Le Mille ed una Notti/Storia dei principi Amgiad e Assad
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DEI PRINCIPI AMGIAD ED ASSAD.
«I due principi furono educati con molta cura, e quando giunsero all’età opportuna, ebbero il medesimo aio, gli stessi precettori nelle scienze e nelle belle arti, in cui il re Camaralzaman volle fossero istruiti, ed il maestro medesimo in ciascun esercizio. La viva amicizia concepita l’un per l’altro fin dall’infanzia, aveva dato luogo a quell’uniformità che vie maggiormente l’accrebbe.
«In fatti, giunti all’età d’avere una casa separata per ciascuno, erano sì strettamente uniti, che pregarono il padre Camaralzaman di accordarne una sola per amendue. L’ottennero; e così ebbero i servi stessi, i medesimi ufficiali, gli equipaggi, l’appartamento e la tavola medesima. Insensibilmente, il re Camaralzaman concepì tanta fiducia nella loro capacità e saviezza, che quand’ebbero raggiunta l’età dai diciotto ai venti anni, non provò veruna difficoltà d’incaricarli della cura di presiedere alternamente il consiglio, ogni qual volta ei faceva partite di caccia di più giorni.
«Essendo i due principi egualmente belli e ben fatti, le due regine avevano fin dall’infanzia loro presa per essi un’incredibile tenerezza, in modo però che la regina Badura sentiva maggior inclinazione per Assad, figliuolo della regina Haiatalnefus, che non pel proprio figlio Amgiad, mentre Haiatalnefus propendeva più per Amgiad che non per Assad, ch’era il suo.
«Le regine non presero sulle prime questa tendenza se non per un’amicizia, che procedesse dal vivo attaccamento che conservavano sempre l’una per l’altra; ma a misura che i principi avanzavano in età, questa si convertì a poco a poco in forte inclinazione, e codesta inclinazione in un amore de’ più violenti, quando i giovanotti apparvero ai loro occhi con tali grazie che finirono di accecarle. Tutta l’infamia di questa passione era loro nota; fecero anche grandi sforzi per resistervi, ma la famigliarità con cui li vedevano ogni giorno, e l’abitudine di ammirarli fin dall’infanzia, ed accarezzarli, della quale non istava più in poter loro di vincersi, le accesero d’amore ad un punto tale, che ne perdettero il sonno e l’appetito. Per loro sventura, e per disgrazia dei principi stessi, questi, usi alle loro maniere, non ebbero alcun sospetto dell’abbominevole fiamma.
«Ora, siccome le due regine non eransi fatto un mistero della loro passione, non avendo bastante impudenza di dichiararla a viva voce al principe da cadauna amato in particolare, convennero di spiegarsene ciascuna con un biglietto; e per l’esecuzione di sì pernicioso disegno approfittarono dell’assenza del re Camaralzaman, partito per una caccia di tre o quattro giorni.
«Il giorno della partenza del re, il principe Amgiad presiedette al consiglio, ed amministrò la giustizia fino a due o tre ore dopo mezzodì. All’uscire dal consiglio, mentre entrava nel palazzo, un eunuco lo trasse in disparte, e gli presentò un biglietto della regina Haiatalnefus, cui Amgiad prese e lesse con orrore. — Come! perfido,» disse, terminando di leggere all’eunuco, e sguainando la sciabola, «è questa la fedeltà che devi al tuo re e padrone?» E così dicendo, gli fe’ volar la testa dalle spalle.
«Dopo tale azione, Amgiad, trasportato di rabbia, corse dalla regina Badura, sua madre, in un’aria che ne dinotava il risentimento, le mostrò il biglietto, e la informò del contenuto, avendole prima detto da qual parte venisse. Invece di ascoltarlo, la regina andò in collera essa pure, e dissegli: — Figliuolo, quanto mi dite è un’infame calunnia ed un’impostura solenne: la regina Haiatalnefus è saggia, e vi trovo ben ardito di venirmi a parlare di lei con tanta insolenza.» Il principe, a tali parole, montò sulle furie contro la madre. — Siete tutte cattive le une più delle altre,» gridò; «se io non fossi trattenuto dal rispetto che debbo al re mio padre; questo giorno sarebbe per Haiatalnefus l’ultimo della sua vita. —
«La regina Badura poteva bene, dall’esempio di suo figliuolo Amgiad, arguire che il principe Assad, il quale non era men virtuoso di questi, non riceverebbe con maggior favore la dichiarazione simile ch’ella voleva fargli, ma ciò non le impedì di persistere nel reo divisamemo, e gli scrisse pure un biglietto il giorno seguente, affidandolo ad una vecchia, che aveva libero ingresso nel palazzo.
«Anche la vecchia ebbe la precauzione di consegnare il biglietto al principe Assad mentre usciva dal consiglio, dove aveva a sua volta presieduto. Il principe lo prese, e nel leggerlo, si lasciò trasportare tanto vivamente dalla collera, che senza darsi tempo di finire, sguainò la scimitarra, e punì la vecchia come meritava. Corse quindi all’appartamento della regina Haiatalnefus sua madre, col biglietto in mano, e volea mostrargliolo; ma dessa non gliene diè il tempo, come nemmeno quello di parlare. — So cosa volete,» sclamò, «e siete un impertinente al par di vostro fratello Amgiad. Andatevene, e non comparitemi più davanti. —
«Assad rimase interdetto a quelle parole, alle quali non si attendeva, e che lo misero in tale trasporto, che fu sul punto di darne funesti segni; ma frenatosi, si ritirò senza replicare, per timore che non gli sfuggisse qualche cosa indegna della sua grandezza d’animo. Siccome il fratello Amgiad aveva avuto il riguardo di non dirgli nulla del biglietto ricevuto il giorno innanzi, e ch’egli, dalle parole della regina sua madre, ben comprendeva che dessa non era men colpevole della regina Badura, andò a fargli un tenero rimprovero della sua discrezione, ed unire il proprio dolore col suo.
«Le due regine, disperate di aver trovato ne’ principi una virtù che doveva farle rientrare in sè medesime, rinunziarono a tutti i sentimenti di natura, e concertarono, insieme di farli perire. Diedero ad intendere alle loro donne ch’essi avevano intrapreso di violentarle; e fattone tutte le finte con lagrime, con grida e colle maledizioni che loro scagliarono, coricaronsi nel medesimo letto, come se la resistenza, che pur finsero d’aver opposta, avessele ridotte agli estremi....
— Ma, sire,» disse qui Scheherazade, «il giorno spunta, e m’impone silenzio.» Tacque, e la notte seguente proseguì la medesima storia, dicendo al sultano delle Indie:
NOTTE CCXXIX
— Sire, lasciammo ieri le due snaturate regine nella risoluzione detestabile di perdere i due principi loro figliuoli. Il giorno dopo, il re Camaralzaman, al ritorno dalla caccia, rimase assai maravigliato di trovarle a letto insieme, abbattute, ed in uno stato che seppero tanto bene contraffare, ch’egli, mosso a compassione, chiese con premura cosa fosse loro accaduto.
«A tale domanda, le perfide donne raddoppiando i gemiti ed i singhiozzi; e quando il re le ebbe ben bene sollecitate, la regina Badura prese finalmente a dire: — Sire, il giusto dolore, dal quale siamo comprese, è tale, che noi non dovremmo più rivedere la luce del sole, dopo l’oltraggio che i principi vostri figliuoli ne fecero con una brutalità senza esempio. Per una trama indegna della loro nascita, la vostra lontananza ispirò ad essi l’ardire e l’insolenza di attentare al nostro onore. Vostra maestà ci dispensi dal dirne di più; l’afflizione nostra basterà per farle comprendere il resto. —
— «Il re fece chiamare i due principi, ed avrebbe lor tolta la vita di propria mano, se il vecchio re Armano, suo suocero, che trovavasi presente, non avessegli trattenuto il braccio. — Figliuolo,» gli disse, «che cosa pensate di fare? Volete macchiarvi le mani ed innondare il palazzo del proprio vostro sangue? V’hanno altri mezzi di punirli, se è vero che siano rei.» Procurò di acquetarlo, e lo pregò d’esaminar bene se fosse certo che avessero commesso il delitto di cui venivano accusati.
«Camaralzaman potè bene usar tanto impero su sè medesimo, onde non essere il carnefice dei proprii figliuoli; ma avendoli fatti arrestare, fece venire sulla sera un emiro chiamato Giondar, e gli comandò di andare ad ucciderli fuor della città, nel luogo e quanto più lontano gli piacesse, e non riedere se non recasse i loro abiti bagnati di sangue, in segno dell’esecuzione dell’ordine che gli dava.
«Giondar si pose in cammino coi principi, e viaggiò tutta la notte; la mattina appresso, quando fu smontato, significò ai giovani, colle lagrime agli occhi, l’ordine ricevuto. — Principi,» disse loro, «assai crudele è questo incarico, ed è per me una mortificazione delle più sensibili d’essere stato scelto ad eseguirlo: volesse Iddio che potessi dispensarmene! — Fate il dover vostro,» risposero i giovani; «sappiamo bene che voi non siete la causa della nostra morte; e ve la perdoniamo di buon cuore. —
«Dicendo queste parole, i principi si abbracciamo e si dissero l’ultimo addio con tanta tenerezza, che rimasero a lungo senza separarsi. Assad quindi si accinse pel primo a ricevere il colpo mortale. — Cominciate da me;» diss’egli a Giondar; «che non abbia il dolore di veder morire il mio caro fratello.» Amgiad si oppose, e Giondar non potè, senta versare più lagrime di prima, restar spettatore della loro contestazione, che dinotava quanto fosse sincera e perfetta la loro amicizia.
«Terminarono infine quella commovente contesa, pregando Giondar di legarli insieme e metterli nella situazione più comoda, per iscagliare ad entrambi il colpo di morte nel medesimo tempo: — Non negate,» soggiunsero, «di dare la consolazione di morire insieme a due sfortunati fratelli, i quali, perfino nell’innocenza, tutto ebbero comune dacchè sono al mondo. —
«Annuì l’emiro al desiderio dei principi: li legò, e messili nella situazione che stimo più opportuna per non mancare di mozzar loro il capo in un sol colpo, chiese se avessero qualche cosa da comandargli prima di morire.
«— Siamo a pregarvi d’un’unica cosa,» risposero i principi; «di assicurar bene, cioè, al vostro ritorno il re nostro padre, che noi moriamo innocenti, ma che non gl’imputiamo lo spargimento del nostro sangue. In fatti, c’è noto ch’egli non è ben informato delle verità del delitto, onde siamo accusati.» Giondar promise che non mancherebbe di farlo, e nel tempo stesso sguainò la sciabola. Il suo cavallo, che stava legato ed un albero vicino, spaventato di quell’atto e del bagliore della scimitarra, spezzò la briglia, fuggì, e si mise a correre di galoppo per la campagna.
«Era un cavallo di gran valore e riccamente bardato, la cui perdita sarebbe assai dispiaciuta a Giondar; turbato di tal caso, invece di tagliare la testa ai principi, buttò via la sciabola, e corse dietro al cavallo per raggiungerlo. Il cavallo, che era robusto, fece parecchie capriole davanti a Giondar, e lo condusse fino ad un bosco, nel quale si gettò. Lo seguì l’emiro, ma i nitriti del cavallo avendo svegliato un leone che dormiva, il feroce animale accorse, ed invece di volgersi al cavallo, corse difilato al padrone; appena lo ebbe veduto.
