga ognor di mia crudele stella. —
Cosí diss’egli, e fu il suo dire absorto
dal dolce pianto, e ruppe la favella.
Ma giá Sidonio intanto è in piè risorto
dal prato erboso, e risalito in sella.
Adone il segue, e col parlar diffalca
la noia del camin, mentre cavalca.
317.D’Amor i torti e del suo proprio male
parte gli prende a raccontar tra via,
e come di fortissimo rivale
fugge l’ira, il furor, la gelosia.
Tace i nomi però, né scopre quale
o la sua Donna, o il suo nemico sia,
e dubitando pur d’alcun oltraggio,
palesar non ardisce il suo legnaggio.
318.Giá da’ termini Eoi spunta l’Aurora,
giá la caligin manca, e ’l lume cresce.
Non è piú notte, e non è giorno ancora,
col chiaro il buio si confonde e mesce.
Non tutto è sorto il Sol de Tonde fora,
ma si solleva a poco a poco ed esce,
ché se bene il suo raggio il Ciel disgombra,
vi resta pur qualche reliquia d’ombra:
319.quando passando per l’orribil tana,
che fu giá de’ ladroni alloggiamento,
veggiono ad una quercia non lontana
un cadaver ch’appeso agita il vento.
Guarda Sidonio la figura estrana,
c’ha di femina il viso e ’l vestimento,
e perch’è l’aria ancor tra chiara e fosca,
dubbio è tra ’l si e ’l no, se la conosca.
320.Piú gli par, quanto piú le s’avicina,
Grifa la falsa vecchia, e certo è dessa,
che de l’ingiuria fatta a la Reina,
e de l’ira ch’avea contro se stessa,
che nata fusse sí mortai ruina
per la gran tradigion da lei commessa,
desperata d’Amor, non che pentita,
di Pafo occultamente era partita.
321.E giunta presso a la solinga cava,
ch’Adon giá travestito in grembo accolse,
mentre la turba ria la minacciava,
che colá per cercarlo il piè rivolse,
da l’antica prigion che la serrava,
sorpresa dal timor, l’anima sciolse,
ed a quel tronco poi fu per diletto
impiccata da lor, come s’è detto.
322.A pena agli occhi suoi Sidonio crede,
e s’accosta ben ben sotto la pianta,
alfin ringrazia il Ciel, che gli concede
d’un tanto danno una vendetta tanta,
e consolato assai di quel che vede,
prorompe — O cara, o benedetta, o santa
quell’arbor, quella mano, e quella corda,
che dal mondo smorbò peste sí lorda.
323.Rimanti ad infettar questi deserti
gioco ai vènti, ésca ai corvi empia e nefanda;
ben che se conoscessero i tuoi merti,
aborririan si fetida vivanda.
La terra non potea piú sostenerti,
però ne l’aria ad alloggiar ti manda!
Or piú non curo i propri mali, e godo
ch’i nostri nodi almen vendichi un nodo. —
324.Tace, e poc’oltre van per quel camino,
ch’altro orrendo spettacolo gli arresta.
Ecco un corpo trafitto, a cui vicino
eccone un altro ancor, ch’è senza testa;
e da lor non lontano ecco un mastino
sviscerato giacer ne la foresta.
Adon s’accosta, e ben conosce a pieno
quel eh‘è piú guasto e si conosce meno.
325.Ch’è Filora, il sa ben; ma chi reciso
dopo la sua partita il capo l’abbia
pensar non sa, ben che dal cane ucciso,
che di vermiglio ancor tinte ha le labbia,
trar può chiaro argomento, e certo aviso,
che cibo ei fu de la canina rabbia.
Yolgesi a l’altro, affisa il guardo in esso,
e per Filauro il risconosce espresso.
326.Compatisce, e stupisce, e giá per questo
come la cosa stia non ben intende,
né che quell’accidente empio e funesto
seguito sia per sua cagion comprende.
Udito il caso doloroso e mesto,
per chiarirsi del ver, Sidonio scende.
Quando chi sien coloro Adon gli conta,
ferma il cavallo, e da l’arcion dismonta.
327.Le lor persone e conosciute e viste
ne la Corte di Menfi avea piú volte,
onde quando di polve e sangue miste
le vide, e lacerate, ed insepolte,
forte gli spiacque, e da le luci triste
ne versò per pietá lagrime molte,
e disse: — Ah ben contro ragion si toglie
l’onor devuto a queste belle spoglie!
