L'elemento germanico nella lingua italiana/M
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M
Macca, abbondanza (Davanzati); a macca, in abbondanza, a ufo (Pulci, Morgante). Il Caix 366 trae senz’altro questa voce da aat. manac manag, mat. manc manch, molto, che conservasi nell’agg. del tm. manch, molto. Macca sarebbe per * manca, e il passaggio della liquida in gutturale sarebbe giustificato da esempi analoghi: ad es. mecca da t. Schminke. Pel signif. macca seguì lo stesso processo di svolgimento di ufo, da got. ufiôn, che dapprima valeva “in abbondanza”, poi “gratis”. A questo proposito lo Schneller ravvicina il friul. mong, quantità, e tirol. monquello, molto, a t. mancherlei, molteplice. Quanto alla storia ed allo sviluppo della voce ger., accanto alle voci già accennate, stanno mat. manec(g), tm. mannig, molteplice, poi got. manags, molto, ags. monig, ing. many, as. maneg, ol. menig: inoltre i derivati got. managei, aat. managi menigi, mat. menege menge, tm. Menge, folla, moltitudine. Il Kluge p. 247 si fa la dimanda se il vocab. ger. sia venuto da got. aat. mana, donde tm. Mann, uomo, col suffisso got. ga uguale a gr. κο, l. c.; per cui varrebbe “provvisto di uomini”. Ma poi, considerato che l’a. ir. menicc significa “frequente”, e l’a. sl. mûnogû “molto”, conchiude che la voce in quistione sia fondamentalmente indipendente dal got. aat. mana, uomo.
Machignone, sensale (dial. piemontese). U. Rosa ravvisa in questa voce e nella sorella fr. maquignon, una derivazione da rad. di tm. Mäkler, sensale, vb. mäkeln fare il sensale. Ma questo è un vb. recente nel tm., a cui è venuto dal bt. D’altra parte la forma stessa è troppo lontana, perchè sia possibile un passaggio. Io per altro ritengo che qui si tratti veramente d’un’etim. ger.; ma che questa sia da cercarsi nell’aat., dove troviamo huormahho huormachâre, lenone, ruffiano, sensale, e huor machunga, seduzione, ruffianeria sensaleria; dove il primo elemento del composto è aat. huor huor, tm. Hure, meretrice, il secondo mahho o machôn, da cui tm. machen, fare. Ora il nome huormahho potè in bocca ai popoli romanzi abbreviarsi in macco da cui poi con un suffisso accrescitivo e disprezzativo machignone; molto più che lo stesso verbo machôn mahho, tm. machen, anche da solo presenta talvolta il significato di “promuovere affari”. Questa mia congettura è confermata anche dal fatto che da aat. mahho machôn lo Scheler trae il fr. maquereau che vale precisamente “sensale”, come piem. macchignone.
Magagna, lesione, vizio, difetto sia del corpo come dell’anima (Novellino, 50; Boccaccio). Altre forme sono: crem. mil. piem. mangagna, difetto, vizio corporale; afr. mehaing meshaing, mutilazione, malattia; méhaigne ( ); vall. mehaing, mancanza; vb. it. magagnare, guastare, infettare; prov. maganhar, afr. mehaigner, mutilare. L’etim. proposta dal Muratori da gr. l. manganum, sorta di projettile, ripugna al significato, ed anche alla lettera, massima per lo spostamento dell’accento. L’Ulrich in un articolo della Zeits. für rom. Phil. ed. Groebar III, 265 e segg. propose di ricondurre it. magagnare a ger. * manganian da rad. dell’aat. mangôn mangian, difettare, mancare. Ma il Mackel p. 53 rigetta assolutamente una tale derivazione, perchè pure concedendo la possibilità della esistenza d’un tal vb., è assurdo il dare a * manganian una funzione causativa, sicchè venga a significare “cagionare, difetto, mutilare”. Inoltre le forme fr. mehaing mehaigner rendono, secondo lui, affatto insostenibile una tale etim., essendo impossibile il passaggio da g in h, e mostrando it. magagna che il g da h intervocalico è epentetico, del pari che la n di mangagno nei dial. italiani. Perciò il Mackel crede per lo meno molto probabile la congettura messa innanzi dal Diez; il quale partendo dalla definizione del tardo mlt. mahamium «mahamium dicitur ossis cuiuslibet fractio vel testae aut capitis incussio, vel per abrasionem cutis attenuatio», e dal fatto che nelle forme fr. si riconosce un h aspirata, non soffrendo qui questa lettera alcuna contrazione; il Diez propone un aat. man-hamjan, mutilare l’uomo, composto di formazione analoga a quella di aat. manslago, uccisore degli uomini. Il Mackel ritiene che aat. * hamian abbia per sè molta verosimiglianza; giacchè il mat. hemmen per la forma e aat. hamal, mutilato, ham, malato (donde tm. Hammel, castrato) pel signif. indicano che un aat. * hamian, mutilare, dev’essere esistito. Questa è dunque una parola di etim. ger. probabilissima. Deriv.: Magagna-re-to.
Magona, ferriera, luogo dove si lavora e si serba; luogo d’abbondanza ferro (Luca Martini, rim.; Buonarroti). Credo che questo nome sia etimologicamente la stessa cosa che il seguente, cioè magone, e che provenga perciò da aat. mago, stomaco, ventriglio, tm. Magen; il quale nome ger. secondo alcuni conterebbe, l’idea generale di “ciò che contiene, lavora qualche cosa”. La magona sarebbe adunque stata detta così per similitudine. Avevo bell’e scritto questo articolo quando mi capitò sott’occhio il Mussafia che deriva anch’egli q. parola da magone. V. la nota a Magone. Deriv.: magon-cina-iere.
Magone, gozzo, ventriglio degli uccelli, dolore, crepacuore (dial. modenese). Anche questa è un’etim. ger. ravvisata primieramente dal Muratori. La parola ha per base l’aat. mago, stomaco, ventricolo, ventriglio dei polli, donde mat. m. bt. mage, tm. Magen, d’ug. sig. L’ol. è maag, ags. maga, m. ing. mawe, ing. maw, stomaco, gozzo, anrd. mage, dan. mawe, stomaco. Il got. * maga, manca. Per la storia primitiva del vocab. ger. mancano, secondo il Kluge p. 244, dati sicuri. Lo Schade p. 583 asserisce che aat. mago si è formato da vb. aat. magan, tm. mögen, “valere, potere”, e che perciò significa “il potente, l’avente capacità di potenza”, e ciò per la lavorazione e digestione dei cibi. Ma il Kluge p. 244 respinge questa derivazione e molto più l’interpretazione; perchè i nomi delle parti del corpo non sono necessariamente da ricondurre ad una radice verbale; almeno nel campo ger. Però il Faulmann p. 233 continua a sostenere che il tm. Magen o Mägen viene da môgen ed è «das in der Bauchhölhe befindliche Werkzeug zur Verdauung der Speisen», cioè “il laboratorio dei cibi nella cavità ventrale”. V. Magona. Lasciando ora da parte questa origine prima del vocab. ger., diremo che esso penetrò probabilmente in it. mediante i Longobardi, ed oltre al moden. magone, diè lad. magún, piac. magott, crem. magatú col signif. proprio del t. e del moden., lucchese macone, ventriglio dei polli, umbro magone d’ug. sig. (Caix num. 122). Inoltre si riflettè in venez. e piem. magon, genov. magún, piac. parm. maga, rancore, astio, odio, crepacuore. Inoltre bergam. magosa, e piac. magotta valgono anche “glandula, tumore alla gola cagionato da scrofola”. Mussafia, Beitrag, p. 76. In quest’ultimo signif. di “odio, stizza” il vocab. ger. ha subito lo svolgimento ideologico di l. stomachus che dal concetto d’un organo del corpo, passò a denotare quello di “sdegno, nausea”, senso che penetrò e divenne comune in it. Ma il moden. magone, più che nel signif. di “odio, stizza”, si fissò in quello di “dispiacere, afflizione”. E il derivato maghetto (almeno nella montagna moden. [Montese], assunse anche quello di “cumulo, risparmio”: donde la frase «fare maghetto» “mettere da parte, risparmiare”1. Deriv.: maghetto, magone; ammagonarsi (moden.). V. Magona.