«Non pensò più questi al destriero, trovandosi in ben maggior imbarazzo per la conservazione della propria vita, e cercò di evitare l’assalto del leone, il quale non lo perdeva di vista, e lo seguiva da vicino framezzo agli alberi. In tale estremità: — Dio non mi manderebbe questo castigo,» diceva fra sè, «se i principi, ai quali mi fu comandato di togliere la vita, non fossero realmente innocenti; e per colmo di sciagura non ho neppure la mia sciabola per potermi difendere. — «Durante l’allontanamento dell’emiro, i due principi furono egualmente tormentati da ardentissima sete, cagionata dal terrore della morte, nonostante la generosa loro risoluzione di subire l’ordine crudele del re loro padre. Il principe Amgiad fece notare al fratello di non trovarsi lontani da una sorgente di limpida acqua, e gli propose di sciogliersi dai legami per andarne a bere. — Fratello,» rispose Assad, «pel poco tempo che abbiamo ancor da vivere, non val la pena di estinguere la sete; ben la sopporteremo per pochi altri momenti. —
«Senza badare a tal rimostranza, Amgiad si slegò; e sciolse suo malgrado anche il fratello: andarono quindi insieme alla fonte; e quando ebbero bevuto, udirono il ruggito del leone ed altissime strida nel bosco dov’erano entrati il cavallo e Giondar. Amgiad corse a prendere la scimitarra gettata dall’emiro, e disse ad Assad: — Fratello, corriamo in soccorso dell’infelice Giondar; forse giungeremo in tempo per liberarlo dal pericolo in cui si trova. —
«Non indugiarono i principi in tal pensiero, ed arrivarono nell’istante medesimo che il leone aveva atterrato Giondar. Il feroce animale, vedendo venirsi incontro il principe Amgiad colla sciabola alzata, lasciò la preda, e si spinse in gran furia contro di lui; ma questi lo ricevè con intrepidità, e gli menò tale un colpo, e con tanta forza e destrezza, che lo stese morto a terra.
«Quando Giondar ebbe conosciuto di dover la vita ai due principi, si gettò ai loro piedi, e li ringraziò per l’alta obbligazione che lor doveva, in termini che ben denotavano la sua riconoscenza. Principi,» disse, rialzandosi e baciando loro le mani, colle lagrime agli occhi, «mi guardi Iddio dall’attentare alla vostra vita, dopo lo splendido e cortese soccorso che mi prestaste! Non si rimprovererà mai all’emiro Giondar d’essere stato capace di sì nera ingratitudine. —
«— Il servigio che vi abbiam reso,» risposero i principi, «non deve impedirvi dall’eseguire l’ordine vostro. Ripigliamo prima il vostro cavallo, e torniamo poi al luogo ove ci avete lasciati.» Non istentarono molto a riprendere il cavallo, che, passata la foga, erasi fermato. Ma di ritorno alla sorgente, per quante preghiere ed istanze facessero, non poterono mai persuadere all’emiro di farli morire. — La sola cosa che mi prendo la libertà di domandarvi,» disse questi, «e che vi supplica di non negarmi, è che vogliate accomodarvi di quanto posso dividere fra voi due del mio abito, di darmi ciascheduno il vostro, e fuggire sì lontano, che il re vostro padre non intenda mai più parlare di voi. —
«Furono i principi costretti d’arrendersi al suo desiderio, ed allorchè entrambi gli ebbero consegnato il proprio abito, e si furono coperti di quanto egli diede loro del suo, Giondar, consegnato ad essi tutto il danaro e le cose preziose che portava indosso, prese commiato.
«Quando l’emiro si fu diviso dai principi, passò pel bosco, dove tinse gli abiti nel sangue del leone, e proseguì il suo cammino fino alla capitale dell’isola d’Ebano. Al suo arrivo, il re Camaralzaman gli chiese se fosse stato fedele ad eseguire l’ordine impostogli. — Sire,» rispose Giondar, presentandogli gli abiti dei due fratelli; «eccone le prove!
«— Ditemi,» ripigliò il re, «in qual modo ricevettero il castigo, onde li ho fatti punire? — Sire,» rispose quello, «l’hanno ricevuto con mirabile costanza, e con una rassegnazione ai voleri di Dio, che manifestava la sincerità colla quale facevano professione della religione loro, ma particolarmente con grandissimo rispetto, per vostra maestà ed una sommissione inconcepibile al loro decreto di morte. ««Noi moriano innocenti,» dicevano, «ma non ne mormoriamo. Riceviamo la morte dalla mano di Dio, e la perdoniamo al re nostro padre, sapendo noi benissimo ch’egli non è stato ben informato della verità.»» —
«Camaralzaman, sensibilmente commosso dal racconto dell’emiro, si avvisò di frugare nelle tasche degli abiti dei due principi. Cominciando da quello di Amgiad, vi trovò un biglietto che aprì e lesse; nè appena ebbe conosciuto, non solo dal carattere, ma ben anche da una piccola ciocca di capelli che vi stava dentro, essere stato scritto dalla regina Haiatalnefus, che un brivido gli corse per le membra. Frugò, tutto tremante, in quello di Assad, ed il biglietto della regina Badura che vi trovò, lo colpì di sorpresa tanto amara, sì pronta e viva, che cadde svenuto…»
La sultana Scheherazade, la quale, a queste ultime parole, si avvide che il giorno già compariva, cessò di parlare. La notte seguente ripigliò la continuazione della sua storia, e disse al sultano delle Indie:
NOTTE CCXXX
— Sire, non mai dolore fu eguale a quello di cui diè segno Camaralzaman, quando rinvenne. — Che cosa mai tacesti, barbaro padre?» sclamò; «hai sagrificato i propri tuoi figliuoli! Figli innocenti! La saggezza loro, la modestia, l’obbedienza, la sommessione loro a tutti i tuoi voleri, la loro virtù, non ti parlavano abbastanza in loro difesa? Padre accecato, meriti tu che la terra ti sostenga dopo sì esecrabile delitto? Io mi sono gettato da me stesso in codest’abbominazione, ed è questo il castigo onde mi percuote Iddio per non aver perseverato nell’avversione contro le donne, in cui nacqui. Non laverò sì orrendo misfatto nel sangue vostro, come ben meritereste, donne scellerate: no, non siete degne della mia collera. Ma il cielo mi confonda se mai più vi riveggo! —
«Religiosissimo il re Camaralzaman ad osservare il suo giuramento, fece nello stesso giorno condurre le due regine in un appartamento separato, ove rimasero sotto buona custodia, nè se ne avvicinò mai più per tutto il resto della vita.
«Mentre Camaralzaman affliggevasi così della perdita de’ suoi figliuoli, di cui era egli medesimo autore per un impeto troppo sconsiderato, i due principi erravano pei deserti, evitando i luoghi abitati e l’incontro d’ogni sorta di persone, non vivendo che d’erbe e di frutta selvagge, e bevendo la cattiva acqua piovana che trovavano nelle fessure delle rocce. Durante la notte, per guarentirsi dalle fiere, dormivano e vegliavano a vicenda.
«In capo ad un mese, giunsero al piede d’una spaventosa montagna, tutta di pietra nera ed inaccessibile a quanto loro parve. Scoprirono tuttavia un sentiero battuto; ma lo trovarono sì stretto e difficile, che non ardirono arrischiarvisi. Nella speranza pertanto di trovarne uno meno aspro, continuarono a costeggiare la montagna, camminando per ben cinque giorni; gettarono però inutilmente la fatica, e si videro costretti a tornare alla strada, cui avevano negletta, e trovandola sì poco praticabile, deliberarono a lungo prima di cominciare l’erta salita; ma finalmente, fatto coraggio, vi s’avviarono.
«Più i due principi avanzavano; più sembrava loro che la montagna fosse alta e scoscesa, e sentironsi più volte tentati d’abbandonare l’impresa. Quando uno era stanco, e l’altro se ne avvedeva, fermavasi questo, ed insieme prendevano fiato. Talvolta sentivansi entrambi sì spossati, che le forze mancavano loro affatto; allora non pensarono più alla salita, ma a morire di stento e di stanchezza. Pochi momenti dopo, sentendosi alquanto tornati in forze, animavansi reciprocamente e riprendevano a camminare.
«Malgrado la diligenza, il coraggio e gli sforzi loro, non fu ad essi possibile di giungere per quel giorno alla cima, e la notte li sorprese mentre Assad trovavasi sì stanco e rifinito di forze, che si fermò di botto. — Fratello,» disse al principe Amgiad, «non ne posso più, e sto per esalar l’anima. — Riposiamoci quanto vi piace,» rispose Amgiad, fermandosi anch’egli, «e fatevi coraggio: voi vedete che non ci resta molto a salire, e che la luna ci favorisce. —
«Dopo una buona mezz’ora di riposo, Assad fece un nuovo sforzo, e giunsero finalmente sulla vetta del monte, dove sostarono di nuovo. Amgiad si alzò pel primo, ed inoltrandosi, vide un albero a poca distanza. Andovvi, e trovato ch’era un melagrano, carico di grossi pomi, al cui piede sgorgava una fonte; corso ad annunciare la buona novella ad Assad, e lo condusse sotto l’albero presso alla sorgente, dove avendo entrambi mangiato uno di que’ frutti, si sdraiarono poi sull’erba e si addormentarono.
«La mattina appresso, quando i principi si furon svegliati: — Andiamo, fratello,» disse Amgiad ad Assad, «proseguiamo il nostro cammino; veggo che la montagna è molto più agevole da questo lato che non dall’altro, e non abbiamo se non a discendere.» Ma Assad sentivasi tanto stanco del dì indietro, che non gli abbisognarono meno di tre giorni per rimettersi intieramente, cui passarono discorrendo, come già avevano fatto più volte, della disordinata passione delle loro madri, che ebbeli ridotti in quello stato deplorabile. — Ma,» dicevano, «se Dio si è in guisa tanto visibile dichiarato per noi, dobbiamo sopportare con pazienza i nostri mali, e consolarci colla speranza ch’egli ce ne farà toccare la fine. —
«Passati i tre giorni, i due fratelli si rimisero in viaggio; e siccome la montagna era da quel lato a parecchi scaglioni di grandi campagne, impiegarono cinque giorni a giungere alla pianura. Quivi finalmente, con infinita loro gioia, scoprirono una grande città. — Fratello,» disse allora Amgiad ad Assad, «non siete anche voi del parere di starvene in qualche sito fuor della città, dove verrò poi a trovarvi, mentre io andrò alla scoperta, per informarmi come si chiama la città ed in qual paese ci troviamo? Tornando, avrò cura di portar viveri: credo esser meglio di non entrarvi alla prima amendue, nel caso che ci sia qualche danno da temere.
«— Fratello,» rispose Assad, «approvo il vostro consiglio, saggio e pieno di prudenza; ma se alcuno di noi deve per questo separarsi, non soffrirò mai che quello siate voi, e mi permetterete che me n’incarichi io. Qual dolore non sarebbe per me se vi accadesse qualche sinistro!
«— Ma, fratello,» ripigliò Amgiad, «la cosa medesima che voi temete per me, io deggio temerla per voi. Vi supplico di lasciarmi fare, ed aspettarmi con pazienza. — Non lo permetterò mai,» replicò Assad, «e se mi accade qualche cosa, avrò le consolazione di sapere che voi siete in sicurezza.» Amgiad fu costretto a cedere, e si fermò sotto alcuni alberi alle falde del monte.