328.Spoglie belle e reali, ahi quanto a torto
giacete esposte a le ferine brame.
Ma s’a le vostre vite, ancor che corto,
un sol fuso commun filò lo stame,
e questo e quello ha generato e morto
un ventre illustre, ed una mano infame,
dritto è che Tossa anco un sepolcro asconda,
e l’un e l’altro cenere confonda. —
329.Cosi dicendo, acconcio il peso e messo
sovr’una bara d’intrecciati steli,
ne la tomba, ch’eretta era lá presso,
depositaro i duo squarciati veli.
Ciò fatto, il Cavalier col sangue istesso
ch’uscí de le lor piaghe aspre e crudeli,
nel sasso de l’avel scrisse di fora:
“ Reliquie di Filauro, e di Filora ”.
330.Adon nel sepelir la coppia estinta
sí del mal d’amboduo s’afflisse e dolse,
che conservar, ben che di sangue tinta,
de’ fregi lor qualche memoria vòlse;
onde di smalto a lui tolse una cinta,
a lei d’or riccamato un velo ei tolse.
Poco accorto pensier, sciocco consiglio,
che gli fu poi cagion d’alto periglio.
331.L’opra a pena fornita, odon le fronde
scrosciar da presso, e scotersi le piante,
ed ecco uscir da le vicine sponde
uom, che quasi statura ha di Gigante.
Io non so come in si bel loco, o donde
venne sí sconcio e barbaro abitante.
Ama le cacce, e per caverne e selve,
belva molto peggior, segue le belve.
332.Lunga la capegliaia, e lunga e nera
la barba e ’l vello ha l’animal feroce.
Mente umana non ha, né forma vera,
ed esprimer non sa distinta voce.
A l’altre fere insidiosa fera,
per nutrirsi di lor, danneggia e nóce.
Gli uomini ingoia, e quand’ei può pigliarne,
ingordo è piú de la piú nobil carne.
333 - Vivea solingo in sotterraneo albergo,
ispido il corpo e setoloso tutto.
Veniva armato d’un estranio usbergo,
che di pelle di Tigre era costrutto.
Usclan le braccia dai confin del tergo
per due bocche di Drago orrido e brutto;
e pur di Serpe entro una scorza cava
molte quadrella a l’omero portava.
334.Tenea ferrato in mano un baston crudo
duro, pesante, e noderoso, e grosso.
D’una conca di pesce avea lo scudo
ben forte e saldo, e ’n testa un zuccon d’osso.
Tuttoquanto del resto andava ignudo,
e senza piastre e senza maglie addosso,
né vestiva altre spoglie al caldo, al gelo,
se non quanto il copriva il folto pelo.
GLI ERRORI
23Ó
335.Scherma non ha, non ha ragion di Marte,
ma di forza e destrezza ogni altro avanza,
e dove manca esperienza ed arte,
l’agilitá supplisce, e la possanza.
Venne costui gridando a quella parte,
dov’avea di venir sovente usanza,
e mezo ancor tra strangolato e vivo
un suo Daino lanciò nel primo arrivo.
336.Un Daino a prima giunta il fier Selvaggio,
ch’avea pur dianzi in quelle macchie preso,
scagliò contro Sidonio, il qual fu saggio
di quel colpo a schivar l’impeto e ’l peso,
che trasse il tronco d’un robusto faggio,
quasi fulmin celeste, a terra steso.
Il mostro allor piú rapido che vento,
gli aventò tre saette in un momento.
337.Due ne volano a vóto, e la corazza
dal terzo strale il Cavalier difende.
I dardi lascia, ed a due man la mazza
senza indugio il peloso intanto prende.
Occorre l’altro a quella furia pazza,
e ’l brando oppon contro il baston che scende,
e per mezo gliel taglia; in questo mentre
tira di punta, e lo ferisce al ventre.
338.La roza Bestia, che non mai creduto
in lui trovar tanta difesa avria,
visto che contro il ferro il cuoio irsuto
non giova, Adone afferra, e ’l porta via.
Si dibatte il fanciullo, e chiede aiuto,
ma invan, ché giá colui l’ha in sua balía,
ond’a sdegno e pietá mosso il Guerriero
prestamente rimonta in su ’l destriero.
