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dell'impero romano cap. lxiv. 307

gio di Caracora1, ove si eleggevano i Kan, e ove questi posero la lor residenza. Octai e Mangoù avendo abbandonate le loro tende per abitare una casa, il che indicava già un cambiamento di costumi, i Principi di lor famiglia e i grandi ufiziali dell’Impero imitarono questo esempio. In vece delle immense foreste state un dì teatro delle lor caccie, vennero i parchi, ne’ cui recinti con risparmio di fatica si diportavano: vennero ad abbellire le nuove lor case la pittura e la scultura; i tesori superflui si convertirono in bacini, in fontane e statue d’argento massiccio. Gli artisti cinesi e parigini impiegarono al servigio del Gran Kan il loro ingegno2. Eranvi a Caracora due strade occupate, l’una da operai cinesi, l’altra da mercatanti maomettani: vi si vedeano una chiesa nestoriana, due moschee, e dodici templi consagrati al culto di diversi idoli, d’onde può concepirsi presso a poco un’idea del numero degli abitanti di Caracora, e di quali nazioni diverse quella popolazione fosse composta. Ciò nullameno un missionario francese afferma, che la capitale de’ Tartari non pareggiava nemmeno la piccola città di S. Dio-

  1. La Carta del Danville e gl’Itinerarj cinesi del De Guignes (t. I, part. II, p. 57) pongono, a quanto sembra, il sito di Holin, o Caracora circa seicento miglia a maestro di Pechino. La distanza fra Selinginsky e Pechino è di duemila verste russe, ossia mille trecento, o mille quattrocento miglia inglesi (Viaggi di Bell., vol. 2, p. 67).
  2. Rubruquis incontrò a Caracora il suo concittadino Guglielmo Boucher, orefice di Parigi, che avea fabbricato pel Gran Kan un albero d’argento, sostenuto da quattro lioni che gettavano quattro liquori diversi. Abulgazi (parte IV, p. 367) cita i pittori del Kitay e della Cina.