Malandrino, rubator di strada, brigante (Villani, Sacchetti). Il fr. predenta malandrin, anald. limos. mandrin d’ug. sig. Lo sp. molondro vale “vagabondo”, il com. malandra “meretrice”, occit. mandro “volpe”, mandrouno “ruffiana”. Il fr. nella scrittura appare solo nel sec. 15º; e pare riproduca l’it. che è molto più antico. Il Diez ad ogni modo ne fa un composto ibrido in cui entrano l. mal[us], e rom. landrin, che alla voce Landra, s’è visto essere probabilmente d’orig. ger. Il Littrè peraltro inchina a vedere in malandrin un deriv. da afr. malandre, lebbroso, e lo Scheler ritiene non impossibile quest’ultima ipotesi. Ma, francamente, ci pare molto strano il passaggio dei sensi, nonostante che lo Scheler tenti di giustificarlo con questa scala: lebbroso-misero-cattivo-brigante. Deriv.: malandri-naggio-nesco-o.
Malistallo (antiq.), stalla, scuderia (M. Villani, Velluti). Questo nome entrò in it. al tempo del mat., giacchè nell’aat. non ricorre. Probabilmente v’entrò occasionalmente come Luffomastro; vale a dire esso fu introdotto dai cronisti fiorentini che si trovarono nella necessità di accennare ad un nome tedesco relativo a qualche carica o istituzione. Ciò seguì principalmente nei sec. 12.º 13º e più ancora nel 14º, quando l’Italia era percorsa dai capitani di ventura, molti dei quali erano Tedeschi. Ricorre nel bl. di Pier delle Vigne, lett. 50, sotto la forma di Maristallia. Quindi si spiega come, passata l’occasione, il nome cessasse di far parte della lingua viva e non fosse più usato. La forma mat. era marstal da cui tm. Marstall. È un composto in cui entrano mat. marh, cavallo, e stal, dimora; vale dunque propriamente “stalla del cavallo, scuderia”; signif. conservato tuttavia dal tm. I due elementi saranno trattati a parte sotto Marescalco e Stallo.
Mallo1 tribunale di giustizia, assemblea pubblica giudiziaria (Muratori, Capponi, Balbo). È un termine giuridico che nel mlt. prese la forma di mallum-us nelle leggi degli antichi Franchi. Questo mlt. mallum [vb. mallare, accusare, citare in giudizio], riposava su aat. as. mahal, luogo di giustizia, giudizio, amministrazione della giustizia, contratto, ags. mael, discorso, ragionamento, anrd. mâl, discorso, colloquio, proverbio, giudizio, sentenza. Vigfusson, 415. Dal mlt. mallum publicum, l’afr. cavò mall public, pubblica amministrazione del diritto. Secondo il Grimm, Gramm. 2, 509, da aat. madal, got. mathl mediante elisione della dentale e contrazione si ebbe mâl, che poscia si ampliò di nuovo in mahal. Quest’ultimo entra in numerosi composti dell’aat. e mat. dove presenta il signif. di “sposalizio, maritaggio”, senso acquistato pel fatto che tali maritaggi facevansi nelle pubbliche assemblee, e che resta nel tm. Mahl, matrimonio, Gemahl, marito, vb. vermählen, sposare, maritare.
Mallo2 inviluppo verde che avvolge il nocciolo d’alcuni frutti e specialmente della noce (Palladio, Crescen.; Pulci, Morg.). Il Diez si domanda se abbia che fare con fr. malle, tasca di cuoio, portamantello, valigia, il quale con fr. male, [sec. 13.º, 14.º] sp. prov. mala, vall. male, bl. mala si svolse da ger. mala, aat. malaha malacha malcha malha, mat. malh, ol. mal, fiam. maal maale, ags. mail, ing. mail, valigia, borsa. Certamente il senso è alquanto diverso; perchè l’it. presenta una restrizione e una determinazione grandissima rispetto al valore generico di “custodia” che ha il vocab. germanico. La forma non si scosterebbe tanto, massime considerato che alcuni dialetti (per es. il moden.) invece di mallo dicono mala e malone. D’altra parte il gr. μαλλός, vello della pecora, e il l. mallo-onis, rezzuola della cipolla, presentano difficoltà per lo meno uguali. Accanto al ger. mala sta gael. maladh, mâlah, sacco, guscio e gli fa concorrenza.
Malta, fango, belletta, melma (Pataffio, Sacchetti, Pulci). Voci parallele sono: lad. maulta, molta, lomb. molta, bl. molta. Il Castiglione fu il primo a ravvisare nella parola it. un derivato da aat. molta molt, mat. molte molde multe, polvere, terra [got. mulda, χοῦς κονιορτός, polvere, terra, muldeins, χοϊκός, polveroso ]. Nel tm. la voce è andata perduta, precisamente come aat. e mat. mëlm, che aveva uguale signif. e la stessa radice. Sull’orig. ger. di it. Malta presa in questo senso non può esserci alcun dubbio. È vero che presenta un senso un po’ diverso dalle corrispondenti got. aat. e mat., valendo ora non semplicemente “terra, polvere”, ma “terra, polvere rammollita”. Ma questa piccola differenza fa poca o niuna difficoltà, poichè un identico trapasso ideologico vedremo essersi verificato anche in Melma, che è certissimamente parola ger. e dello stesso ceppo fonetico. Inoltre dall’agg. mat. molwik per moltwik, morbido come polvere, si rileva che a mat. molt era inerente anche l’idea di “terra o polvere morbida e tenera”, e che perciò anche nel campo ger. la parola in quistione conteneva già un senso assai vicino a quello che si trova avere al presente in it. La forma poi d’alcuni dial. dell’Italia settentrionale perfettamente uguale all’aat., costituisce anch’essa un argomento decisivo per questa etimologia.