339.Per dar al mesto Giovane soccorso,
ne la foresta a tutta briglia il caccia,
ma di stender a pien spedito il corso
la spessura degli arbori l’impaccia.
L’insolente fellon senza discorso,
ch’Adone impaurito ha tra le braccia,
quando giunto si vede, a terra il getta,
poi si rimbosca, ed a fuggir s’affretta.
340.Volgesi alfine, e d’un grand’olmo antico,
per spiccarne un troncon, le cime abbassa,
ina tronche intanto il feritor nemico
su ’l ramo istesso ambe le man gli lassa.
Raddoppia il colpo, e in men ch’io noi ridico,
un occhio imbrocca, e ’l cerebro gli passa,
ond’a cader sen va con fier muggito
il difforme Salvatico ferito.
341.Per una ripa, che da l’orlo al fondo
trecento braccia ha dirupato il sasso,
Sidonio allor Io smisurato pondo
spinge col piede, e lo trabocca al basso.
Cerca Adon poscia indarno, e perché ’l mondo
giá si rischiara, alfin ritira il passo,
e quindi esce a l’aperto in largo piano,
che da Pafo non è molto lontano.
342.Il buon destrier per le spedite strade
sollecitò con importuni sproni,
ma pur quand’egli entrò ne la cittade
eran de l’alto dí pieni i balconi.
Scorre di qua di lá borghi e contrade,
e giunge a la gran piazza in su gli arcioni,
dove un teatro spazioso e novo
coronato è di sbarre in forma d’ovo.
GLI ERRORI
3»
343.Vede gran rogo acceso in un de’ lati,
ed a soffiarlo il fier ministro intento,
per entro i cavi mantici agitati
l’aure comporre, e concepirvi il vento:
poi partorire incitatori i fiati
dal gonfio sen del gravido stromento,
lo cui spirto vivace a poco a poco
dá licenza a le fiamme, anima al foco.
344.Da la piú agiata e piú sublime vista
del bel Palagio che lo spazio serra,
Argene in atto assai turbata e trista
china, guardando il campo, i lumi a terra;
e gran truppa di Donne è seco mista,
che stan tremanti ad aspettar la guerra,
la guerra, in cui de’ duo prigioni in breve
l’alto giudicio diffinir si deve.
345.Pende da tetti intorno e da cornici,
come a mirar si suol giostra o torneo,
di curiose turbe spettatrici
innumerabil numero plebeo.
Apresi il passo il Duca de’ Fenici,
non conosciuto in un campione e reo,
e trova a passeggiar per lo steccato
tutto soletto un Cavaliero armato.
346.Picca un corsier tra le pruine e ’l gelo
nato del Rheno in su la fredda riva,
tutto tutto ermellino, e bianco il pelo
sovra l’istessa sua neve nativa.
Gli fa su gli occhi il crin candido velo,
candida ancor la coda al piè gli arriva;
ma con spoglia nevosa e patria algente
sfavilla in lui però spirito ardente.
347.Bianco il destrier, bianco l’usbergo, e bianco
di bianchi fregi ha il guernimento adorno,
e di penne di Cigno il cimier anco
canuto ondeggia e si rincrespa intorno.
Lo scudo, che sostien col braccio manco,
a l’argento purissimo fa scorno,
e porta ne la lancia, onde combatte,
un pennoncel pur del color del latte.
348.Oltre la piuma, in cima a la celata
amoroso mistero è sculto e finto.
Havvi vaga Colomba innargentata,
che piagne il caro maschio in rete avinto,
e batte l’ali, e mesta e scompagnata
mostra ne l’atto il gemito distinto.
Un motto in lettre d’òr l’è scritto al piede:
' Pari al candor de l’armi è la mia fede ”.
349.La nobil portatura e la sembianza
de l’ignoto Guerrier ciascun commenda.
Ma Sidonio in quel mezo oltre s’avanza
per saver chi sia questi, e cui difenda,
e si caccia tra ’l vulgo, ov’ha speranza
che meglio di tal fatto il ver s’intenda:
ed ode d’ognintorno, ove si giri,
fremer singulti, e mormorar sospiri.
350.— Deh con l’eterna man, Giove, saetta
da le porte del Ciel celeste lampo,
ch’apporti a l’innocente Giovinetta
(ché tal creder si dee) difesa e scampo.