«Il principe Assad prese un po’ di danaro, dalla borsa che il fratello portava, e continuò la sua strada fino alla città. Erasi da poco inoltrato nella prima via, che incontrò un vecchio venerabile, ben vestito, e che teneva in mano una canna. Siccome non dubitò non fosse un uomo distinto e che non avrebbe voluto ingannarlo, gli s’accostò, e: — Signore,» gli disse, «vi prego d’insegnarmi la strada della piazza pubblica. —
«Il vecchio guardò il principe sorridendo, e rispose: — Figlio, siete forse forestiero? Se così non fosse, non mi fareste questa domanda. — Appunto, signore, sono forastiero,» gli rispose Assad. — Siate il ben venuto,» ripigliò il vecchio; «è un onore pel nostro paese che un bel giovine come voi abbiasi presa la briga di venirci a visitare. Ditemi, quali affari avete sulla piazza pubblica?
«— Signore,» replicò Assad, «sono quasi due mesi che mio fratello ed io siamo partiti da un paese assai lontano di qui. Da quel tempo non abbiamo cessato di camminare, e siamo appena giunti quest’oggi. Mio fratello, stanco del lungo viaggio, è rimasto appiè della montagna, ed io vengo a prender viveri per lui e per me.
«— Figliuol mio,» tornò a dire il vecchio, non potevate capitar meglio a proposito, e ne godo per amor vostro e di vostro fratello. Ho fatto oggi un lauto trattamento a parecchi miei amici, ond’è rimasta una quantità di cibi che nessuno ha toccati. Venite con me; vi darò da mangiar bene, e quando sarete sazio, ivi donerò ancora per voi e per vostro fratello di che satollarvi per più giorni. Non prendetevi dunque l’incomodo di andar a spendere il vostro denaro: in piazza; i viaggiatori non ne hanno mai di troppo. Inoltre, mentre mangerete, v’informerò meglio di chicchessia delle particolarità della città nostra. Un uomo par mio, che son passato con distinzione per le cariche più onorevoli, non deve ignorarle. Dovete ben rallegrarvi d’esservi rivolto a me piuttosto che ad un altro, poichè vi dirò, così di passaggio, che tutti i nostri cittadini non sono fatti come me, e ve n’hanno, posso assicurarvelo, di assai cattivi. Venite dunque, voglio farvi conoscere la differenza che corre tra un galantuomo mio pari, e molte persone che vantano d’esserlo, e non lo sono altrimenti.
«— Vi ringrazio infinitamente,» rispose il principe Assad, «della buona volontà che mi dimostrate: mi rimetto intieramente in voi, e son pronto a venire dove vi parrà. —
«Il vecchio, continuando a camminare con Assad al fianco, se la rideva sotto la barba; e nel timore che questi non se ne avvedesse, lo interteneva di diverse cose, affin di mantenerlo nella buona opinione dal giovane per lui concepita.
«Bisogna confessare,» gli diceva; «che la vostra fortuna è grande d’esservi rivolto piuttosto a me che ad un altro. Ringrazio Iddio che mi abbiate incontrato: quando sarete a casa mia, saprete perchè vi dico così. —
«Giunto finalmente il vecchio alla sua casa, introdusse Assad in un’ampia sala, ove questi vide quaranta vecchi che facevano cerchio intorno ad un fuoco acceso, e l’adoravano.
«A quello spettacolo, non provò il principe Assad minor orrore vedendo uomini privi abbastanza di buon senso da rendere il loro culto alla creatura preferibilmente al creatore, che spavento nel conoscersi ingannato e trovarsi in quell’abbominevole luogo.
«Mentre Assad stava immobile per istupore; lo scaltro vecchio salutò i quaranta vecchi. — Divoti adoratori del Fuoco,» disse loro, «ecco un giorno di gaudio per noi! Dov’è Gazban?» soggiunse. «Lo si faccia venire. —
«A quelle parole, pronunciate ad alta voce, un negro, che avevale udite dal di sotto della sala, comparve; e costui, ch’era Gazban in persona, non ebbe appena veduto l’attonito Assad, che comprese perchè lo avessero chiamato. Gli corse addosso, lo gettò a terra con un potente schiaffo, e gli legò le braccia con maravigliosa celerità; quand’ebbe finito: — Conducilo dabbasso,» gli comandò il vecchio, «e non dimenticarti di dire alle mie figliuole, Bostana e Cavama, di bastonarlo ben bene ogni giorno, e dargli un pane alla mattina ed uno alla sera per nutrimento; è quanto basta per farlo vivere fino alla partenza del vascello pel mare Azzurro e per la montagna del Fuoco; ne faremo un sagrificio gratissimo alla nostra divinità…»
Scheherazade, vedendo l’alba, cessò di parlare; ma la notte appresso proseguì il racconto in questi sensi:
NOTTE CCXXXI
— Sire, quando il vecchio ebbe dato l’ordine crudele, di cui v’ho parlato, Gazban s’impossessò, maltrattandolo, di Assad, lo fe’ discendere sotto alla sala, e fattolo passare per più porte fino ad un carcere, nel quale scendevasi per venti gradini, lo attaccò, pei piedi ad una catena delle più grosse e pesanti; poi andò ad avvertire le figlie del vecchio: ma questi già parlava loro in persona. — Figliuole,» diceva, «scendete laggiù, e bastonate, nel modo che sapete, il musulmano, di cui ho fatto testè la cattura, nè risparmiatelo: non sapreste manifestar meglio d’essere buone adoratrici del Fuoco. —
«Bostana e Cavama, allevate nell’odio contro tutti i musulmani, ricevettero quell’ordine con gioia. Discesero all’istante medesimo nel carcere, e spogliato Assad, lo bastonarono spietatamente a sangue, finchè il tapino cadde esanime. Dopo un supplizio così barbaro, posero un pane ed una scodella d’acqua vicino a lui, e se ne andarono.
«Tornato il giovane dopo molto tempo in sè, cominciò a versar rivi di lagrime, deplorando la propria miseria, colla consolazione tuttavia che tale disgrazia non fosse accaduta a suo fratello Amgiad.
«Questo principe aspettò appiè del monte il fratello Assad fino a sera con grande impazienza, e quando vide ch’erano le due, le tre, le quattro ore di notte, e quegli non compariva, poco mancò non si abbandonasse alla disperazione. Passò la notte in quella desolante inquietudine, ed appena sorta l’alba, s’incamminò verso la città. Rimase alla prima maravigliatissimo non vedendo che pochissimi musulmani. Fermato il primo che incontrò, gli chiese com’ella si chiamasse. Udì ch’era la città de’ Magi, così denominata dai Magi adoratori del fuoco, che vi si trovavano in maggior numero, non essendovi se non assai pochi musulmani. Domandò pure quanta distanza fossevi da quel paese all’isola d’Ebano, e gli fu risposto che per mare v’erano quattro mesi di navigazione, e per terra un intiero anno di viaggio. L’individuo al quale erasi rivolto, dopo aver soddisfatto a quelle due domande, lo lasciò bruscamente, e proseguì la sua strada, avendo premura.
«Amgiad, il quale aveva impiegate sei sole settimane circa a venire dall’isola d’Ebano con suo fratello, non sapeva comprendere come avessero fatto tanto cammino in sì poco tempo; a meno che non fosse per incanto, o che la via della montagna, per la quale erano passati, non fosse una strada più corta, non immufrequentata a motivo della sua difficoltà. Camminando per la città, si fermò alla bottega d’un sartore, che dall’abito riconobbe per musulmano, come aveva già riconosciuto quello col quale aveva prima parlato. Sedette dunque presso di lui, e salutatolo cortesemente, gli raccontò il motivo dell’angustia in cui si trovava.
«Quando il principe Amgiad ebbe finito di parlare: — Se vostro fratello,» gli rispose il sartore, «è caduto nelle mani di qualche Mago; potete esser certo di non rivederlo mai più. È perduto senza rimedio, e vi consiglio di darvene pace, e pensare a preservar voi medesimo da simile disgrazia. Perciò, se volete credermi, rimanete con me, ed io v’istruirò di tutte le malizie di questi Magi, affinchè possiate guardarvene quando vorrete uscire.» Afflittissimo Amgiad di aver perduto così suo fratello Assad, accettò l’offerta, e ringraziò mille volte il sarto della bontà che aveva per lui.
«Il principe Amgiad non uscì per un intiero mese a girare per la città, se non in compagnia del sartore; ma finalmente un dì si arrischiò di andar solo al bagno. Di ritorno, mentre passava per una strada ove non c’era alcuno, scorse una donna venirgli incontro. Costei, vedendo un giovane leggiadro ed uscito allora dal bagno, alzò il velo, e gli chiese ove andasse con aria ridente, e volgendogli dolci occhiate. Amgiad non seppe resistere alle di lei attrattive. — Signora,» rispose, «vado a casa mia od a casa vostra, come vi parrà meglio. —
«— Signore,» rispose quella con un vezzoso sorriso, «le dame della mia sorta non conducono gli uomini a casa propria, ma vanno in casa loro. —
«Amgiad si trovò imbarazzatissimo di quella risposta, cui non si attendeva. Non osava prendersi l’ardire di condurla dal suo ospite, il quale se ne sarebbe scandalizzato, arrischiando così di perderne la protezione, di cui sentiva tanto bisogno in una città ove non bastavano mai le precauzioni. La poca abitudine che ne aveva, faceva pure che non conoscesse alcun luogo, nel quale condurla, e d’altra parte non poteva risolversi a lasciarsi sfuggire sì bella fortuna. In tal incertezza determinò di abbandonarsi al caso; e senza rispondere alla dama, andò innanzi, e questa lo seguì.
«La condusse Amgiad per molto tempo di contrada in contrada, di quadrivio in quadrivio, di piazza in piazza; ed erano già stanchi entrambi di camminare, quand’egli entrò in una via che trovò terminata da una casa di bell’apparenza, con due panche, una per parte. La porta era chiusa. Amgiad sedè sur una panca, come per prender fiato, e la dama, più stanca di lui, sedette sull’altra.
«Quando fu assisa: — È questa dunque la casa vostra?» chiese al giovane. — Lo vedete, o signora,» rispose il principe. — Perchè dunque non aprite?» ripigliò colei. «Cosa aspettate? — Mia bella;» — replicò Amgiad, «è perchè non ho la chiave; l’ho lasciata al mio schiavo, che incaricai d’una commissione, dalla quale non può essere ancor di ritorno. E siccome gli ho comandato di comprarmi, dopo aver eseguita questa commissione, l’occorrente per fare un buon pranzo, temo che non abbiamo ad aspettare assai. —
«La difficoltà che il principe incontrava nel soddisfare alla sua passione, di cui cominciava a pentirsi, avevagli fatto immaginare quella scappatoia, nella speranza che la donna gli credesse, e che il dispetto la costringesse ad abbandonarlo ed andare a trovar fortuna altrove; ma s’ingannò a partito.
«— Ecco uno schiavo impertinente di farsi aspettare così,» ripigliò la dama; «lo castigherò io medesima come va, se non lo punite bene voi quando sarà di ritorno. Intanto non è bello ch’io rimanga sola ad una porta insieme ad un uomo.» E sì dicendo, si alzò, e raccolse un sasso per ispezzare la serratura, ch’era di legno e debolissima, secondo l’uso del paese.
«Amgiad, disperato di quell’idea, volle opporsi. — Signora,» le disse; «che cosa intendete fare? Di grazia, abbiate un po’ di pazienza. — Cosa avete a temere?» ripigliò quella; «non è vostra la casa? Una serratura di legno rotta non è gran che: è facile rimetterne un’altra.» Ruppe quindi la serratura, e quando fu aperta la porta, entrò e corse avanti.