Malvagio, cattivo, tristo, di pessima qualità (B. Latini, Guinicelli, Dante). Gli corrispondono prov. malvais, fr. mauvais, come a it. malvagità rispondono prov. malvestad [da cui forse sp. malvestad], afr. mauvaistrie. Il Diez considerato che il got. presenta un balvavêsei, malizia, malvagità, ne deduce la possibilità dell’esistenza nella stessa lingua d’un agg. balvavesis, a cui sarebbe corrisposto un aat. * balvâsi. Da questo il rom. avrebbo cavato un * balivasi, e quest’ultimo sarebbe stato ridotto dai popoli neol. alla forma di * malvasi per un falso ravvicinamento popolare della sillaba bal a l. mal, raccostamento favorito dall’identità del significato: caso verificatosi non poche altre volte. Un’altra ragione che, secondo me, convalida l’opinione del Diez, è il fatto che nel campo ger. si ritrovano altre voci dello stesso ceppo dell’addotta dal Diez, ed anche più di quella vicine al rom. Così abbiamo ags. balowîso, cattivo, l’as. baluwîso, che conduce a rovina, e più prossimo sia di forma che di senso il mat. * balwahs, e palwas, acuto per nuocere e far male. In se stessi i voc. ger. sin qui esaminati sono composti di aat. balo palo, nuocere, rovinare, e di wesen, essere; sicchè varrebbero precisamente “essere pernicioso, nocente”; significato identico a quello della parola rom. Accanto ad aat. bato palo stanno nd. bale d’ug. sig., as. balu, male, ag. balu bealu, cattivo, pernicioso, balu bealu bealo, rovina, male, malizia. Risalgono a vb. got. balvjan, tormentare, da cui anche balveîns, pena, tormento, anrd. böl, calamità. Cfr. gr. φαύλος, cattivo. Questa parola aat. entra in molti composti che presentano tutti il signif. di “perversità, cattiveria”. Oltre all’etim. del Diez ne sono state proposte parecchie altre. Il Bugge (Rom. IV, 362) mise innanzi un l. * malvatius che sarebbesi svolto da * malvatus, accorciamento di male-levatus, male allevata. Fa difficoltà il senso, che in malvagio è infinitamente più intensivo, e più ancora il fatto che il l. levo-as non vale già “tirare su, educare”, ma “alleggerire”. Inoltre di un tal composto non esiste traccia nè nel l. classico, nè nel bl. Il Gröber partendo da l. vatius, dalle gambe storte, ricorrente in Varrone, ne forma un malevatius malvatius che varrebbe “storto”: dal qual signif. materiale si sarebbe poi passati al morale. Ma se vatius valeva già di per sè “storto” che bisogno c’era dell’avv. male? Poi anche lo svolgimento logico del signif. sarebbe durissimo. L’Hoffmann ritiene possibile la derivazione da un malvaceus, fiacco, molle. Anche qui è troppa la distanza dei sensi. S’aggiunge che come nota il Diez, il rom. esige un etimol. uscente in si. Per tutte queste ragioni il Littrè, pur non dissimulandosi che il cangiamento della sillaba bal in mal è un po’ difficile, crede nondimeno che l’etim ger. di malvagio trovata dal Diez sia sinora la più verosimile e per senso e per forma fra le fin qui proposte. Ammessa però questa origine tanto il Diez quanto il Littrè ritengono che sp. malvado, prov. malvat, fr. malvé, cattivo, debbano staccarsi delle voci rom. sin qui considerate e ricondursi ad altra origine. Deriv.: malvagi-amente-one-ssimo; malvascia-o; malvestà-de; immalvagire.
Manigoldo, maestro di giustizia, boja, carnefice; furfante, briccone; uomo feroce (Senec. Declam.; M. Villani, Ariosto). Questo nome fra le lingue rom. è posseduto solo dall’italiana. Lo sp. manigoldo pare venuto dall’it. E certo che quest’ultimo ha per base un nome proprio ger. che nell’aat. presenta queste forme: Managold, Managolt, Manogold, Manigold, Manigolt, Manegolt. V. Förstemann, I, 904. Per ispiegare poi come un nome proprio diventasse un appellativo, bisogna supporre o che un individuo di nome Manigoldo fosse famoso pel suo mestiere di boja (cfr. ghigliottina da Guillotin), ovvero che il np. etimologicamente avesse questo signif. La prima ipotesi è esclusa dal fatto che storicamente non c’è un uomo di nome Manigoldo, che siasi segnalato neppure come carnefice. Resta adunque la seconda. Secondo il Grimm, Gramm. 3, 453 e Myth.2 1160, 498 nella composizione di questo np. entrano, un aat. * mani = menni meinni, collo, (v. Men), e gold, oro. Quindi il signif. sarebbe quello di “collo d’oro”, e tale denominazione sarebbe stata applicata al boja per ischerzo come colui che porta il collare. Si potrebbe interpretare la seconda parte anche come derivante dal vb. gelten galt gegolten, valere; ed allora il composto importerebbe “valente pel collare”. Ma a queste congetture del Grimm s’oppone il fatto che nel ger. mana nel signif. di “collo” non compare mai. Il Kluge crede piuttosto che il valore etim. di Managold sia quello di Vielherrscher, cioè di “molto potente”, come risultante da manag, molto, e waltan, potere, dominare [gr. Πολυκράτης]. Altri infine sospettano che manigoldo sia una elaborazione it. di t. Manowalt, “che maneggia il collare” [da men, collare, e walten, amininistrare]. Ad ogni modo, qualunque siasi la ragione del trapasso del np. ted. al nome comune it., questa è certamente una etim. germanica indiscutibile. È notevole un tal nome non appaia mai nel bl. Questo mi farebbe supporre che venisse di Germania in epoca piuttosto tarda, e non che fosse importato dai Longobardi. Ricorre, è vero, al principio del sec. 16º in Teodorico di Niem (Histor. Concil. Constantiensis); ma questo scrittore tedesco visse lungamente e scrisse in Italia; e quindi doveva avere appresa questa parola presso di noi. V. del resto Menegold. Deriv.: manigold-accio-eria-one.
Mannichino, fantoccio che serve ai pittori, modello (neolog.). È voce che immediatamente riproduce il fr. mannequin ricorrente già nei sec. 15º e 16º (da cui venne anche sp. maniquì, modello), e mediatamente l’ol. mannekîn, fiam. manneken, piccolo uomo, rispondente a t. Mannchen, omiciattolo, dimin. di Mann, uomo. Il vall. presenta la forma maniket, nano, pigmeo.
Manovella-o, sorta di leva (Vit. S. Fran.: Canti Carnas., Ciriffo Calv.). Secondo il Diez sarebbe un composto ibrido di it. mano e aat. wëlla, ma t. welle, tm. Welle “ciò che si aggira e si avvolge”, e quindi anche “cilindro, rullo, verricello”. Ma a tale etim. si possono muovere gravi obbiezioni. Non esistendo affatto una tal parola in ted., bisognerebbe ammettere che sia stata coniata in Italia. Ora come si può immaginare che nel medio-evo in Italia si formasse un composto il cui secondo elemento fosse il nome t. wëlla, se questo non era per nulla usato come parola semplice? Il Diez inoltre ha creduto a torto che una tal voce esista solo in it., incontrandosi anche in fr. dove manivelle fa la sua comparsa sin dal sec. 14º. Vero è che potrebbe esserci entrata dall’it.
Marca1 paese, contrada, regione (Dante, Purg. 19; Villani, Borghini). Con afr. fr. marche riposa sopra aat. marca marka marcha maracha marhha marha, termine, limite, confine, frontiera, paese di frontiera, parte di paese delimitata, distretto, provincia, proprietà collettiva in fondi e terreno spettante ad una comunità; poi anche “foresta”, perchè questa a cagione dei comuni pascoli era la parte principale delle proprietà comuni. Il got. era marka, e valeva ὅριον, μεθόριον, confine, paese di frontiera; il mat. marche marcke mark con signif. uguale all’aat.; il tm. Mark, termine, confine, paese di frontiera, o sottodivisione d’un cantone. Altre forme ger. sono: as. marca marka, distretto, territorio, confine, ags. meare, confine, distretto, circolo. Grein 2, 237; a. fris. merke merike merik, limite, circolo di paese, sater. merc, confine. Al got. marka, s’attiene anrd. mörk, foresta; dove il Kluge osserva che un tal cangiamento di senso era dovuto anche al fatto che negli antichissimi tempi fra i Germani le foreste servivano spesso di confine naturale fra le popolazioni. Vigfusson 414; Graff 2, 844; Egilsson 529, Möbius 305. Il signif. originario e fondamentale della parola è precisamente quello di “orlo, limite, confine”, come è mostrato chiaramente dalla affinità primitiva con l. margo, orlo, margine, e con a. ir. brù ]da forma fondam. * mrog], orlo, ir. bruig, cimb. corn. bro, territorio, paese, contrada, e n. pers. marz, confine, paese di frontiera. L’ing. march mork non procede da ags. mearc, il cui c non avrebbe potuto mai diventare un ch, bensì da afr. marche. Il bl. marcha “confine, termine”, appare già all’anno 722 in una Charta di Bertrada (Calmet, tom. I), e all’anno 746 nella legge 13 di Ratchis. In Germania questo nome di Marca fu usitatissimo nella prima metà del medio-evo, poichè fu applicato a molti paesi di frontiera, specialmente a est e a sud-est; e famose diventarono la Marca di Brandeburgo, che ora è il centro dell’Impero tedesco, la Marca del Nord [Nordmark], la Danimarca, la Marca d’Austria [Östmark] ecc. In Italia, ove il nome entrò coi Longobardi, restò proprio del paese che s’estende da Rimini al Tronto, col nome di Marca o Marche d’Ancona, e della Marca Trivigiana. Per altre quistioni v. Marca2 e Marco. Deriv.: marchese, marchigiano. V. Marchese.
