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235.Sí dissi, e dissi il ver, ché ’l mio tesoro
vero e la vera mia somma ricchezza
era sol di colei, ch’io sola adoro,
l’infinita ineffabile bellezza.
I zaffiri, i rubin, le perle e l’oro
conquistar del bel volto avea vaghezza,
e vie piú ch’altro, di quel cor costante
spetrar l’impenetrabile diamante.

236.Con crespa fronte e curve ciglia immote
stupido al mio parlar diede l’orecchio,
gli atti osservando e le fattezze ignote,
il semplice e d’aver cupido Vecchio.
«Quando veraci sien queste tue note»
rispose «a compiacerti io m’apparecchio;
né vo’ ch’indugi ad esservi introdotto,
se non sol quanto a Grifa io ne fo motto.»

237.Era costei la sua consorte antica,
rigida, inessorabile, e ritrosa,
di gentilezza e di pietá nemica,
perfida, quanto cauta, e dispettosa.
Questa fu la gragnuola in su la spica,
questa la spina fu sotto la rosa,
la Medea, la Medusa, e la Megera,
che ne l’alba al mio dí portò la sera.

238.Parla a l’iniqua moglie, e seco piglia
partito d’abbracciar sí ricca sorte.
La Vecchia a ciò lo stimula e consiglia,
l’ingordigia de l’ór l’alletta forte,
e di Fortuna avara ignuda figlia,
Povertá, fa ch’alfin m’apra le porte.
Cosí di por le piante entro le mura
del loco aventuroso ebbi ventura.