«Amgiad si tenne perduto quando vide sforzata la porta della casa. Esitante se dovesse entrare o fuggire per liberarsi dal pericolo che credeva inevitabile, già stava per abbracciare quest’ultimo partito, allorchè la donna, volgendosi, e vedendo che non entrava: — Che cosa avete, e perchè non entrate in casa?» gli disse. — E perchè, signora,» rispose il giovane, «guardava se non tornasse il mio schiavo, e temo non vi sia nulla di pronto. — Venite, venite,» ripigliò essa; «aspettandolo, staremo meglio qui che fuori. —
«Amgiad entrò suo malgrado in un cortile spazioso e lastricato a maraviglia. Dal cortile ascendevasi per alcuni gradini ad un’ampio vestibolo, ov’egli e la dama videro una gran sala aperta, addobbata con magnificenza, ed in essa una tavola di cibi squisiti, con un’altra vicina, coperta di parecchie sorta di bellissimi frutti, ed una credenza piena di bottiglie di vino.
«Quando il principe vide quegli apparecchi, più non dubitò della sua perdita. — E finita per te, povero Amgiad,» disse tra sè; «non sopravvivrai a lungo al tuo caro fratello Assad.» La donna, invece, stupita a quel grato spettacolo: — E che! signore,» sclamava, «temevate che non ci fosse nulla di pronto! eppure vedete che il vostro schiavo ha fatto più che non si credeva. Ma, se non m’inganno, questi preparativi sono per un’altra dama, e non per me? Non importa; venga pure anch’essa, e vi prometto di non esserne gelosa. La grazia che vi domando, è di voler permettere ch’io la serva, e voi pure. —
«Non potè Amgiad trattenersi dal ridere della lepidezza della donna, per quanto egli fosse afflitto. — Signora,» ripigliò egli, pensando a tutt’altra cosa che gli straziava l’anima, «vi assicuro non esserci nulla di vero in quanto v’immaginate: questo è semplicemente il mio solito pasto.» Siccome non ardiva risolversi a sedere ad una tavola che non era preparata per lui, voleva assidersi sul sofà; ma la dama glielo impedì, dicendogli: — Cosa fate? Dopo il bagno, dovete aver fame: mettiamoci a mensa, mangiamo, e stiamo allegri. —
«Amgiad si vide costretto a fare la volontà della dama. Si posero dunque a tavola e mangiarono. Dopo i primi bocconi, essa prese una bottiglia di vino, se ne versò un bicchiere, e bevve per la prima alla salute di Amgiad. Quindi empì nuovamente lo stesso bicchiere, e lo presentò al giovane che fecele onore.
«Quanto più Amgiad rifletteva alla sua avventura, tanto più stupiva vedendo che non comparisse il padrone di casa, e che inoltre in una casa, dove tutto risplendeva per isfarzo e pulitezza, non ci fosse un solo servo. — Sarebbe ben istraordinaria la mia fortuna,» diceva a sè medesimo, «se il padrone non venisse finchè io non sia uscito da questo imbroglio!» Mentre occupavasi in questi ed altri più pungenti pensieri, la donna continuava a mangiare, e bere di quando in quando, costringendolo a far altrettanto. Erano già alle frutta, quando giunse il padrone di casa.
«Era costui il grande scudiere del re de’ Magi, e chiamavasi Bahader. La casa gli apparteneva, ma possedevane un’altra dove faceva la sua ordinaria dimora. Non gli serviva questa che a trattarsi in privato con tre o quattro eletti amici; vi faceva portarci tutto da casa sua, e ciò appunto avevano eseguito in quel giorno alcuni de’ suoi, i quali erano appena usciti prima che Amgiad e la dama arrivassero.
«Bahader giunse senza seguito e travestito, come era solito di fare quasi sempre, e veniva un po’ prima dell’ora stabilita cogli amici. Grande ne fu la sorpresa trovando la porta della casa sforzata. Entrò pian piano; e quand’ebbe udito che nella sala si parlava e si stava allegri; accostossi con precauzione alla porta per vedere quali persone fossero. Scorgendo ch’erano un giovane ed una giovane, i quali mangiavano alla tavola stata preparata per lui e pe’ suoi amici, e che il male non era tanto grande, come avevaselo immaginato, risolse di divertirsene.
«La donna, che aveva il dorso un po’ voltato, non poteva vedere il grande scudiere; ma Amgiad lo scorse subito, mentre teneva il bicchiere in mano. Cangiò di colore a tal vista, e tenne gli occhi fitti su Bahader, il quale gli fe’ cenno di non dir parola e venire da lui.
«Amgiad bevette e si alzò. — Dove andate?» chiesegli la donna. — Signora,» le diss’egli, «restate, ve ne prego; sono subito da voi; una piccola necessità mi obbliga ad uscire.» Trovò poscia Bahader che aspettavalo sotto il vestibolo, e che lo condusse nel cortile per parlargli senza essere inteso dalla dama....»
Scheherazade, pronunciando queste parole, si avvide esser tempo che il sultano delle Indie si alzasse; tacque dunque, ed ebbe il permesso di proseguire la notte seguente, parlando in tali sensi:
NOTTE CCXXXII
— Sire, quando Bahader ed il principe Amgiad furono nel cortile, il grande scudiere chiese al giovane per qual avventura si trovasse colla donna in casa sua, e perchè avessero sforzata la porta.
«— Signore,» rispose Amgiad, «io devo sembrarvi assai reo; ma se volete aver la pazienza di ascoltarmi, spero mi troverete innocentissimo.» E qui proseguendo il discorso, gli narrò in poche parole la cosa qual era senza nulla nascondere; e per ben persuaderlo di non esser capace di commettere un’azione indegna come quella d’invadere una casa, non gli celò nè l’alta sua nascita, nè la ragione per cui trovavasi nella città de’ Magi.
«Bahader, il quale amava per natura gli stranieri, fu lieto d’aver trovata l’occasione di far servigio ad uso della qualità e del grado d’Amgiad; in fatti, dall’aria di lui, dalle maniere, dal suo favellare in termini scelti e forbiti, non dubitò menomamente della di lui sincerità. — Principe,» gli disse, «provo estremo piacere d’aver trovato modo di rendervi servigio in un incontro sì piacevole come quello che mi raccontaste. Ben lungi dal turbare la festa, mi farò un grandissimo diletto di contribuire al vostro divertimento. Prima di comunicarvi quello che ne penso in proposito, voglio palesarvi ch’io sono il grande scudiere del re, e mi chiamo Bahader. Ho un palazzo nel quale abito solitamente, e questa casa è il luogo dove talvolta vengo per istarmene in maggior libertà co’ miei unici. Avete dato ad intendere alla vostra bella di avere uno schiavo, benchè non ne possedeste. Bramo esser io questo schiavo; ed affinchè non vi rechi pena, e non vogliate esimervene, vi ripeto che desidero esserlo assolutamente, e ne saprete in breve la ragione. Tornate dunque al vostro posto, e continuate a divertirvi; e quando, fra qualche tempo, tornerò e mi presenterò a voi davanti in abito da schiavo, sgridatemi ben bene; non temete neppur di battermi; io vi servirà per tutto il tempo che resterete a tavola, fino a notte. Dormirete in casa mia voi e la dama, e domattina la congederete con onore. Poi, cercherò di rendervi più importanti servigi. Andate dunque, e non perdete tempo.» Volea Amgiad replicare; ma il gran scudiere non glielo permise, e lo costrinse ad andar a trovare la donna.
«Amgiad fu appena rientrato nella sala, che capitarono gli amici invitati dal grande scudiere; li pregò questi cortesemente a volerlo scusare se in quel giorno non li riceveva, facendo loro intendere che ne approverebbero la cagione, quando ne li avrebbe all’indomani informati. Allorchè se ne furono iti, egli uscì, ed andò a vestirsi da schiavo.
«Il principe Amgiad tornò presso alla dama col cuore contentissimo perchè il caso condotto avesselo in un luogo appartenente ad un signore di sì alta condizione, ed il quale trattavalo con tanta gentilezza. Rimettendosi a tavola: — Signora,» le disse; «vi chieggo mille perdoni della mia inciviltà e del malumore che provo per l’assenza del mio schiavo; il mariuolo me la pagherà, e gli farò vedere se deve starsene tanto tempo fuor di casa.
«— Ciò non v’inquieti,» ripigliò la dama; «tanto peggio per lui: se commette falli, dovrà scontarli. Non pensiamo più a lui, pensiamo soltanto a star allegri. —
«Continuarono a star a mensa con tanto maggior diletto in quanto che Amgiad non era più inquieto, come prima, di quello che sarebbe accaduto per l’indiscrezione della dama; la quale non doveva sforzare la porta quand’anche la casa avesse appartenuto al giovane. Questi non fu meno di buon umore della donna, e si dissero mille piacevolezze, bevendo più che non mangiassero, fino all’arrivo di Bahader, travestito da schiavo.
«Questi entrò come uno schiavo mortificatissimo al vedere che il padrone trovavasi già in compagnia; mentr’egli tornava così tardi, e si gettò a’ suoi piedi baciando la terra per implorarne la clemenza. Alzatosi poi, rimase in piedi, colle mani incrociate e gli occhi bassi, aspettando gli ordini del padrone.
«— Furfante,» gli disse Amgiad, con isguardo ed accento di collera, «dimmi se v’ha al mondo uno schiavo peggiore di te. Dove sei stato? Che cosa facesti per tornartene a quest’ora?
«— Signore,» rispose Bahader, «vi domando perdono; sono stato per le commissioni di cui m’incaricaste; non credeva che doveste tornare sì di buon’ora.
«— Sei un mariuolo,» replicò Amgiad, «e t’accopperò a busse, per insegnarti a mentire e mancar al tuo dovere.» Si alzò allora, e preso un bastone, gliene diede due o tre colpi assai leggieri; quindi si rimise a tavola.
«La donna non fu contenta di quel castigo: si alzò anch’essa, prese il bastone, e ne scaricò su Bahader tanti colpi e così senza riguardo, che gliene vennero le lagrime agli occhi. Amgiad, dolente oltremodo della libertà che colei si prendeva, e perchè maltrattasse un officiale del re di tal importanza, aveva un bel gridare che bastava; ella continuò a batterlo. — Lasciatemi fare,» diceva, «voglio soddisfarmi, ed insegnargli a non istar tanto tempo fuor di casa un’altra volta.» E proseguiva sempre con tal furia, ch’egli fu costretto ad alzarsi e toglierle di mano il bastone, cui ella non lasciò se non dopo molta resistenza. Quando poi vide che non poteva più battere Bahader, tornò al proprio posto, e gli disse mille ingiurie.
«Bahader rasciugò le lagrime, e rimase in piedi per versar loro da bere; quando vide che più non mangiavano, ne bevevano, sparecchiò la tavola, pulì la sala, ripose tutte le cose al posto; e calata la notte, accese i lumi. Ogni volta che entrava od usciva, non mancava la dama di sgridarlo, minacciandolo ed ingiuriandolo, con grande malcontento di Amgiad, il quale voleva risparmiarlo, nè osava dirgli nulla. Quando fu tempo di caricarsi, Bahader preparò loro, un letto sul sofà, e si ritirò in un’altra stanza, dove, dopo sì grave fatica, non istette guari ad addormentarsi.