Marca2 segno, contrassegno, nota di riconoscimento (Buonarroti, Fiera; Lippi, Malmantile). Corrispondono qui: afr. marc, marche, merc, prov. marc, marca, fr. marche, marque, sp. marca. Fondamento a queste voci è aat. marc march, mat. marc march, segno, di riconoscimento (specialmente delle proprietà), da cui tm. Marke d’ug. sig. Forme parallele in quel campo sono: ol. mark, segno, ricordo, ags. mearc, ing. mark, segnale, contrassegno, marca, anrd. marc, segno. Il got. sarebbe * mork. Il Diez, lo Scheler, il Mackel, il Faulmann e molti altri etimologisti riguardano aat. mat. marc, tm. Marke, segno, come la stessa parola con got. marka, aat. marca, tm. Mark, confine, parte di confine e propriamente “orlo”. Ma il Kluge p. 248 non è di questo avviso; anzi crede che difficilmente le due parole si possano ricondurre alla stessa radice, per la ragione che il significato di “termine, confine”, che, come è provato dalle lingue sorelle, è antichissimo nel tema di ger. marka, marcha, può appena essere preso come punto di uscita per quello di “segno”; essendo piuttosto accettabile l’ipotesi contraria, cioè che il termine di uscita fosse quello di “segno”. A questa sottile osservazione del Kluge, si potrebbe opporre che alcuni derivati rom. riuniscono ambedue i significati [p. es., afr. marchir, delimitare, che viene indubbiamente dallo stesso vb. da cui il marcare: v. q. verbo). È però anche vero che il rom. potè benissimo scambiare facilmente fondere in una sola parola le due ger. quasi identiche per la forma, e che pure offrono una certa analogia di senso. V. Marcare, marchio e marco.
Marca3 (antiq.), sorta di peso e di moneta (Tav. Rit.; Polo, Mil.). È forma sorella di marco2. V. q. parola.
Marcare1, confinare, essere a confine (B. Latini, Tesoretto). Si formò da marca1; ma non restò nell’uso comune.
Marcare2 segnare, notare (M. Villani). Con sp. port. marcar, afr. marcher, fr. marquer si svolge riproduce aat. marcôn marchôn, as. marcôn, designare, determinare, fissare. Nel tm. è andato perduto, ma lo conserva il bt. nella forma marken. Però il tm. possiede un altro vb. della stessa radice che è merken, osservare, notare, e che esamineremo sotto il vb. marchiare.
Marchese, guardiano d’una marca o provincia di frontiera, titolo di dignità d’un possessore di terra eretta in marchesato; oggi semplicemente titolo onorario (Dante, Boccaccio). A questa forma it. corrispondono: prov. marques-is, sp. marques, port. marquez, fr. marquis. Fondamento a tutte è l’agg. bl. marchensis, svoltosi da sost. marcha, e che s’incontra già all’anno 799 presso Adone di Vienna, e negli Annal. Franc. di Fulda all’anno 886. Da bl. marchensis si passò ben presto alla forma marchisius, ricorrente in Incmaro di Reims, De Ordine Palatii, all’anno 937, e a quella di Marquisus, fondamento alle francesi e spagnuole, registrata in un documento dell’anno 965. Evidentemente a marchensis si sottintendeva «dominus o princeps»; ma l’agg. acquistò presto la forza di sostantivo e a poco a poco soppiantò del tutto la forma sorella Marchio-nis, che non potè avere la fortuna dell’altra di penetrare nelle lingue neol. V. Marchione. Deriv.: marchesa-sana-sato. Il bl. marchensis passò anche nel mat. colla forma di markis, e nell’ing. con quella di márquess marquiss sotto l’influsso di fr. marquis.
Marchia, paese di confine. È forma sorella di marca1 con cui costituisce etimologicamente la stessa cosa. Ricorre nel bl. all’anno 1044 in un documento ove si parla della Marchia di Fermo. Non penetrò in it.; ma ci penetrò il suo deriv. Marchiano. V. q. parola.
Marchiano, uomo o cosa della Marca d’Ancona; poi figuratamente “badiale, grossolano”. Questo agg. riposa direttamente sul sost. bl. Marchia; e nel suo senso originario di “uomo della Marca d’Ancona” ricorre già presso Innocenzo III verso il 1210. In seguito il nome assunse il signif. di “stravagante, grossolano”, pel fatto che gli abitanti, gli asini e i frutti della Marca sono grossi: donde l’appellativo di «asino della Marca», e di «ciliegia marchiana». Altri dicono che un tal senso provenga dall’essere gli abitanti della Marca per lo più semplici e bonarii. Ma questo spiegherebbe il senso morale, non il materiale della parola. Ora Marchiano come appellativo di popolo è andato in disuso, essendo prevalsa la forma di Marchigiano. Resta però come aggettivo. Senonchè, senza volere negare la possibilità della derivazione dell’attuale signif. dell’agg. marchiano da Marchiano np. d’un popolo, si potrebbe anche osservare che un tal senso potè svolgersi anche dall’agg. marchiano con valore di “marcato”; da cui poi il senso di “segnalato, notevole”.
Marchiare (antiq.), contrassegnare improntando (Villani, 10, 154; Bellincioni). Questo vb. è parallelo a marcare; e deriva non da aat. marcôn marchôn come quello, bensì da un vb. ger. della stessa rad. cioè got. * markian, aat. * markian, * merkian, merchen merken, mat. merchan merken, osservare, porre attenzione, accorgersi, notare, intendere giudicando e commentando, tenere in mente, condannare biasimando; notare, munire d’un segno; tm. merken, segnare, notare, porre mente, accorgersi, scorgere. Di qui afr. merchier, mercher, designare. Deriv.: marchia-no-tore-tura.
Marchio1 segno, contrassegno, (Serdonati, Stor. 1, 2; Lippi, Malm.). Forma una cosa sola con marco1, seppure non s’è svolto dal vb. marchiare. Ad ogni modo spetta sempre allo stesso ceppo ger. L’ipotesi che provenga dal marculus di Plinio non si può accettare; giacchè marculus vale “martello”, dove prevale il concetto di “battere” come scorgesi in vb. fr. marcher, it. marciare; laddove in marchio domina quello assai diverso di “segnare, notare”. Poi il l. marculus, che fra le altre cose è questione se non si debba leggere martulus, è ad ogni modo rarissimo; nè si può ammettere facilmente che desse origine ad un nome così comune come marchio. V. Marco1.
Marchio2, romano, peso della stadera (Stat. Pistoi.). È voce sorella di marco2, il che costituisce una ragione di più per confermare che anche marchio, segno, contrassegno, non ha che fare con l. marculus, ma ha la stessa rad. ger. di marco1.
Marchione, marchese. Dalla forma aat. marchia, sorella di marcha, si formò il sost. bl. marchio-nis, di signif. uguale a marchese, che troviamo prima di marchensis, cioè all’anno 786 nella Vita Ludovici, e in altri documenti citati dal Ducange alla voce Marchio. Come s’è già detto (v. Marchese), il Marchio non uscì dal bl. per entrare in nessuna delle lingue romanze.