Pia dunque a perder sua ragion costretta
per non aver chi la sostenga in campo?
Pia che tanta beltá su ’l fior degli anni
ad infame patibulo si danni?
351.S’indegno di perdon, di mille pene
degno, un vile stranier Campion ritrova,
ed uom, che ’n sangue o in amistá gli attiene,
per lui s’espone a perigliosa prova,
innocenza reai deh come aviene
ch’oggi a pietate alcun de’ suoi non mova?
come consente Amor di restar vinto?
e che sia ’l suo per altro incendio estinto? —
352.Questi in languido suon sommessi accenti
con guance smorte e luci lagrimose
bisbigliando per tutto ivan le genti
di spettacol si tragico pietose.
Comprende ei dal tenor di que’ lamenti,
e da molt’altre investigate cose,
che per lui quel Guerrier la pugna piglia:
onde sdegno n’ha insieme, e meraviglia.
353.Imaginar non sa chi sia costui
si d’amor seco o d’obligo congiunto,
che ’n periglio mortai d’entrar per lui
espresso ha preso e volontario assunto.
Sia pur chi vuol, né di tutela altrui,
né di sua propria vita ei cura punto,
e giá s’accosta a l’aversario estrano
con l’elmo in testa, e con la lancia in mano.
354.— Tu, che de’ casi altrui briga ti prendi,
dimmi — gli disse — o Cavalier, chi sei?
Di’, per qual cortesia sciocca difendi
(comprator di litigi) i falli e i rei?
Meco (forse noi sai) meco contendi,
onde celarmi il nome tuo non dèi;
e se ’l tuo nome pur vorrai celarmi,
scoprimi qual cagion ti move a l’armi.
355.Veder non so perché sí dubbia impresa
temerario intraprendi, ed armi tratti
senza frutto sperar di tua contesa,
o saper la ragion per cui combatti.
A Sidonio non cal di tua difesa,
né rifiuta la pena a’ suoi misfatti.
Follia fa Tuoni qualor querela cerca
da cui premio non miete, onor non merca.
356.E che tu sia mallevador de’ torti,
oltre che per piú capi è manifesto,
a farne in tutto i circostanti accorti
per mia stima bastar devria sol questo,
ch’a discolpar un reo di mille morti
non chiamato ne vieni, e non richiesto.
Ciò che ti vai, se di sua bocca istessa
d’aver peccato il peccator confessa? —
357.Cosi parlava il brun, né senza orgoglio
dal bianco Cavalier gli fu risposto.
— Publicar chi mi sia di rado io soglio,
ché studio a mio poter girne nascosto.
Teco in belle ragion garrir non voglio,
Vienne con Tarmi a disputar piú tosto,
ché con lingua di ferro io ti rispondo,
miglior guerrier che dicitor facondo.
358.Ma chi se’ tu, che de la ria Donzella
onestar vuoi la causa, e piú l’accusi?
Dichiara pur di propria bocca anch’ella
l’amoroso delitto, e tu lo scusi;
e come a l’alta legge, avendo quella
giá trasgredita, or d’ubbidir ricusi,
a sostener per lei quel che sostieni,
non chiamato o richiesto ancor ne vieni.
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GLI ERRORI
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359.Me difensor di torti a torto chiami,
perché Vergin bennata e nata ai regni
no che viver non dee di fregi infami
macchiata il nome, e di sua stirpe indegni.
Offendi piú quel che difender brami,
discopri piú quel che coprir t’ingegni,
ché chi scusar l’error vuol con menzogna
veste se stesso de l’altrui vergogna.
360.Or veder se schermir te stesso sai,
piú ch’altrui spaventar, molto mi tarda,
e mi tarda provar s’abbi, com’hai
oltraggioso parlar, destra gagliarda.
Se per Dorisbe tu battaglia fai,
per Sidonio son io, da me ti guarda;
e sappi che mi fia cara e gradita
vie piú la morte tua, che la mia vita. —
361.Volgon ciò detto i freni, e ne le mani,
per arrestarle, stringonsi le lance:
e diviso dagli Arbitri sovrani
il Sole ad amboduo con giusta lance,
poi ch’un tratto di strai son giá lontani,
ai veloci destrier pungon le pance,
e con le briglie abbandonate al morso
vengono ad incontrarsi a mezo il corso.
