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«La condusse Amgiad per molto tempo di contrada in contrada, di quadrivio in quadrivio, di piazza in piazza; ed erano già stanchi entrambi di camminare, quand’egli entrò in una via che trovò terminata da una casa di bell’apparenza, con due panche, una per parte. La porta era chiusa. Amgiad sedè sur una panca, come per prender fiato, e la dama, più stanca di lui, sedette sull’altra.
«Quando fu assisa: — È questa dunque la casa vostra?» chiese al giovane. — Lo vedete, o signora,» rispose il principe. — Perchè dunque non aprite?» ripigliò colei. «Cosa aspettate? — Mia bella;» — replicò Amgiad, «è perchè non ho la chiave; l’ho lasciata al mio schiavo, che incaricai d’una commissione, dalla quale non può essere ancor di ritorno. E siccome gli ho comandato di comprarmi, dopo aver eseguita questa commissione, l’occorrente per fare un buon pranzo, temo che non abbiamo ad aspettare assai. —
«La difficoltà che il principe incontrava nel soddisfare alla sua passione, di cui cominciava a pentirsi, avevagli fatto immaginare quella scappatoia, nella speranza che la donna gli credesse, e che il dispetto la costringesse ad abbandonarlo ed andare a trovar fortuna altrove; ma s’ingannò a partito.
«— Ecco uno schiavo impertinente di farsi aspettare così,» ripigliò la dama; «lo castigherò io medesima come va, se non lo punite bene voi quando sarà di ritorno. Intanto non è bello ch’io rimanga sola ad una porta insieme ad un uomo.» E sì dicendo, si alzò, e raccolse un sasso per ispezzare la serratura, ch’era di legno e debolissima, secondo l’uso del paese.
«Amgiad, disperato di quell’idea, volle opporsi. — Signora,» le disse; «che cosa intendete fare? Di grazia, abbiate un po’ di pazienza. — Cosa avete