Marco1 contrassegno, impressione da marcare (M. Villani, 6, 72; Stat. Sunt. Pist.). È la stessa voce che marca2 e che marchio. Ora non s’usa più in questo senso, e prevale l’uso di marchio1.
Marco2 sorta di peso e di moneta antica (Tav. Rit., Sacchetti). Immediatamente è dal bl. marca che ricorre già in documenti della seconda metà del sec. 9.º Il bl. poi aveva a base l’aat. * marka, da cui mat. marc marke che era “mezza libbra d’argento o d’oro”, tm. Mark, ags., m. ing. marc, anrd. maerk, mezza libbra d’argento. Anche di questa parola si è voluto fare una cosa sola con marca1 e marca2. Ma il Kluge ritiene che anche qui non ci siano ragioni sufficienti. La supposizione, egli dice, che Marke, segno, (con rapporto al conio) sia affine Mark moneta, non è sicura, perchè Mark, marco, originariamente non significava una moneta determinata, ma un determinato peso. Oggidì in Italia s’usa solamente come nome del contrappeso della stadera od anche parlando d’una moneta tedesca.
Marescalco, mariscalco, maniscalco, maliscalco, chi medica e ferra cavalli; anticamente valeva anche “conduttore d’esercito, maresciallo”, e Dante l’usa anche per “gran signore, satrapo” (Novel., Crescenz., Stor. Aiolfo). Lo sp. e port. hanno mariscal, il prov. manescal(c), afr. mareschal(t), fr. maréchal. Questa voce romanza ha per fondamento ger. marahskalk, aat. marahscalc, mat. marschalc, servo del cavallo. Un tal composto ger. è antichissimo: poichè già la Lex Salica e le Leg. Alam., conoscono il mariscalcus, accanto a cui il mlt. presenta marscallus. Dei due elementi componenti, il secondo sarà trattato alla voce Scalco: il primo è aat. marah, mat. marh, cavallo, carogna, ags. mearh, nd. marr;. il got. * marh, manca. Nel tm. non s’è conservato altro che la forma femminile Mähre da mat. merhe, aat. meriha marha; a cui rispondono ags. mýre, ing. mare, ol. merrie, anrd. merr da got. * marhi. Secondo il Kluge aat. marah venne da preger. marka, nella qual forma fu da Pausania accennato come parola celtica; cfr. a. ir. marc e gael. marck, cavallo. Quanto al significato, aat. marescalc, mat. marschalch, marschalc valeva da prima “servo del cavallo”, e questo fu che passò e si conservò nell’it. Ma presso i Merovingi in Francia assunse ben presto quello di “soprintendente dei servi nei viaggi o spedizioni militari, quale impiegato della città o della corte”, e poscia si fissò in quello di “suprema dignità militare”. Il primo dei due sensi, cioè quello di “carica di corte”. passò anche in Germania al tempo degli Imperatori Sassoni; il secondo a poco a poco soppraffece il primo e diventò esclusivo nel fr. maréchal, che alla sua volta agì poi sull’it. dove passò nella forma di Maresciallo, e sul tm. dove Marschall, maresciallo, a detta del Kluge, si è bensì formato dal mat. marschalc, ma sotto il parziale influsso del fr. maréchal, specie quanto al significato. A una metamorfosi di senso uguale a quella del vocabolo in quistione, andò soggetto anche il mlt. comes stabuli, fr. connétable, donde it. conestabile, che alcuni sostengono essere una imitazione formale e reale di aat. marahscalc: dal signif. modesto di “impiegato sovra le stalle” passò a quella di “sopraintendente di corte”, e s’innalzò infine a quello di “suprema dignità militare”. L’it. marescalco, la cui gran diffusione fa supporre che sia entrato coi Longobardi, conservò il suo umile signif. originario e lo specificò in quello di “ferrator di cavalli” e qualche volta di “medico di cavalli”. Anticamente però ebbe talvolta anche il senso fr. di “guidator d’esercito, maresciallo” (Boccaccio). La forma trentina marascalco è vicinissima all’aat. In ing. non entrò il vocab. ger. V. del resto Maresciallo, mascalcia, mascalzone.
Maresciallo, titolo di suprema dignità militare (Borghini, Segneri). È la riproduzione di maréchal, elaborazione francese di aat. marascalc: viene quindi ad essere forma sorella di marescalco, ma con signif. differente. Quanto al tempo che passò in Italia, si può approssimativamente collocare nel sec. 16.º Infatti nella lingua scritta appare la prima volta nel Borghini, il quale Arm. fam. 73 scrive: «Come si mostra alcuni libri dei Contestaboli e Ammiragli e Marescialli di Francia». Il fatto che i nostri scrittori adottarono la voce francese, mostra che il signif. di essa, non era più annesso comunemente a maliscalco, e che quest’ultima usata in tal senso non sarebbe forse stata più intesa. Del resto il fr. maréchal non agì solo sull’it.; poichè l’ing. tolse da esso il suo marshal mareschal, generale, e ne formò persino il vb. to marshal, ordinare, schierare; e s’è già visto che il tm. Marschall risenti ancor esso l’influsso fr. Deriv.: marescial-la-lato. V. Marescalco.
Marese, stagno (Villani). Con afr. maresc, fr. marais è tratto comunemente da un bl. mariscus che sarebbesi formato da l. mare. Ma la forma afr. maresc e più marchais e prov. marcx che sta forse per marsc accennano piuttosto ad orig. ger., nel qual campo abbiamo mat. marsch, bt. marsch, ol. maerasch, mare, stagno, palude; le quali voci sono e per forma e per senso assai più vicine alle rom. che l. mariscus.
Margravio (neolog.), titolo di dignità principesca in Germania, ch’era da principio proprio del giudice o governatore d’una marca o provincia di confine; e quindi equivale a marchese. Fu cominciato ad usare dagli storici it. in questo secolo, e solo parlando di cose tedesche. In Francia penetrò sin dal sec. 16º. Rappresenta immediatamente il tm. Markgraf, venuto da aat. maregrâvo marggrâvo, mat. marcgrâve marcrâve margrâve, e composto di Mark, frontiera, provincia di frontiera, e di aat. grâfio grâvëo, mat. grave, tm. Graf, conte. Il primo dei due elementi è già stato esaminato: il secondo è aat. grâfio grâvo krâvio garâbo, gerâbo, mat. grâve, presidente, tribuno, procuratore, giudice reale, conte, chirurgo, medico, tm. Graf, conte; afris. grêva, fris. grêve greafa, nd. grefa, isl. greifi, ags. gerefa, ing. reeva rif [in sherif], i quali vocaboli sono tutti di signif. pressappoco uguali a quelli dell’aat. e mat., ma con prevalenza di quello di “conte”. Quanto all’origine prima, ormai è del tutto rigettata quella dal nome bl. graphiarius, graphium, notaio, cancelliere, scrittura, venuto da gr. γράφειν, scrivere; e il Kluge sostiene che è schiettamente ger., e lo riconduce ad una rad. che vale “comandare”, che apparisce in got. gagrefts, comando, ordine. Lo stesso Kluge però crede che ags. giraeba garefa, ing. sherif non vengano da rad. di aat. grafio, ma da got. garôbia; e che anrd. e m. ing. greife provengano da m. bt. grêve. Qualche dial. ted. conserva tuttavia il signif. di giudice: transil. grês, ass. grêbe, ren. grif. Deriv.: margraviato.
Marpais, marpahis, marphais, scudiero, cavallerizzo. Voce longob. ricorrente in Paolo Diac. II, 9, ma che non uscì dal bl. La forma genuina sarebbe marhpaizo; e le corrisponderebbero aat. * marahpeizo, ags. * mearhbaeta, got. * marhbaitja. I due elem. di cui è composta sono: aat. marh, cavallo, e paiz da * paizan, ags. baetan, frenare. Quindi vale “frenator di cavalli”.