362.Il bianco o per la fretta, o per la stizza
errò rincontro e corse l’asta in fallo.
L’altro ne la visiera il colpo drizza,
dove breve fessura apre il metallo,
e con duro tracollo in su la lizza
fuor per la groppa il trae giú da cavallo:
e cade sí, che piú non è risorto,
né ben si sa s’è tramortito, o morto.
363.Sidonio, che malconcio in terra il mira,
né risentirsi pur de la caduta,
per veder se ’l conosce, e s’ancor spira,
smonta di sella, e gli alza la barbuta:
e ritrova esser Donna (e se n’adira)
colei che di sua man giace abbattuta.
Per accertarsi piú, l’elmo le slaccia,
e di Dorisbe sua scopre la faccia.
364.Vede ch’ella è Dorisbe, ed — Ahi crudele,
crudele oh me, me piú d’ogni altro infido!
Or guarda opra — gridò — d’alma fedele,
vengo a salvarti, e di mia man t’uccido! —
Volea piú lunghe far le sue querele,
ma gli fu dal dolor sospeso il grido,
né ben sapea, tanto stupor l’oppresse,
s’egli il falso sognasse, o il ver vedesse.
365.Scaglia il tronco infelice incontro al suolo,
e ’ncontro al suol lo scudo e l’elmo gitta.
Poi dolcemente amareggiando il duolo,
bacia colei che crede aver trafitta.
V’accorre allor con numeroso stuolo
di quel popol dolente Argene afflitta,
ed assalita è ben da nòve angosce
quando i duo prigionier mira e conosce.
366.Ferme, e di foco e sangue accese ed ebre
ne la figlia le luci un pezzo tenne;
e quando tinta di color funebre
la vide, infino agli occhi il pianto venne;
ma lo sdegno reai su le palpebre
le giá cadenti lagrime sostenne,
stimando di vulgar tropp’umil gente
bassezza il lagrimar publicamente.
367.Stupisce in un, sospira, e freme, e langue,
ch’ancor non sa di ciò l’istoria vera.
Negar non può pertanto al proprio sangue
la devuta pietá, ben che severa.
Intanto al gran romor la bella essangue,
la Vergin per amor fatta Guerrera,
giá si riscote, e cangia in rose i gigli
rendendo al volto i suoi color vermigli.
368.Quando Dorisbe il desiato amante,
che credea prigionier, presso si scorge,
e ch’egli è quei, che qual nemico innante
sfidò con l’armi, attonita risorge.
La madre, ancor che mostri altro sembiante,
ben magnanimo l’atto esser s’accorge.
Intender nondimen vuol di lor bocca
come fuggiti sien fuor de la rocca.
369.Narra Dorisbe pria, che quando accorta
si fu Grifa del tutto esser partita,
l’abbandonata e malguardata porta
tosto da sé l’agevolò l’uscita,
e d’un servo fedel sotto la scorta,
che le prestò secretamente aita,
avea per esseguir l’alto pensiero
accattate quell’armi, e quel destriero.
370.Soggiunge indi Sidonio: — Amor mi porse
(Amor figlio d’un fabro) arte ed ingegno,
ond’apersi i serrami; ei mi soccorse
ne l’operazi’on del bel disegno.
Non crediate però, ch’io brami forse
di fuggir morte, anzi a morir ne vegno;
ma pria ch’io mora almen, la ragion mia
(poi di me si disponga) udita sia.
371.Piacciavi tanto sol, Donna reale,
de l’alterato cor sospender l’ire,
che con clemenza a la giustizia eguale
si pieghi ad ascoltar quant’io vo’ dire.
Fate i Giudici vostri al tribunale
vosco (vi prego) e i Principi venire,
ch’io vo’ di tutti lor l’alta presenza
a proferir di me giusta sentenza. —
372.Membrando Argene che costui da morte
campolla giá, quando la serpe uccise,
non seppe in suoi rigori esser sí forte
che ciò negasse, e per udir s’assise.
Ei, raccolta che fu tutta la Corte,
a piè del trono inginocchion si mise;
tratta la spada poi de la vagina,
a lei la porse, e cominciò: — Reina,
373.sovenir ben vi dee del sacro patto
giurato a la gran Dea vendicatrice,
che colui degno sol fia d’esser fatto
de la mia Donna possessor felice,
ch’ai regio sangue avrá pria sodisfatto
col capo del figliuol del Re Fenice:
quel nemico mortai che giá diè morte
al vostro glorioso alto consorte.