«Amgiad e la donna conversarono per un’altra buona mezz’ora, e prima di coricarsi, questa ebbe bisogno d’uscire. Nel passar sotto il vestibolo, udendo che Bahader russava di già, ed avendo veduto una sciabola nella sala: — Signore,» disse al giovane rientrando, «vi prego di fare una cosa per amor mio. — Di che si tratta per servirvi?» rispose Amgiad; — Fatemi il piacere di prendere quella sciabola,» ripigliò essa, «ed andare a tagliar la testa al vostro schiavo. —
«Rimase il giovane estremamente sbalordito a siffatta proposizione, che il vino faceva fare alla donna, com’ei non dubitava. — Signora,» le disse, «lasciamo là il mio schiavo; esso non merita che pensiate a lui; l’ho castigato, l’avete castigato anche voi, e basta così; d’altronde, sono contentissimo di lui, e non è solito fare questa sorta di mancanze.
«— Io non sarò paga,» ripigliò l’arrabbiata donna, «finchè non vegga morto quel furfante, e se non muore per man vostra, morirà per la mia.» Sì dicendo, prese la scimitarra, la sguainò, e corse via per eseguire il pernicioso suo disegno.
«Amgiad la raggiunse sotto il vestibolo, e trattenendola: — Signora,» le disse, «è forza soddisfarvi, poichè lo desiderate: sarei inconsolabile che un altro fuor di me togliesse la vita al mio schiavo.» E quand’essa gli ebbe consegnata la sciabola: «Venite, seguitemi,» soggiunse, «e non facciamo strepito, affinchè non si svegli.» Entrarono nella camera dov’era Bahader; ma invece di percuoterlo, Amgiad menò un tal colpo alla donna, che le spiccò dal busto la testa, la quale cadde sul dormiente…»
Aveva il giorno già cominciato a comparire, quando Scheherazade trovavasi a questo punto; se ne avvide essa, e cessò di parlare. Riprese il suo discorso la notte seguente, e disse al sultano delle Indie:
NOTTE CCXXXIII
— Sire, quand’anche lo strepito del colpo della sciabola non avesse svegliaio il grande scudiere, il capo della donna, che venne a cadergli addosso, gl’interruppe il sonno: maravigliando di vedere Amgiad colla sciabola insanguinata, ed il corpo della donna per terra senza testa, gli domandò cosa ciò significasse. Il giovane gli raccontò allora l’accaduto, e terminando, aggiunse: — Per impedire a questa furibonda di togliervi la vita, non seppi trovar altra via se non quella di privarne lei medesima.
«— Signore,» ripigliò Bahader pieno di gratitudine, «le persone del vostro grado e sì generose, sono incapaci di favorire azioni tanto malvage. Voi siete il mio iiberatore, e non posso ringraziarvene abbastanza.» Abbracciatolo quindi, per meglio dimostrargli quanto gli fosse grave: «Prima che spunti il giorno,» disse, «è mestieri portar fuori di qui questo cadavere; ed è quello che m’accingo a fare.» Vi si oppose Amgiad, e disse che lo avrebbe portato via egli stesso, poichè fatto aveva il colpo. — Uno straniero a questa città, come voi, non vi riuscirebbe,» ripigliò Bahader. «Lasciatemi fare e fermatevi qui in pace. Se non torno prima di giorno, sarà segno che la guardia mi avrà sorpreso. In tal caso, voglio farvi prima in iscritto una donazione della casa e di tutti i mobili: non avrete che a dimorarvi. —
«Scritta ch’ebbe Bahader e consegnata al principe la donazione, mise in un sacco il cadavere della donna insieme alla testa; se lo caricò sulle spalle, e camminò di contrada in contrada, prendendo la via del mare. Non n’era molto lontano, quando incontrò il giudice di polizia che faceva la ronda in persona. La gente del giudice lo arrestarono, ed aperto il sacco, trovaronvi il cadavere. Il giudice, il quale, ad onta del suo travestimento, riconobbe il grande scudiere, lo condusse a casa sua; e siccome non ardì, per riguardo alla di lui dignità, farlo morire senza dirne parola al re, glielo presentò la mattina seguente. Non fu appena il monarca informato, dal rapporto del giudice, della scellerata azione da questi commessa, come da tutti gl’indizi credeva, che lo caricò d’ingiurie. — Così dunque,» gridò egli, «uccidi i miei sudditi per ispogliarli, e ne getti i cadaveri in mare per nascondere la tua tirannide? Ne vengano liberati, e sia appiccato. —
«Benchè Bahader fosse innocente, udì egli la sentenza di morte con tutta rassegnazione, e non disse una sola parola per giustificarsi. Il giudice lo condusse seco, e mentre preparavasi il patibolo; mandò a bandire per tutta la citta la giustizia che stavasi per fare, a mezzodì, d’un assassinio commesso dal grande scudiero.
«Il principe Amgiad, il quale aveva aspettato indarno il grande scudiere, fu estremamente costernato, quando dalla casa, in cui trovavasi, udì il bando. — Se qualcuno deve perire per la morte d’una donna sì malvagia,» disse fra sè, «non è già il grande scudiero, ma quello son io; non soffrirò che l’innocente venga punito pel reo.» Senza deliberar altro, uscì, e si recò sulla piazza ove doveasi fare l’esecuzione, col popolo che vi accorreva da tutte le parti.
«Quando vide comparire il giudice che conduceva Bahader alla forca, andò a presentarsegli. — Signore,» gli disse, «vengo a dichiararvi e ad accertarvi che il grande scudiere, il quale viene ora condotto al supplizio, è innocentissimo della morte di questa donna. Son io quello che ha commesso il delitto, se è tale l’aver uccisa una donna detestabile, la quale voleva toglier la vita allo stesso grande scudiere; ed ecco come accadde la cosa. —
«Quando Amgiad ebbe raccontato al giudice in qual modo erasegli accostata la donna all’uscire dal bagno, come stata fosse cagione ch’egli entrasse nella casa di piacere del grande scudiere, e tutto ciò ch’era succeduto fino al momento, in cui videsi costretto a tagliarle la testa per salvare la vita del misero Bahader, il giudice sospese l’esecuzione, e lo condusse, unitamente all’accusato, alla presenza del re.
«Volle questi essere informato della cosa dal medesimo Amgiad; e questi, per fargli meglio comprendere la propria innocenza e quella dell’altro, approfittò dell’occasione per raccontargli la storia sua e del fratello Assad dal principio fino al loro arrivo, ed al momento, nel quale gli parlava.
«Allorchè il giovane ebbe finito il suo racconto: — Principe,» gli disse il re, «sono contentissimo che questa occasione mi abbia somministrato il mezzo di conoscervi: non solo vi dono la vita con quella del mio grande scudiere, cui lodo della buona intenzione avuta per voi, e che ripristino nella sua carica; ma vi creo eziandio mio gran visir, per consolarvi del trattamento ingiusto, benchè scusabile, usatovi dal re vostro padre. Quanto al principe Assad, vi permetto di adoperare tutta l’autorità, che vi concedo, per ritrovarlo. —
«Poichè Amgiad ebbe ringraziato il re della città e del paese de’ Magi, e preso possesso della sua carica di gran visir, adoperò tutti i mezzi immaginabili per rinvenire il principe suo fratello. Fece promettere dai pubblici banditori, in tutti i quartieri della città, una grossa ricompensa a quelli che glielo conducessero, oppure che gliene dessero qualche notizia; mandò molta gente alla scoperta, ma per quante diligenza facessero, non riuscì ad averne contezza alcuna.
«Assad frattanto stava sempre incatenato nel carcere, ov’era stato chiuso per l’astuzia dello scaltro vecchio; e Bostana e Cavama, figlie dello stesso, lo maltrattavano colla medesima crudeltà ed inumanità. Avvicinavasi intanto la festa solenne degli adoratori del Fuoco. Si equipaggiò la nave ch’era solita fare il viaggio della montagna del Fuoco, e fu caricata di merci per cura d’un capitano di nome Behram, zelante settario della religione de’ Magi. Quando si trovò in istato di porsi alla vela, Behram vi fece imbarcare Assad in una cassa mezza piena di mercanzie, con aperture bastanti fra le assi per lasciargli la necessaria respirazione, facendola deporre in fondo alla sentina.
«Prima che il vascello mettesse alla vela, il gran visir Amgiad, fratello di Assad, il quale era stato avvertito che gl’idolatri solevano sagrificare tutti gli anni un musulmano sulla montagna del Fuoco, e che Assad, il quale era forse caduto nelle loro mani, poteva esser benissimo destinato a quella sanguinosa cerimonia, volle farne la visita; lande, andatovi in persona, fece montare tutti i marinai ed i passaggieri sulla coperta, mentre la sua gente faceva una minuta perquisizione in tutto il bastimento; ma non si trovò il principe, che troppo bene era nascosto.
«Fatta la visita, la nave uscì dal porto; e giunta in alto mare, Behram ordinò di cavar dalla cassa Assad, e lo fece incatenare per assicurarsi di lui, nel timore che, siccome non ignorava che andavano a sagrificarlo, non si precipitasse per disperazione nell’onde.
«Dopo alcuni giorni di navigazione, il vento favorevole che aveva sempre accompagnato la nave, divenne contrario, e crebbe in maniera, che, suscitatasi una furiosissima burrasca, il vascello non solo deviò dalla sua rotta, ma nè Behram, nè il pilota più non sapevano dove fossero, e temevano di rompere ad ogni momento contro qualche scoglio. Nel colmo della tempesta però scoprirono terra, e Behram la riconobbe pel sito dove esisteva il porto e la capitale della regina Margiana, e ne fu dolentissimo.
«In fatti la regina Margiana, musulmana di religione, era mortal nemica degli adoratori del Fuoco: non solo non ne tollerava neppur uno nei suoi stati, ma non permetteva nemmanco che alcun loro vascello vi approdasse.
«Non era ormai più in potere di Behram d’evitare il porto della capitale di quella regina, a meno di non andar ad incagliare e perdersi contro la costa, tutta irta di spaventosi scogli. In sì crudel frangente, tenne consiglio col pilota e coi marinai. — Figliuoli,» diss’egli, «voi vedete la necessità alla quale siamo ridotti. Una delle due: o bisogna lasciarsi inghiottire dalle onde, o salvarci sulle terre della regina Margiana; ma vi è noto il suo odio implacabile contro la nostra religione e contro quelli che la professano. Non mancherà essa d’impossessarsi della nostra nave, e privarne tutti di vita senza misericordia. Un rimedio solo io scorgo, il quale possa presentare qualche probabilità di riuscita: sarebbe mio parere sciogliere dalle catene quel musulmano che abbiamo qui, e vestirlo da schiavo. Quando la regina Margiana mi avrà fatto venire alla di lei presenza, e mi domanderà quale sia il mio traffico, le risponderò che sono mercadante di schiavi, che ne ho venduti quanti ne possedeva, e che un solo me ne riservai per servirmene da scrivano, sapendo egli leggere e scrivere. Vorrà vederlo al certo; e siccome è un bel giovine e d’altronde professa la sua religione, ne sarà mossa a pietà, non mancherà di propormi di venderglielo, e per costui considerazione soffrirci nel suo porto sino al primo bel tempo. Se sapete qualche cosa di meglio, ditemelo, che vi ascolterò.» Tutto l’equipaggio applaudì al suo divisamento, che fu eseguito...»
Scheherazade, vedendo spuntar il sole, fu obbligata ad interrompere il racconto, e Schahriar si alzò. La sultana ripigliò la notte successiva la sua storia, parlando in questi sensi.
fine del secondo volume.