Marrone1, cavallo da tiro che si accoppia come guida ad altro non ben domato (Tomm.). È voce restata in uso sino a questi ultimi tempi, e che proviene da aat. marah, mat. marh, nd. marr, tm. Mähre cavallo, stato già esaminato alla voce marescalco. Dovette essere d’importaz. long.
Marrone2, errore, sproposito (Varchi, Ercolano). Nello sp. abbiamo marar, marânar, errare, sviarsi, che con fr. marrir, marriment d’ug. sig. e it. smarrirsi (v. q. vb.) procedette da aat. marran, errare. Facilmente il sost. it. è ancor esso deriv. dal vb. ger., che come, si vedrà, ebbe larga diffusione nel campo rom. Però il Tommasèo crede che sia la stessa cosa che marrone, sorta di castagna, preso nel senso figurato di “cosa grossa come un marrone”, a quel modo che «marchiano» significò “grossolano”. Il che però non spiega per nulla il senso di “errore, sproposito”, che non si svolge necessariamente dal concetto di “grosso”, come si scorge precisamente anche nel caso di «marchiano». Per tutto questo l’etim. ger. ha per sè assai più di verisimiglianza.
Martora, animale selvatico simile alla faina, di colore fra il tanè e il nero e di pregiata pelle (Serdonati, Redi). I corrispondenti rom. sono: fr. martre, marte, sp. port. marta, prov. mart. L’etim. da l. martes è ormai abbandonata da quasi tutti, perchè quel martes, che ricorre solo una volta presso Marziale, è lezione molto dubbia, elidendosi dai più che si debba leggere mele. D’altra parte la tarda comparsa che fa in it. il nome martora mal si spiegherebbe se avesse origine latina, mentre si capisce assai bene se proviene dalle lingue ger. dove ebbe ed ha una diffusione grandissima e presenta una forma molto più vicina alle forme rom. che l’incerto martes e il * martalus che si suppone da taluno derivato da esso. Perciò il Kluge ammette come certa la provenienza delle voci romanze dal ger., dove troviamo: aat. mardar, mat. marder, mart, tm. Marder d’ug. sig.; ed inoltre anrd. mordr e ags. mearth meard; as. * marthar che si scorge nell’agg. marthriu. Secondo lo stesso Kluge il tema ger. sarebbe martu, da cui got. * marthus * marthuza; e di qui sarebbesi svolto il mlt. martus e i deriv. romanzi. L’ing. marten è da fr. martre. Ger. mártu viene raffrontato a lit. martis, sposa; il che ci fa supporre che il concetto che ha presieduto alla denominazione di questo animale in quelle lingue sia quello di “sposa, donna”, come s’è verificato nel n. gr. νυμιφίτα, sposina, e nell’it. donnola, piccola donna. Il Faulmann crede che mard, tema del nome ger., sia da vb. * mërdan, uccidere, strozzare, annientare, che alla sua volta proverrebbe da vb. * mergan, costringere, opprimere, sopraffare, a cui, secondo lui, spetterebbe anche Mähre, cavallo.
Marworf, gettato a terra da cavallo. È un composto longobardo adoperato in Rotari 30, 373, che non penetrò in it. Risulta da marh, cavallo, e da vb. werfan gettare.
Mascalcia (antiq.), arte del maniscalco, guidalesco (Libr. Mascal.; Din., Masc.; Redi). Riposa con fr. maréchalerie d’ug. sig., sul bl. marescalcia, che fra gli altri significati ebbe anche quello di “ferratura e cura dei cavalli”, donde afr. marechausser les chevaux, ferrare e curare i cavalli. Questo bl. marescalcia valeva anche “luogo d’alloggio pei cavalli”; e ne provenne fr. marechaussée, scuderia. Aveva anche il senso di “molestie ed angherie usate dai marescalchi o ministri d’un signore che andavano a fare provvigione di foraggi pei cavalli”. Cfr. Ducange a questa voce. Marescalcia è formazione bl. da marescalcus. Deriv.: mascalciato, mascalcire. V. anche Mascalzone.
Mascalzone, uomo vile e d’abbietta apparenza, giacchè dall’apparenza i più giudicano l’abbiettezza (Pataffio, M. Villani, Sacchetti). Io credo che provenga non da male calzato, bensì da mascalciato uno dei derivati di mascalcia, che valeva “affetto da incomodi di salute, cagionoso” ". Da questo signif. era ovvio il passaggio a quello di “infelice, sciagurato”; e da questo senso fisico si venne finalmente al senso morale, come tante altre volte. Quanto alla forma, da «mascalciato» a «mascalcione» la distanza è breve.
Massacro, strage molta e fiera (Adriani, Plut.; Cesari). Immediatamente questo nome ripruduce il fr. massacre ricorrente già nel sec. 13º e che riposa a sua volta sul bl. mazacrium usato in una Charta di Montmorency all’anno 1221. Ritenuta impossibile la derivazione da massa a cagione del suffisso acre che non esiste, e inverosimile quella dal l. scramasaxus, coltellaccio, proposta da Scheler, per la troppa durezza dell’inversione; il Diez mette innanzi quella di vb. massacrer dal bt. matsken o piuttosto dalle forme sorelle presumibili matseken, matsekern, tagliare a pezzi. Il Mahn preferisce invece il t. metzgern, macellare il bestiame, molto più che il fr. massecrier vale anche “beccajo”, precisamente come il t. Metzger. E questa etim., adottata come la più probabile anche dal Littrè, è suffragata altresì dal fatto che bl. mazacrium appare primieramente nella Francia settentrionale, ch’era direttamente a contatto coi dialetti tedeschi. Deriv.: massacrare.
Massone (neolog.), nome dei membri d’una società segreta famosa, le cui origini si perdono nel bujo del medio-evo. La parola è riproduzione, divenuta comune in Italia nella prima metà di questo secolo, di fr. maçon, che propriamente vale “muratore”: donde i massoni sono anche chiamati «liberi muratori», traduzione letterale del fr. francs maçon. Il fr. maçon è dallo Scheler derivato da aat. mezzo meizzo, tm. Metz, tagliatore [tm. Steinmetz = tagliatore di pietre]. Il Diez a questa etimologia oppose la difficoltà che a fondamento immediato del vocabolo fr. sta il bl. macio mattio ricorrente in Isidoro, il quale viveva in tempo in cui era difficile che parole ger. fosser già penetrate nel bl. Quindi ammise un l. * mâtea, [solo mateola, mazza, è documentata]. Ma all’obbiezione del Diez, perciò che riguarda il tempo di Isidoro, si può rispondere, che in questo scrittore s’incontrano anche parecchie altre parole d’orig. ger. Quindi il Mackel, dopo messo a base di aat. mezzo meizzo, tm. Metz, il ger. matja, asserisce che esso è molto preferibile e per senso e per forma anche come etimologia di fr. maçon; il quale ultimo per conseguenza, pure non riposando sulla voce aat., riposa peraltro sulla sua radice e sul suo tema anteriore. E questo ger. matia, secondo lui, è sufficiente a spiegare altresì il bl. macio. Però non dissimula che si sarebbe aspettato un fr. * maison. Quindi l’etim. ger. in questo caso non è del tutto certa. Nel senso primitivo il fr. maçon non entrò in Italia. Deriv.: masso-neria-nico.