374.Or a voi si conviene il giuramento
meco adempir, com’io v’adempio il dono.
Ecco che di Sidonio io vi presento
il capo, e ’l ferro in un; Sidonio io sono.
Son d’ubbidir, son di morir contento,
quando indegno appo voi sia di perdono,
che s’egli avien che di tal mano io mora,
la gloria del morire il mal ristora.
375.Son vinto, e prigionier, non mi difendo:
la spada in man, la testa in grembo avete.
Fate ciò che v’è bello; e pur volendo
pascer del sangue mio la vostra sete,
per lasciarla troncar, l’armi vi rendo,
sfogar l’odio omai tutto in me potete:
se merita però tanta vendetta
error, che per errore altri commetta. —
376.Nel sen di lei con umil gesto e pio
inchinò la cervice intanto, e tacque.
A quel parlar nel cor di chi l’udio
con gran pietá gran meraviglia nacque.
Occhio non fu si barbaro, ch’un rio
non versasse d’amare e tepid’acque.
Ma di Sidonio Argene udito il nome,
da le piante tremò fino a le chiome.
377.Turbossi tutta, e variando il volto,
pallido pria, poi piú che fiamma rosso,
data in preda al furor rapido e stolto,
forte se l’ebbe ad ambe man percosso.
Pur raccogliendo a l’ira il fren disciolto
da qualche tenerezza il cor commosso,
sedò quel moto, e dilagati in fiumi
al Cielo alzò con queste voci i lumi:
378.— O stelle, o Dei, deh qual vi move a queste
cose qui consentir furore o sdegno?
Di marito e di Re lasciar voleste
vedova la consorte, orfano il regno.
Morir di ferro a torto anco il faceste,
né di lui mi rimase altro ch’un pegno,
pupilla miserabile, costei,
che pupilla era pur degli occhi miei.
379.E questa ancor mia cara unica prole
veggio delusa con perverso inganno,
e per forte destin, che cosí vòle,
a brutta morte io stessa or la condanno.
E quel che vie piú ch’altro assai mi dole,
prender vuol per Signore, e per Tiranno,
dimenticata de l’oltraggio antico,
perfido amante, il suo maggior nemico.
380.Dunque con chi del padre aprí le vene
vivrá Dorisbe gloriosa e lieta?
Or che fará la sfortunata Argene?
Dee crudel dimostrarsi, o mansueta?
Benignitá reai l’un non sostene,
obligo maritai l’altro mi vieta.
Misera, a qual partito omai m’appiglio,
s’ov’abonda ragion, manca consiglio?
381.S’avien che ’l dritto e ’l debito mi mova
quel sangue a vendicar, che sangue grida,
un, che giá preso in mio poter si trova,
senz’alcuna pietá convien ch’uccida;
un, che di mia virtú viene a far prova,
ed umilmente in mia bontá confida;
un, che pentito e supplice mi chiede
d’involontario error grazia e mercede.
382.S’essaudisco il pregar di chi mi prega,
e ’l gran castigo a perdonar m’abbasso,
al cener degno il suo dever si nega,
e l’alta ingiuria invendicata io lasso.
Oimè, chi mi ritiene? e chi mi lega,
sí che in tra due rimango immobil sasso?
Punir devrei l’offesa onde mi doglio,
ma divenir carnefice non voglio.
GLI ERRORI
Deh come tanto cor Sidonio avesti,
de’ tuoi nemici a crederti in balía?
Come celarti poi sí ben sapesti,
che t’ebbi in man, né ti conobbi pria?
Ed or che ti conosco, a che volesti
pormi in necessitá d’esserti pia?
Perché mi sforzi a far, lassa, al Re morto
ed a la mia grandezza un sí gran torto?
O mie schernite e disprezzate leggi,
a le leggi d’Amor ciò si condoni.
Amor, a te, che l’Universo reggi,
non a pietá, cotal pietá si doni.