NOTTE CCXXXIV
— Sire, Behram fece levar le catene al principe Assad, e lo vestì pulitamente da schiavo, secondo il grado di scrivano del vascello, sono il quale voleva farlo comparire davanti alla regina Margiana. Ed era appena nella condizione, in cui lo bramava, quando la nave entrò nel porto, dove gettò l’ancora.
«Allorchè la regina Margiana, la quale aveva il suo palazzo situato dalla parte del mare, in modo che il giardino stendevasi sino alla spiaggia, ebbe veduto che la nave era ancorata, mandò ad avvertire il capitano di venir tosto a parlarle, e per soddisfare al più presto la propria curiosità, recossi ad attenderlo in giardino.
«Behram, ch’erasi aspettato a quella chiamata, sbarcò col principe Assad, avendone prima estorta la promessa, che avrebbe confermato di essere suo schiavo e scrivano; condotto davanti alla regina Margiana, si gettò ai di lei piedi, e raccontatale primieramente la necessità che obbligato lo aveva a cercar rifugio nel suo porto, le disse di fare il mercante di schiavi; che Assad, da lui seco condotto, era il solo che gli restasse, e che lo teneva per servirgli da scrivano.
«Assad era piaciuto alla regina Margiana fin dal momento che l’aveva veduto, e questa fu assai lieta all’udire ch’era schiavo; talchè avendo risoluto di comprarlo a qualunque prezzo, chiese prima di tutto ad Assad come si chiamasse.
«— Grande regina,» rispose il principe colle lagrime agli occhi, «vostra maestà mi domanda il nome che portava prima o quello che porto oggi? — Come! avete forse due nomi?» ripigliò la regina. — Aimè! è così pur troppo,» tornò a dire Assad. «Io mi chiamava un tempo Assad (felicissimo), ed ora mi chiamo Motar (destinato al sagrificio). —
«Margiana, che non poteva penetrare il vero senso di tale risposta, l’applicò allo stato di sua schiavitù, e nel medesimo tempo conobbe com’egli avesse moltissimo spirito. — Poichè siete scrivano,» diss’ella quindi, «fatemi vedere il vostro carattere. —
«Assad, munito di carta e d’un calamaio che portava alla cintura, per cura di Behram, il quale non aveva dimenticate tali circostanze onde persuadere alla regina quanto ei voleva ch’ella credesse, si ritirò da parte, e scrisse queste sentenze, il cui senso aveva un segreto rapporto colla sua miseria.
««Il cieco si distoglie dalla fossa in cui il chiaroveggente si lascia cadere.
««L’ignorante sollevasi alle dignità con discorsi che non significano nulla; il dotto, colla sua eloquenza, rimane nella polve.
««Il musulmano è nell’ultima miseria con tutte le sue ricchezze; l’infedele trionfa in mezzo ai suoi beni. —
««Non si può sperare che le cose cangino: è un decreto dell’Onnipotente ch’esse rimangano in questo stato.»»
«Assad presentò la carta alla regina Margiana, la quale non ammirò meno la moralità delle sentenze che la bellezza del carattere; e non fu duopo di più per finire di accenderle il cuore, e toccarla di vera compassione per lui. Non ebbe appena terminato di leggere, che, voltasi a Behram: — Scegliete,» gli disse, «fra il vendermi questo schiavo o farmene un dono; forse potrete trovar meglio il vostro conto nell’ultimo partito. —
«Behram rispose con molta insolenza di non aver alcuna scelta da fare, che aveva bisogno del suo schiavo, e voleva tenerselo.
«Irritata Margiana di quell’ardire, non volle parlar altro con colui; prese per un braccio Assad, se lo fece camminare davanti, e condottolo al suo palazzo, mandò a dire a Behram che farebbegli confiscare tutte le mercanzie e dar fuoco al bastimento in mezzo al porto, se vi passasse la notte. Fu dunque questi costretto a tornarsene mortificatissimo alla nave e far preparare tutte le cose per rimettersi alla vela, quantunque la tempesta non fosse ancor calmata.
«La regina Margiana, dopo aver comandato, entrando nel palazzo, che si recasse immediatamente la cena, condusse Assad alle di lei stanze, dove se lo fece sedere vicino; il giovine volle esimersene, dicendo tanto onore non competere ad uno schiavo.
«— Schiavo!» sclamò la regina; «lo eravate poco fa, ma ora più nol siete. Sedete vicino a me, vi dico, e raccontatemi la vostra storia; ciò che avete scritto per mostrarmi il vostro carattere, e la insolenza di quel mercadante di schiavi, mi fanno comprendere che dev’essere straordinaria. —
«Il principe obbedì, e quando fu seduto:
«— Potente regina,» cominciò, «vostra maestà non s’inganna; veramente straordinaria è la mia storia, e più che non saprebbesi immaginare. I mali, i tormenti incredibili da me sofferti, ed il genere di morte al quale era destinato, e da cui la maestà vostra mi liberò per un tratto della sua generosità tutta reale, le faranno conoscere la grandezza del beneficio ch’io non dimenticherò giammai. Ma prima di entrare in questi particolari che fanno orrore, mi permetterà di prendere da più alto l’origine delle mie disgrazie. —
«Dopo tale preambolo, che accrebbe la curiosità della regina Margiana, Assad cominciò ad informarla della propria real nascita, di quella di suo fratello Amgiad, della reciproca loro amicizia, della passione detestabile delle matrigne, cangiata in un odio de’ più violenti, e stata origine dello strano loro destino. Venne poi alla collera del re loro padre, al modo quasi miracoloso della preservazione della loro vita, e finalmente alla perdita del fratello, ed alla lunga e dolorosa prigionia d’onde non lo avevano fatto uscire; se non per condurlo ad immolare sulla montagna del Fuoco.
«Quando Assad ebbe finito il racconto, la regina Margiana, sdegnata più che mai contro gli adoratori del Fuoco: — Principe,» disse, «malgrado l’avversione che ho sempre avuta per quegli idolatri, non lasciai di avere per essi molta umanità; ma dopo il barbaro trattamento che v’hanno usato, e il loro esecrabile disegno di fare della vostra persona una vittima al loro Fuoco, dichiaro ad essi fin da questo istante implacabil guerra.» Voleva ella estendersi viemaggiormente su tale proposito, ma servita in quella la cena, si pose a mensa col principe Assad, tutta lieta di vederlo ed udirlo, e già accesa per lui d’una passione, cui promettevasi di trovar in breve d’occasione di far apparire. — Principe,» gli disse, «è d’uopo ricompensarvi di tanti digiuni e tanti cattivi pasti che quegl’implacabili idolatri vi fecero fare: avete bisogno di cibo dopo tanti patimenti.» E con simili parole ed altre del medesimo tenore all’incirca, gli serviva da mangiare, e faceagli versar da bere a profusione. Durò a lungo la cena, ed Assad bevve un po’ più che non potesse portare.
«Levata la mensa, il principe ebbe bisogno di uscire e fecelo in modo che la regina non se ne avvide. Discese nel cortile, e trovata aperta la porta del giardino, vi entrò, ed allettato dalle bellezze ond’era svariato, si mise a passeggiarvi per qualche tempo. Andò infine sino ad uno zampillo d’acqua che ne faceva il più bell’ornamento; vi si lavò le mani ed il viso per rinfrescarsi, e volendo riposare sull’erba ond’era circondato, vi s’addormentò.
«Avvicinavasi allora la notte, e Behram, il quale non voleva dar tempo alla regina Margiana di eseguire la sua minaccia, aveva già levata l’ancora, assai dolente della perdita di Assad, e d’essere frustrato della speranza di farne un sagrificio. Cercava nondimeno di consolarsene, perchè la tempesta era cessata, ed un venticello di terra lo favoriva per allontanarsi. Uscito dal porto, coll’aiuto della sua scialuppa, prima di ritirarla nel bastimento: — Figliuoli,» disse ai marinai che vi stavano dentro, «aspettate, non risalite: vado a farvi dare i barili per attinger acqua, e vi attenderò bordeggiando.» I marinai, i quali non sapevano dove potessero trovarne, se ne volevano scusare; ma siccome Behram aveva parlato alla regina nel giardino, e notata la fontana: — Andate ad approdare davanti al giardino del palazzo,» riprese; «scavalcate il muro, che non è molto alto, e troverete acqua bastante nella vasca che sta in mezzo al giardino. —
«Andarono i marinai ad approdare al luogo indicato da Behram; e caricatosi ciascheduno d’un barile sulle spalle, sbarcarono e scavalcarono facilmente il muro. Accostatisi alla fontana, scorgendo un uomo sdraiato che dormiva sulla sponda, gli si appressarono, e lo riconobbero per Assad. Si divisero; e mentre alcuni empivano parecchi barili d’acqua col minore strepito possibile, senza perdere il tempo a riempirli tutti, gli altri circondarono il giovane, e l’osservarono per arrestarlo nel caso che si destasse. Egli ne diè loro tutto il comodo; e quando i barili furono pieni e caricati sulle spalle di quelli che dovevano portarli, gli altri s’impossessarono di lui, e lo condussero via senza dargli tempo di risensare; lo fecero passare al di sopra del muro, ed imbarcatolo coi barili; facendo forza di remi, lo trasportarono al bastimento. Giunti che furono presso a questo: — Capitano,» gridarono con grandi schiamazzi di gioia, «fate suonare i pifferi ed i tamburi; vi riconduciamo il vostro schiavo. —
«Behram, il quale non giungeva a comprendere come i suoi marinai avessero potuto trovare e riprendere Assad, e che non poteva nemmen vederlo nella scialuppa, a cagione della notte, aspettò con impazienza che fossero saliti a bordo, per chieder loro cosa intendessero di dire; ma quando se l’ebbe veduto davanti agli occhi, non potè contenere il giubilo, e senza informarsi come fossero riusciti a fare una sì bella cattura, lo fece subito riporre alla catena; e ritirata con tutta sollecitudine la scialuppa sul vascello, spiegò le vele, ripigliando la strada della montagna del Fuoco....»
Scheherazade cessò dal racconto per quella notte; ma proseguì la seguente, e disse al sultano dell’Indie:
NOTTE CCXXXV
— Sire, terminai ieri facendo notare a vostra maestà che Behram aveva ripreso la strada della montagna del Fuoco, lietissimo perchè i suoi marinai gli avessero ricondotto Assad. La regina Margiana, frattanto, trovavasi in grandi angustie; non s’inquietò alle prime quando si accorse che il principe era uscito, e siccome non dubitava che non dovesse presto tornare, l’aspettò con pazienza. Dopo qualche tempo, non vedendolo comparire, cominciò ad affannarsi. Comandò alle sue donne di andar a vedere dove fosse; lo cercarono queste, e non seppero recargliene alcuna notizia. Calò la notte, ed essa lo fece cercare coi lumi, ma pure indarno.
«Nell’impazienza e nell’agitazione in cui la regina si trovò allora, andò in persona a cercarlo al chiaror delle faci; ed avvedutasi che la porta del giardino era aperta, vi entrò, e lo percorse colle donne. Passando presso alla fontana, vide una pappuccia sull’erba della sponda, che fece raccogliere, e la riconobbe, al par delle sue donne, per una di quelle del principe. Questa circostanza, insieme all’acqua sparsa sulla sponda del bacino, le fece credere che Behram potesse averlo fatto rapire. Mandò dunque sul momento per sapere se colui fosse ancora in porto; e quand’ebbe udito che avea fatto vela un po’ prima della notte, ch’erasi fermato qualche tempo vicino a terra, e che la sua scialuppa era andata a far acqua nel giardino, mandò subito ad avvertire il comandante di dieci vascelli da guerra che teneva in porto, sempre equipaggiati e pronti a partire al primo cenno, che voleva imbarcarsi in persona all’indomani, ad un’ora di giorno.