Mattone, pezzo di terra cotta di forma quadrangolare (Villani, Ottimo C., Cavalca). Il fr. ha matton [dialet. maton, cat. mató, forma da cacio, afr. maton “sorta di cacio” e “pietra cotta”. La pietra cotta o mattone servendo anche per la preparazione e formazione del cacio, si spiega l’identità del nome all’uno e all’altro applicato. Il Diez cavò questa voce rom. da mat. matte matz “latte rappreso”; e lo Scheler fa osservare che la progressione ideologica “latte rappreso-formaggio-mattone” è naturale. Poichè l’it. non presenta che l’ultimo dei signif., è verosimile l’abbia tolto direttamente dal fr., sul cui territorio questo vocabolo aveva subito la evoluzione dei significati. Il Littrè nota che fr. matou “latte rappreso” è la stessa cosa che *matton; il che ci pare metta fuori di dubbio l’etim. ger., dal momento che è certo che maton viene di là. Alcuni ritengono poi che mat. matte non sia originariamente ger. Il Muratori aveva pensato a cavare una tal parola da maltone; ma una tal deriv. è riputata impossibile, considerati specialmente i signif. che essa presenta in fr. Anche la origine da l. mactus, proposta dal Bianchi non regge. Deriv.: matto-naja-nato-nella; matton-cello-iero; ammatto-nare-nato.
Mecca, vernice per le dorature (Tramater). Ha per corrispondente emil. smeco, belletto (Biondelli). Il Caix 409 lo trae dal tm. Schminke, liscio, belletto, vb. schminken, imbellettare; e una tale derivazione è resa ancor più evidente dalle forme che il vocab. ger. presenta nelle sue forme antiche, aat. smëkar smëhhar, ags. smicere, pulito, fino, elegante”, mat. sminke smicke, vernice; le quali sono vicinissime foneticamente al dialettale smeco. La voce ital. ha perduto la s iniziale ed ha assunto il genere femminile, forse per la falsa supposizione che questa sorte di vernice prendesse il nome dalla città della Mecca. È difficile stabilire se l’introduzione in Italia della parola ger. sia di data antica o recente. La forma farebbe credere alla prima delle due ipotesi: ma il fatto che l’aat. ha tuttavia valore d’aggettivo con signif. ancor molto generico, e che in ital. si presenta tardissimo, m’inducono ad ammettere che sia penetrata sulla fine del medio-evo o sul principio dell’età moderna. Il Faulmann sostiene che vb. mat. sminken è forma rinforzata di smingan, fregare, stropicciare; e che Schminke vale propriamente “colore che si dà alla pelle per abbellirla”. Inoltre fa di smirgan una forma parallela di aat. swingan, vibrare.
Melma, mota, belletta, cioè terra che è nel fondo delle paludi, dei fossi o dei fiumi (Ottimo Com. Inf. 7; Liv. man. Dec. 2, 5; Arrig. 60). Questo nome, che fra le lingue rom. si riscontra solo in it. e nel sardo molma, e perciò dovette venirci per mezzo dei Longobardi, ha per base l’aat. mat. as. mëlm, polvere. Accanto a queste forme abbiamo: got. malma, sabbia, ags. mealm, sabbia, arena, che ricorre nel composto mealmstân, pietra arenaria (v. Bosworth, A compendious anglo-saxon and english dictionnary, London, 1866); anrd. malmr, dan. malm, metallo, minerale. Di qui si vede che in it. il vocab. ger. assunse un signif. un po’ diverso, poichè passò a denotare non semplicemente, “polvere, sabbia”, ma “polvere o sabbia rammollita”. Nel tm. il nome non sopravvisse, ma resta un vb. della stessa rad. che è malmem in zermalmen, triturare, minuzzare, da cui Zermalmung, trituramento che presuppongono un aat. * malmôn, mat. * malmen, in luogo dei quali il mat. presenta le forme zermaln, zermülln, sminuzzare. I temi ger. erano malman, malma e milma significanti precisamente “il triturato, lo sminuzzato”; e appartengono alla rad. di vb. mal che diè aat. malan, mat. maln, tm. mahlen, macinare; as. mälan, ol. malen, anrd. mala, got. malan d’ug. sig. Questa rad. mal [mol; ml], macinare, è comune alle lingue idg. occidentali, il che accenna al presto comparire della macinatura. Abbiamo infatti: l. molo, gr. μύλλω [da cui μύλη, μύλος, μυλίται, μυλωθρός], a. sl. melja, lit. malù mâlti, a. ir. melim, macinio, macinatura, sans. malanam, sfregare, macinare. Secondo il Kluge questa comune denominazione presso le lingue idg. occidentali non conduce necessariamente ad ammettere un periodo primitivo in cui le rispettive popolazioni formassero una unità, essendo piuttosto verisimile che il macinare da un ramo siasi diffuso agli altri, ed essendo anche possibile un influsso d’una civiltà straniera, come è avvenuto in altri casi. Qui si connettono le parole ted. Malter, Maulwurf, Mehl, Milbe, Mühle, Müller; mulda, molt; muljan; Benfey 1, 495; Kuhn Zur ältesten Ges. der idg. Völker 16; Curtius2 315; Miklos. 374-380; Fick2 832. Deriv.: melmetta, melmoso; ammelmare.
Men, collare del cane (dialetto com.). Il genov. ha menu d’ug. sig. Ha per base aat. menni meinni, monile, catena od ornamento del collo, as. meni, ags. mene myne, monile, anrd. men, plur. menja, catena da collo, collana. Il got. era mani; il tema ger. mánia. Qui si raffrontano celt. gr. μανιάκης, collana o braccialetto d’oro dei Celti, l. monile, collana, gr. dorico, μόννος μάννος, dimin. μαννάκιον d’ug. sig., sans. máni, pietra preziosa, giojello, perla. Bopp 7, Gl.3 283; Fick2 14, 7. A questa stessa rad. spetta aat. mana, mat. mane man, giubba, criniera, specialmente del cavallo; da cui tm. Mähne d’ug. sig. e voci parallele ol. maan, ags. manu, ing. mane, anrd. mon, criniera, e anrd. makke, parte superiore del collo del cavallo. La forma ger. comune era manô. Questo secondo svolgimento di significati è assai più recente; poichè il signif. primitivo era semplicemente quello di “collo”, che restò prevalente nella prima delle due forme esaminate. Evidentemente in Italia penetrò mediante i Longobardi, e solo nella prima di esse. Notevole poi che in Italia pigliasse la determinazione di “collare del cane”; come aat. mana e voci sorelle presero quella di “criniera del cavallo”. Qui sembrano rannodarsi altresì a. ir. muince, collana, muin muinél, collottola, nuca, mong, capello, criniera, ind. manyâ, nuca.
Menegold, lattuga, rapa, bietola (dial. comasco). A questo corrispondono: mil. meregold e piem. manigot. Riposa su mat. manegolt mangolt da cui tm. Mangold, d’ug. sig. Circa questo nome ger. il Kluge p. 247 osserva che l’appoggio su Gold, oro, non sembra essere originario; e che è affatto ignoto perchè la pianta ricevesse la denominazione dal np. aat. Managold Mangold, da noi visto sotto Manigoldo, non si scorgendo alcun nesso logico possibile tra le proprietà di questo ortaggio e i signif. etim. che si danno a Managold, cioè di “collo d’oro” " ovvero “molto potente”. Quanto al tempo dell’introduzione del vocabolo ger. in Italia, è chiaro che se in quel campo comparisce solo nel mat., non si può pensare ad una importazione longobarda, che richiederebbe l’esistenza anche del corrispondente aat. Bisogna dunque supporre che penetrasse in Lombardia solo dopo il 1000. Però siccome in quell’età è rarissima per non dire nulla l’introduzione di voci ger. di questo genere, e d’altra parte il non essere documentata non vuol dire assolutamente che non sia esistita anche prima del mat., possiamo anche congetturare, che realmente l’aat. la possedesse e che di là ci venisse mediante i Longobardi.