Scusi l’alma gentil dagli alti seggi
l’atto, e questo perdono a me perdoni:
ché meglio è di me stessa aver vittoria,
che di vinto nemico acquistar gloria. —
Non era giunta al fin di questo detto,
non avea freno ancor posto a la voce,
quando Dorisbe, il cui confuso petto
era steccato di conflitto atroce,
dov’amore ed onore, odio e dispetto
facean guerra tra lor cruda e feroce,
aventossi a la spada, e gliela tolse,
indi in questo parlar la lingua sciolse:
— Poco a lui, meno a me si dee pietate,
anzi a lui si perdoni, a me non mai.
Io sol le leggi ho rotte e violate,
morir sola degg’io, che sola errai.
E vo’ morir per trar fra le malnate
la piú malnata e misera di guai;
e questo è il premio alfin, che malaccorta
da l’amor del nemico ella riporta.
387.Ebbi di sciocco amore i desir vaghi,
la sciocchezza purgar deggio col ferro.
A l’amante l’amor giust’è ch’io paghi,
se ’n credendolo amante ancor non erro.
Quando averrá ch’io questo petto impiaghi,
vedrá quanto nel cor nascondo e serro,
e ch’ancor vive entro ’l piú nobil loco
il mal acceso e mal nutrito foco.
388.Xon vacilla la destra, il cor non teme,
fará due gran vendette una ferita.
Vendicherò con un sol colpo insieme
il padre ucciso, e l’onestá tradita.
Voglio uccider me stessa, e con la speme
d’ogni conforto abbandonar la vita,
per uccider l’amor, ch’ingiustamente
porto al crudo uccisor de la mia gente.
389.Ferro fedel, giá de l’amato fianco
famoso onore, ed onorato pondo,
per man del tuo Signore invitto e franco
del mio sangue reale ancora immondo,
fra quante imprese di pugnar non stanco
fec’egli mai piú gloriose al mondo,
questa fia la piú degna e nobil palma,
da l’indegna prigion scioglier quest’alma.
390.In questo cor malvagio apri la strada,
origine e cagion de’ falli miei,
acciò che come sempre, o cara spada,
compagna a’ buoni e fida amica sei,
cosí ti dica ognun, qualor t’accada
punir il male, aspra aversaria ai rei.
Ben di giusta t’usurpi il nome invano
s’impunita ti tocca iniqua mano.
391.Ricevi, ombra paterna, anima chiara,
la morte mia de la tua vota in vece;
e ben quell’ira omai di sangue avara
col proprio sangue tuo placar ti lece,
ch’offerta ti sará forse piú cara
di quante mai questa crudel ne fece.
Darò con far tre alme a un punto liete
a me fama, a lei gioia, a te quiete. —
392.Cosí dice, e tremante il braccio stende,
slunga la spada, e volge al cor la punta;
ma Sidonio la man forte le prende,
ed a tempo la madre anco v’è giunta,
a cui largo dagli occhi il pianto scende,
giá d’amor tutta e di pietá compunta,
e ’l morir disturbando a l’infelice,
la riconforta umanamente, e dice:
393.— Fon’ giú, figlia, la spada insieme, e l’ira,
il pentimento ogni gran biasmo scolpa.
Morí Morasto, e se dal Ciel ne mira,
forse non tanto i nostri errori incolpa,
perché, se dritto al vero occhio si gira,
non fu l’altrui fallir senza sua colpa:
consolandosi almen, che non successe
fallo mai tal, che tanta emenda avesse.
394.Poi ch’ai passato mal non è riparo,
ed io deposti ho giá gli antichi sdegni,
vivi contenta, affrena il pianto amaro,
e del prim’odio ogni favilla spegni.
Abbi di te pietate, e del tuo caro,
ch’oggi mostri ha d’Amor si chiari segni;
degno teco d’unirsi ad egual giogo,
e degno d’altro laccio, e d’altro rogo. —
395.Dopo questo parlar dolce l’abbraccia,
dolcemente la stringe al sen materno,
e baciandole or gli occhi, ed or la faccia,
scopre gli effetti de l’affetto interno.
Poi con Dorisbe sua Sidonio allaccia
in nodo indissolubile ed eterno,
dandogli a pien quanto piú dar gli potè,
la persona in consorte, e ’l regno in dote.
396.Del Re suo padre sovragiunti a questi
rischi dal giorno innanzi erano i messi,
ma taciturni, e sbigottiti, e mesti
stavano a cosí miseri successi.