«Fece il comandante i suoi preparativi; raccolse i capitani, gli altri officiali, i marinai, i soldati, e tutto fu pronto per l’ora da lei desiderata. S’imbarcò la regina, e quando la squadra fu fuori del porto ed alla vela, dichiarò la propria intenzione al comandante. — Voglio,» disse, «che facciate forza di vele per dar la caccia al vascello mercantile partito dal nostro porto ier sera. Ve lo abbandono, se lo prendete; ma se non lo pigliate, la vostra vita me ne risponderà. —
«Le dieci navi si misero ad inseguire il bastimento di Behram, e per due giorni intieri nulla videro. Il terzo, lo scoprirono allo spuntar dell’aurora; e verso mezzodì lo circondarono in modo che non poteva più fuggire.
«Allorchè il crudele Behram ebbe scorto i dieci vascelli, non dubitò quella non fosse la squadra della regina Margiana spedita ad inseguirlo, ed ordinò di bastonare Assad; poichè fin dal suo imbarco nel porto della città dei Magi, non aveva mancato un sol giorno di usargli quel medesimo trattamento: e la rabbia fece che allora lo maltrattasse più del solito. Quando vide che stava per essere circondato, grande, fu la sua perplessità. Conservare Assad, era un dichiararsi colpevole; togliergli la vita, temeva che non ne rimanesse qualche segno. Lo fe’ slegare; e quando, dalla sentina ove trovavasi, lo ebbero condotto alla di lui presenza: — Tu sei,» gli disse, «la cagione che ci perseguitano.» E sì dicendo, lo buttò in mare.
«Il principe Assad, che sapeva nuotare, si aiutò colle mani e coi piedi con tanto coraggio, favorito inoltre dall’onde che lo secondavano, che ciò gli bastò per non soccombere e prender terra. Giunto sulla spiaggia, la prima cosa che fece fu di ringraziar Dio di averlo liberato da tanto periglio, e tratto una volta ancora dalle mani degli adoratori del Fuoco. Spogliossi quindi, e dopo avere ben ispremuta l’acqua dal suo abito, lo distese sur uno scoglio, dove presto asciugossi tanto per l’ardore del sole, quanto pel calore dello scoglio che n’era infocato.
«Riposò intanto piangendo la sua miseria, senza sapere in qual paese fosse, nè da qual lato rivolgersi. Ripreso finalmente l’abito, camminò, senza troppo allontanarsi dal mare, finchè giunse ad una strada battuta, e seguitala, viaggiò più di dieci giorni per un paese disabitato, e nel quale non trovava che frutti selvaggi ed alcune piante lungo i ruscelli con cui sostentarsi. Giunse finalmente presso una città che riconobbe per quella de’ Magi, dov’era stato tanto maltrattato, e nella quale suo fratello Amgiad era gran visir. N’ebbe gran contento; risolse però di non avvicinarsi ad alcun adoratore del Fuoco, ma soltanto a’ musulmani, ricordandosi di averne veduti alcuni la prima volta che v’era entrato. Siccome calava la notte, ed egli ben sapeva che le botteghe dovevano esser già chiuse, e poca gente si troverebbe per le strade, prese il partito di fermarsi nel cimitero, che giaceva presso alla città, ove ergevansi varie tombe a foggia di mausolei. Cercando, ne trovò una colla porta aperta, e vi entrò, risoluto di passarvi la notte.
«Ora torniamo alla nave di Behram, il quale non istette molto ad essere investito d’ogni parte dai vascelli della regina Margiana, dopo ch’ebbe gettato il principe Assad in mare. Accostato dalla nave, su cui trovavasi la regina medesima, all’avvicinarsi di questa, siccome non era in grado di oppor veruna resistenza, Behram fe’ ammainare le vele in segno di resa.
«La regina Margiana passò in persona sul bastimento, e chiese al capitano dove fosse lo scrivano che aveva avuto la temerità di far rapire nel suo palazzo. — Regina,» rispose colui, «giuro a vostra maestà ch’egli non si trova sul mio bastimento; può farlo cercare, e conoscere da ciò la mia innocenza. —
«Margiana fece perquisire la nave con tutta la possibile esattezza; ma non fu trovato colui ch’ella desiderava sì ardentemente di rinvenire, tanto perchè l’amava, quanto per la generosità ch’erale naturale. Fu perciò sul punto di togliere a Behram la vita di propria mano; ma si frenò, e contentossi di confiscare il suo vascello con tutto il carico, e mandarlo a terra coll’equipaggio, lasciandogli la scialuppa per potervi approdare.
«Il capitano, accompagnato da’ marinai, giunse alla città de’ Magi la notte medesima che Assad erasi fermato nel cimitero a dormire nella tomba. Siccome la porta era chiusa, fu costretto a cercare anch’egli qualche tomba nel cimitero per ricoverarvisi, aspettando che spuntasse il giorno, e si aprisse la città. Per disgrazia di Assad, passò Behram davanti a quella ov’ei si trovava: entratovi, vide un uomo che dormiva colla testa avvolta nell’abito. Svegliossi al rumore il giovane, ed alzato il capo, domandò chi fosse.
«Behram lo riconobbe subito. — Ah! ah!» diss’egli; «voi siete dunque quello per cui cagione son rovinato per tutto il resto della vita! Non v’abbiamo potuto sacrificare in quest’anno, ma non la sfuggirete l’anno venturo.» E sì dicendo, gli si gettò addosso, gli mise il fazzoletto alla bocca per impedirgli di gridare, e lo fece legare da’ suoi marinai.
«La mattina appresso, quando la porta della città venne aperta, riuscì facile a Behram di ricondurre Assad presso il vecchio che avevalo con tanta malignità ingannato, passando per vie remote, in cui nessuno non era alzato ancora. Entrato che fu nella casa, lo fece calare nel medesimo carcere di prima, ed informò il vecchio del tristo motivo del suo ritorno, e dell’infelice esito del viaggio. Il malvagio vecchio non dimenticò di commettere alle due sue figliuole di maltrattare il principe sfortunato assai più dell’altra volta, se fosse stato possibile.
«Assad, estremamente sorpreso di rivedersi nel medesimo luogo, dove aveva già tanto sofferto, e nell’aspettativa dei medesimi tormenti, da’ quali erasi creduto liberato per sempre, piangeva il rigore del suo destino, allorchè vide entrare Bostana con un bastone, un pane ed un vaso d’acqua. Fremè il giovane alla vista di quella spietata, ed al solo pensiero de’ giornalieri supplizi che doveva soffrir ancora un anno intiero per morir poscia in orribil guisa!...»
Il giorno, che la sultana Scheherazade vide comparire, mentre preferiva quest’ultime parole, l’astrinse ad interrompersi. Ripigliando però la medesima novella la notte seguente, disse al sultano delle indie:
NOTTE CCXXXVI
— Sire, Bostana trattò il disgraziato principe Assad colla medesima crudeltà usata nella prima sua prigionia. I lamenti, le querele, le istanti preghiere di Assad, che la supplicava a risparmiarlo, unite alle sue lagrime, furono però tanto commoventi, che non potè quella non sentirsi intenerita, e si mise a versare rivi di lagrime con lui. — Signore,» gli disse, ricoprendogli le spalle, «vi domando mille perdoni della crudeltà colla quale vi ho finora trattato, e di cui vi feci anche adesso sentire gli effetti. Fin qui non ho potuto disobbedire ad un padre ingiustamente animato contro di voi ed accanito alla vostra perdita; ma infine detesto ed abborro tanta barbarie. Consolatevi: i vostri mali sono finiti, ed ormai cercherò di riparare a tutte le mie colpe, delle quali ben conosco l’enormità, trattandovi in miglior guisa. Voi mi avete sino ad oggi ritenuta come un’infedele; riguardatemi presentemente come una musulmana. Ebbi già alcune istruzioni da una schiava della vostra religione, la quale mi serve; spero che voi vorrete finire ciò ch’essa ha cominciato. Per dimostrare la mia buona intenzione, domando perdono al vero Dio di tutte le mie colpe pei mali trattamenti che v’ho usati, e spero ch’egli mi farà trovare il modo di mettervi in piena libertà. —
«Quel discorso fu di grande consolazione ad Assad; fece atti di ringraziamento a Dio perchè avesse toccato il cuore a Bostana; e ringraziatala de’ buoni sentimenti che nutriva per lui, non dimenticò nulla per confermarvela, terminando non solo d’istruirla nella religione musulmana, ma facendole eziandio il racconto della sua vita e di tutte le sue disgrazie, malgrado l’alta condizione della propria nascita. Quando fu intieramente rassicurato della di lei fermezza nella buona risoluzione presa, le domandò come farebbe per impedire che la sorella Cavama non ne venisse in cognizione, e non capitasse anch’ella a sua volta per maltrattarlo. — Ciò non vi dia pensiero,» rispose Bostana, «saprò fare in modo che non si curi di vedervi. —
«In fatti, Bostana seppe sempre prevenire Cavama ogni qual volta questa voleva discendere al carcere. Vedeva intanto spessissimo il prigioniero, ed invece di portargli pane ed acqua sola, gli recava vino e buone vivande, cui faceva preparare da dodici schiave che la servivano. Mangiava pure talfiata con lui, facendo tutto ciò che stava in poter suo per consolarlo.
«Alquanti giorni dopo, Bostana stava fermata sulla porta della casa, quando udì un gridatore pubblico proclamare qualche cosa. Siccome non intendeva che fosse, essendo troppo lontano il banditore, e visto ch’egli si avvicinava per passare davanti alla casa, rientrò, e tenendo socchiusa la porta, vide che camminava davanti al gran visir Amgiad, fratello del principe Assad, accompagnato da parecchi ufficiali e da numeroso seguito di guardie.
«Era il banditore a pochi passi dalla porta, quando ad alta voce ripetè il grido seguente:
«— L’alto ed illustre gran visir, qui presente, cerca suo fratello che da più d’un anno si è da lui diviso. È questi fatto nella tale e tal maniera. Se alcuno lo tenesse in casa o sapesse dove sia, sua eccellenza comanda che glielo debba condurre, o dargliene avviso, con promessa di buona ricompensa. Se qualcuno lo tiene nascosto, e venga scoperto, sua eccellenza dichiara che lo punirà di morte, lui, la moglie, i figliuoli e tutta la sua famiglia, e farà spianare la sua casa. —
«Non ebbe Bostana appena udite cotali parole, che chiuse ratta la porta, e corse a trovare Assad nel suo carcere. — Principe,» gli disse tutta allegra, «siete al termine dei vostri guai; seguitemi, e fate presto.» Il giovane, cui essa aveva tolto le catene fin dal primo giorno ch’era stato ricondotto in prigione, la seguì fin nella via, ov’ella gridò: — Eccolo, eccolo. —
«Il gran visir, che non erasi allontanato di molto, si volse indietro. Assad lo riconobbe pel fratello, corse a lui e l’abbracciò; Amgiad, che lo riconobbe pure alla prima, lo abbracciò del pari strettamente, lo fe’ salire sul cavallo d’un suo ufficiale che ne smontò, e condottolo al palazzo in trionfo, lo presentò al re, il quale creollo uno de’ suoi visiri.