Tosto che i casi lor fur manifesti,
il proprio affar manifestare anch’essi,
e con parlar facondo ed efficace
n’impetrár meglio e parentela, e pace.
397.Ma qual mai si trovò gioia compita,
cui non fusse il dolor sempre consorte?
o quando il dolce de l’umana vita
lasciò giá mai d’avelenar la morte?
Ecco, mentre la festa è stabilita,
novo scompiglio intorbida la Corte,
perch’ad Argene inaspettati avisi
recati son de’ duo nipoti uccisi.
398.Di Filauro e Filora i servi erranti
poi che piú giorni senz’alcuno effetto
cercaro i lor Signor, con doglie e pianti
tornando riscontrarono un valletto,
il qual traeano a la Reina avanti
tra cento nodi incatenato e stretto,
ch’a piú d’un segno e d’un indizio aperto
ch’ei fusse l’uccisor tenner per certo.
GLI ERRORI
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399.Quando fu quivi il Giovane condotto,
fin a le stelle si levár le strida,
ch’ai cinto, al velo insanguinato e rotto
tosto il conobbe ognun per omicida;
né tempo avea ’l meschin pur da far motto,
né da dir sua ragion fra tante grida.
Sidonio il vide, e vide esser colui
ch’accontato quel dí s’era con lui.
400.Quest’era Adon, che poi ch’a terra spinto
fu da l’uomo inuman, diede in costoro.
Contando a tutti il caso allor distinto
il Prence, e com’al bosco insieme fòro,
innocente il dichiara, ancor che ’l cinto
il contrario dimostri, e ’l drappo d’oro;
e dá relazion lunga e diffusa
di quanto giá cantò la nostra Musa.
401.In questo tempo il giusto Ciel, ch’offeso
non nega ai falli mai devuta pena,
co’ duo complici suoi legato e preso
quivi Furcillo il ladro a tempo mena.
Allor meglio è da tutti il fatto inteso,
ché n’han dal bell’Adon notizia piena,
ed a forza di strazii e di tormenti
giá confessano il vero i delinquenti.
402.Quanto a la Donna, pria, narra Furcillo,
ch’egli da Malagor vide svenarla,
perché con gli altri di lontan seguillo,
e poi la disterrò per dispogliarla.
Ma ’l Garzon come cadde e chi ferillo
nulla dice saperne, e piú non parla.
Sí aspra è la tortura, e sí gli dole,
che la vita vi lascia, e le parole.
403.Poscia ch’alfíne il Giudice s’avede
ch’egli il degno castigo ha prevenuto,
e che ’nvan piú l’afflige, invano il fiede,
ché lo spirito e ’l senso ha giá perduto,
dagli altri duo la veritá richiede,
che tornano a ridir quel c’ha saputo.
Ma rei d’altri delitti e malefici,
son pur dannati agli ultimi supplici.
404.Mentre costoro la funesta tromba
a la croce accompagna, ed a la fune,
vassi con pompa a la selvaggia tomba,
albergo a duo cadaveri commune.
Di voci il bosco e fremiti rimbomba,
piagne ciascun l’indegne lor fortune;
e con essequie illustri ed onorate
trasferiscon que’ corpi a la cittate.
405.Libero a pena Adon, per mano il piglia
Mercurio, e seco il trae fuor de le mura,
e ’n parlar che ’l consola, e che ’l consiglia,
gli dá di presto ben speme secura.
Ragionando cosí, non va due miglia
che giunge ove piú densa è la verdura.
Qui gli mostra il camin che vuol ch’ei segua,
e ciò detto sparisce, e si dilegua.
406.Molto innanzi ei non va, che ’l piede infermo
s’indebolisce a poco a poco, e stanca,
e per quel bosco abbandonato ed ermo
al vigor giovenil la forza manca.
Apre il guscio dorato, il qual gli è schermo
contro la fame, e sua virtú rinfranca.
La stanchezza e ’l digiuno in un restaura,
poi s’addormenta al sussurar de l’aura.
407.E giá dal centro de la rota appare
ben lunge il Sol, che ’l nostro mondo lassa,
e le sue rote folgoranti e chiare,
giá verso Calpe avicinato, abbassa.
Quindi l’argento suo tremulo il mare
trasforma in lucid’or mentre ch’ei passa;
e quinci fuor de le Cimerie grotte
da l’Ocean precipita la notte.