«Bostana, che non aveva voluto tornare dal padre, la cui casa fu spianata nel medesimo giorno, seguendo il principe Assad fino al palazzo, fu mandata all’appartamento della regina. Il vecchio suo padre e Behram, condotti davanti al re colle loro famiglie, e condannati nel capo, gettaronsi a’ suoi piedi per implorarne la clemenza. — Non v’è grazia per voi,» rispose il re, «se non rinunziate all’adorazione del Fuoco, e non abbracciate la religione musulmana.» Salvarono essi la vita prendendo tale partito, come anche Cavama, sorella di Bostana, e le loro famiglie.
«In considerazione perchè Behram si fosse fatto musulmano, Amgiad, il quale volle ricompensarlo della perdita sofferta prima di ottenere la sua grazia, lo fece uno de’ suoi primari officiali, e lo alloggiò in casa propria. Informato Behram in pochi giorni della storia di Amgiad, suo benefattore, e di Assad, di lui fratello, propose ad essi di far equipaggiare una nave, e ricondurli al re Camaralzaman loro padre. — Probabilmente,» disse loro, «avrà egli riconosciuta la vostra innocenza, e desidererà con impazienza di rivedervi. Se così non fosse, non sarà difficile di fargliela conoscere prima di sbarcare; e s’ei persiste nell’ingiusta sua prevenzione, non avrete che il disturbo di tornare. —
«Accettarono i due fratelli l’offerta di Behram; e parlatone al re, che l’approvò, diedero l’ordine d’equipaggiare un vascello; nel che essendosi Behram adoperato con tutta la possibile diligenza, quando fu pronto a mettere alla vela, i principi andarono una mattina dal monarca a prendere commiato, prima d’imbarcarsi. Mentre facevano i loro complimenti e ringraziavano il re della sua bontà, si sentì gran tumulto per tutta la città, e nel tempo medesimo giunse un officiale ad annunciare che avvicinavasi un grosso esercito, e che niuno sapeva con quali intenzioni venisse.
«Nell’agitazione che quella spiacevole nuova mise al re, Amgiad prese a dirgli: — Sire, sebbene io abbia appena rassegnata nelle mani di vostra maestà la carica di primo ministro, della quale mi aveva onorato, son pronto nonostante a prestarle ancora i miei servigi, e la supplico perciò a voler permettere ch’io voli a vedere chi sia questo nemico, che viene ad attaccarvi nella vostra capitale senza avervi dichiarata preventivamente la guerra.» Il re ne lo pregò, ed ei partì sul momento con pochissimo seguito.
«Non istette il principe Amgiad molto tempo a scoprire l’esercito, che gli parve assai grosso, e che sempre avanzava. I forieri, che avevano i loro ordini, lo ricevettero favorevolmente, e lo condussero davanti alla principessa che comandava a quelle schiere, la quale si fermò con tutto l’esercito per parlargli. Il principe Amgiad le fece una profonda riverenza, e quindi le chiese se veniva come amica o nemica; e nel caso che venisse come nemica, qual motivo di lagnanze avesse contro il re suo padrone.
«— Vengo in qualità di amica,» rispose la principessa, «e non ho alcun soggetto di malcontento contro il re de’ Magi. Sono i suoi stati ed i miei situati in guisa, ch’è difficile possiamo aver mai tra noi differenza veruna. Vengo soltanto a domandare uno schiavo chiamato Assad, che mi fu rapito da un capitano di questa città, per nome Behram, il più insolenle degli uomini; e spero che il vostro re mi farà giustizia quando saprà ch’io sono Margiana.
«— Potente regina,» ripigliò Amgiad, «io sono il fratello di quello schiavo che cercate con tanta premura. L’aveva perduto, e l’ho ritrovato. Venite, ve lo consegnerò io medesimo, ed avrò l’onore di dirvi il resto. Il re mio signore sarà lieto di vedervi. —
«Mentre l’esercito di Margiana accampavasi per di lei ordine in quel medesimo sito, il principe Amgiad l’accompagnò sino alla città ed al palazzo, dove la presentò al re; quando questa l’ebbe ricevuta come meritava, Assad, che trovavasi presente, e che l’aveva riconosciuta appena era comparsa, le fece i suoi complimenti. Stava ella attestandogli l’allegrezza che provava al rivederlo, quando si venne a riferire al re che un esercito più formidabile del primo scorgevasi da un’altra parte della città.
«Il re de’ Magi, spaventato più della prima volta per l’arrivo d’una seconda armata ancor più numerosa, come ne giudicava ei medesimo dai nembi di polvere che quella sollevava al suo avvicinarsi, e che oscuravano già il cielo: — Amgiad,» sclamò, «com’è questa cosa? Ecco un nuovo avversario che viene ad opprimermi.»
Lo spuntar dell’alba impose silenzio alla sultana, la quale, la notte seguente, ripigliò la parola in questi sensi:
NOTTE CCXXXVII
— Comprese Amgiad l’intenzione del re; balzò tosto a cavallo, corse a briglia sciolta incontro al nuovo esercito, e chiesto ai primi, che trovò, di parlare a quello che lo comandava, fu condotto davanti ad un re, cui egli riconobbe dalla corona che portava in testa. Appena il vide da lontano, smontò, e giunto presso di lui, dopo essersi prostrato col viso a terra, gli chiese cosa desiderasse dal re suo padrone.
«— Io mi chiamo Gaiur,» rispose il monarca, «e sono re della China. Il desiderio di saper nuove d’una figlia chiamata Badura, che ho da molti anni maritata al principe Camaralzaman, figlio di Schahman, re delle isole dei Figliuoli di Khaledan, mi obbligò ad uscire da’ miei stati. Aveva permesso a codesto principe d’andar a trovare suo padre, col patto di venirmi a rivedere d’anno in anno con mia figliuola. Pure è molto tempo che non ne ho più inteso parlare. Il vostro re farebbe cosa gratissima ad un padre afflitto di riferirgli ciò che ne potesse sapere. —
«Il principe Amgiad, il quale, a quel discorso, riconobbe il re suo avolo, gli baciò con tenerezza la mano, e rispose: — Sire, vostra maestà vorrà perdonarmi questa licenza, quando saprà che me la prendo per farle i miei rispetti come a mio avo. Io sono figlio di Camaralzaman, oggi re d’Ebano, e della regina Badura, di cui ella va in cerca; non dubito che non godano nel loro regno d’ottima salute. —
«Il re della China, giubilante al vedere suo nipote, lo abbracciò tosto teneramente, e quell’incontro sì felice ed inaspettato trasse lagrime d’ambe le parti. Avendo il re chiesto quindi ad Amgiad il motivo che lo aveva condotto in quel paese straniero, il principe gli raccontò tutta la sua storia e quella del fratello Assad; e finito ch’ebbe: — Figliuol mio, » si fece a dire il re della China, «non è giusto che principi innocenti come voi siano maltrattati più a lungo. Consolatevi, io ricondurrò voi e vostro fratello dal padre, e vi farò far pace. Tornate indietro, e partecipate al germano vostro il mio arrivo. —
«Intanto che il re della China accampavasi nel sito dove Amgiad l’aveva trovato, questo principe tornava a dare la risposta al re de’ Magi, il quale lo aspettava con grande impazienza. Rimase egli sommamente sorpreso all’udire che un re potente come quello della China avesse intrapreso un viaggio sì lungo e penoso pel desiderio di rivedere la figliuola, e si trovasse tanto vicino alla sua capitale. Laonde diede tosto gli ordini per trattarlo isplendidamente, e s’accinse poi ad andarlo a ricevere.
«In quel mentre, si vide sollevarsi un gran polverio da un altro lato della città, e seppesi in breve l’arrivo d’una terza armata. Ciò costrinse il re a fermarsi, e pregare il principe Amgiad di andar ancora a vedere che cosa quella domandasse.
«Amgiad partì, ed il principe Assad questa volta lo accompagnò. Trovarono ch’era l’esercito di Camaralzaman loro padre, il quale veniva a cercarli. Aveva egli esternato tanto dolore per averli perduti, che l’emiro Giondar alla fine gli palesò in qual modo avesse lor salvata la vita: e ciò avevalo fatto risolvere ad andarli a cercare in qualunque paese si ritrovassero.
«Quel padre afflitto abbracciò i due principi versando rivi di lagrime d’allegrezza, che misero un grato termine all’amaro pianto, ch’ei da tanto tempo versava. E non gli ebbero appena i principi partecipato, che il re della China, suo suocero, era pur giunto nel medesimo giorno, ch’egli si mosse con loro, seguito da pochi de’ suoi, per andar a visitarlo nel suo campo. Ma non avevano ancor fatta molta strada, quand’ecco un quarto esercito, il quale si avvicinava in bell’ordine, e sembrava venire dalla parte della Persia.
«Camaralzaman disse ai principi suoi figliuoli di andar a vedere che soldatesca fosse, mentre stava aspettandoli. Partirono subito i giovani, ed al loro arrivo furono presentati al re, cui quell’oste apparteneva. Salutatolo profondamente, gli chiesero a qual fine si fosse tanto avvicinato alla capitale del re de’ Magi.
«Il gran visir, che trovavasi presente, prese la parola. — Il re, al quale favellaste,» disse, «è Schahzaman, re delle isole dei Figli di Khaledan, il quale viaggia da lungo tempo colla comitiva che vedete, in cerca del principe Camaralzaman suo figliuolo, uscito da’ suoi stati or son moltissimi anni; se ne sapete nuova, gli farete il maggior piacere ad informarnelo. —
«I principi altro non risposero, se non che gli recherebbero fra breve la risposta, e tornarono a briglia sciolta ad annunciare a Camaralzaman, che l’ultimo esercito allora giunto era quello del re Schahzaman, e che vi si trovava il re suo padre in persona.
«La maraviglia, la sorpresa, la gioia, il cordoglio d’aver abbandonato il genitore senza prendere da lui congedo, fecero sì potente effetto sullo spirito del re Camaralzaman, che cadde privo di sensi all’udire d’essergli sì vicino; rinvenuto alla fine, per le affettuose cure dei principi Amgiad ed Assad, quando si sentì forze bastanti, volò a gettarsi appiè di Schahzaman.
«Non erasi da gran tempo veduto un incontro più tenero fra padre e figliuolo. Schahzaman si dolse amorosamente col re Camaralzaman dell’insensibilità mostrata allontanandosi da lui in guisa sì crudele; e questi gli dimostrò un sincero pentimento del fallo che l’amore avevagli fatto commettere.
«I tre sovrani e la regina Margiana rimasero tre giorni alla corte del re de’ Magi, il quale li trattò splendidamente. E quei tre giorni furono pure assai notabili per gli sponsali del principe Assad colla regina Margiana, e per quelli di Amgiad con Bostana in ricompensa del servigio da lei reso al fratello. I tre re finalmente, e la regina Margiana con Assad suo sposo, ritiraronsi ciascuno nel proprio regno. Quanto ad Amgiad, il re de’ Magi, che avevalo preso ad amare, ed era già molto avanzato negli anni, gli pose la corona sul capo; ed il giovane successore si applicò quindi con tutto zelo ad abolire il culto del Fuoco, e stabilire ne’ suoi stati la religione musulmana.»
La sultana, scorgendo il giorno: — Sire,» disse a Schahriar, «tali sono gli straordinari avvenimenti cui diede origine il matrimonio di Camaralzaman colle due principesse Badura ed Haiatalnefus. Se vostra maestà me lo permette, voglio narrarle una storia non meno curiosa, e della quale spero rimarrà soddisfatta.» Il sultano si alzò per andar a presiedere il consiglio, non ordinando ancora la morte di Scheherazade.