Micca, massa di roba morbida, minestra, pagnotta (Pataffio; Pulci, Morg.; dialetto lombardo). Si credette per un pezzo che questa voce non fosse che il l. mica, briciola, che si riprodusse nello stesso senso nell’it. mica e fr. mie. Ma ormai quasi tutti convengono che sia una voce d’orig. ger., e precisamente dei dialetti ger. della Fiandra e dell’Olanda. E le ragioni sono queste. Nel bl. troviamo spesse volte un mica, micca, micha, michea, michia in senso di “pane, pagnotta”. Ora da una parte è da considerare che queste voci del bl. si incontrano quasi sempre adoperate da scrittori che vivevano nella Francia settentrionale, in Inghilterra e nelle Fiandre. Così mica ricorre in una carta della chiesa di S. Laudo d’Angers e in un’altra del monastero di Marmoutier an. 1237; micca in una carta del monastero di Stablo (Brabante) all’anno 1483; micha in una carta inglese presso Spelmann: michea michia nel libro dell’ordine di S. Vittore in Parigi. Dall’altro canto bisogna anche tenere presente che l’ol. mik, a detta di Kiliaen e di Hasselt, vale “farina di segala”, e micke “pane di frumento”, e fiamm. micke mikken “pane di frumento”. Da questo è facile dedurre che gli scrittori sunnominati che vivevano o nelle Fiandre o in paesi ad esse vicini, e che avevan con esse molte relazioni, quando usavano il bl. mica, micca non facevano che latinizzare una voce volgare diffusa molto in quelle parti, e che non aveva nulla che fare col l. mica, briciola, che del resto era troppo distante di senso, e che ad ogni modo non avrebbe poi prodotto un micca. Quindi ritengo collo Scheler che fr. miche e it. micca sia d’orig. ger. e niente affatto latina. Il fatto che la troviamo usata in it. per la prima volta dal Latini, potrebbe far credere che egli l’avesse imparata in Francia; ma poichè essa è comune in Lombardia, si può anche supporre che venisse direttamente a noi dai Longobardi, benchè non ne appaia traccia nell’aat. Deriv.: micchetta.
Mignone, favorito, amico intimo (Fra Giord.; Pulci, Morg.). Col fr. mignon, grazioso, delicato, vago, caro, prediletto, mignard, d’ug. sig., vb. mignoler, carezzare, vezzeggiare; riposa su as. minnja minnëa minna, aat. minnja minna minnî, mat. minne, ricordo, ricordanza, rimembranza, dono fatto per ricordo, filtro, dilezione, carità, buon accordo, buon accomodamento, oggetto d’amore, specialmente nei discorsi vezzeggiativi tra madre e figlio e viceversa, da vb. aat. minnëon minnôn, amare, far doni. Il tema ger. è minja; la rad. men man, pensare, ricordarsi, a cui si rannodano: anrd. minne, ricordo, bevanda per fare ricordare, ing, mind, mente, pensiero, ags. mynd, got. muns, avviso, sentimento. Inoltre le si fanno appartenere: vb. mahnen, ricordare, meinen, opinare e Mann, uomo. Una tale rad. è comune anche ad altre lingue fuori del campo ger.: gr. μένος, mente, animo, μιμνήσκω, mi ricordo, l. memini mens moneta reminiscor, rad. sans. man, opinare, credere. L’aat. minna, mat. minne, sparì dal tm. (sec. 15.º). Ma nella seconda metà del sec. passato Minne, amore, fu rinnovato da alcuni scrittori, forse sotto l’influsso francese. Quanto all’it., a me pare che immediatamente provenga dal fr., dove nel sec. 13.º appare dapprima la forma mignot. Deriv.: mignoncello. V. Mignotta.
Mignotta, meretrice. È voce dello stesso ceppo ger. che la precedente, nella cui elaborazione ha probabilmente influito il fr. mignot, favorito, caro, e vb. mignoter, accarezzare. L’affinità con fr. mignon fu già avvertita dal Caix.
Milza, noto viscere del corpo animale (Cres., Guinicelli, Fra Giord.). Forme parallele sono: sp. melsa, prov. melso, da * meltso, delf. milza, borg. misse, milan. nilza, lad. snieulza, e con più forte scostamento prov. melco melfo. Il venez. è spienza, dove evidentemente è avvenuta la fusione di milza e di l. splen, d’ug. sig. Le voci rom. riposano su aat. milzi, mat. milze milz, donde tm. Milz, milza. Il tema ger. è miltja, e gli appartengono anche anrd. milte, ags. milte, milza; poi ing. milt, ol. milt, latte, latte di pesce. Secondo il Grimm, il Weigand, lo Schade, il Kluge e il Faulmann il nome spetta alla radice ger. melt ricorrente in Malz e in schmelzen, e significante “ammollire, fondere”; e ciò in riguardo della proprietà che attribuivasi a quest’organo di sciogliere e rendere liquidi certi sughi per aiutare la digestione. Il Faulmann connette vb. ags. meltan, fondere, ad aat. mëlchan, da cui tm. melken, mugnere, ed all’agg. mild, mite. Pel Kluge una tal denominazione del viscere è specificamente germanica, come gli altri nomi delle parti del corpo, Hand, Finger, Daumen, Zehe, Leber; mentre Herz, Niere, Fuss, Arm, Rippe hanno una storia anteriore che si collega al resto del campo indeu. Deriv.: milzo, allentato, floscio, vizzo, senza corpo, senza milza. Probabilmente milzo si formò da smilzo. V. q. agg. Anche l’albanese meltzi è derivato dal ger.
Mitraglia, carica di bocca grossa da fuoco, composta di schegge più o meno minute (neolog.). Rappresenta fedelmente il fr. mitraille entrato in Italia in questo secolo probabilmente colle guerre napoleoniche. Ora il fr. mitraille è d’orig. ger., dove troviamo aat. mîza, ags. ing. mîte, ol. mijt, tm. Miete, piccola moneta; signif. che conservasi nel piem. mitraja, moneta picciola. Le due ultime forme ai rifletterono dapprima in fr. mîte, pezzetto di rame o d’altro metallo e sp. mita. Da fr. mite si svolse afr. mitaille e da esso fr. mitraille colla epentesi della r. A detta del Littrè la forma mitaille, che compare nel sec. 14º, durò fino al 16º quando troviamo per la prima volta mitraille. Il norm. presenta un mindraille. Deriv.: mitraglia-re-tore-trice.
Mommeare, scherzare buffoneggiando (Caro, Lettere). Credo che questo vb., della cui etimologia finora nessuno si è occupato, sia affine ad afr. momer, mascherarsi, da cui fr. momerie, mascherata. Ora afr. momer, come dice anche lo Scheler, procedette da rad. di vb. t. mummen, ing. to mum, mascherare. Il Ducange aveva pensato a cavare fr. momerie da mahomerie, pratica religiosa dei Maomettani, ch’era quindi oggetto ridicolo pei Cristiani. Ma è chiaro primieramente che vi sarebbe un trapasso di sensi troppo duro; poi questa derivazione farebbe supporre che il nome momerie fosse il primitivo e vb. afr. momer il derivato, mentre il primitivo in fr. è il nome e non il vb., e di fatti in it. il nome non esiste. Inoltre il ceppo manca del tutto allo sp.; caso che sarebbe strano se la parola fosse d’origine arabo-maomettana. Quanto al l. Momus, nome del Dio della satira e della maldicenza presso gli antichi Greci e Romani, non può neppur esso fornire una etimologia sufficiente per il vb. francese e ital.; perchè era nome non popolare; di più il senso sarebbe anche qui troppo lontano. Non è così ammessa l’etim. ger.; nella quale dal concetto di “mascherarsi” è facile il trapasso a quello di “fare scherzi e buffonate proprio come si fa nelle mascherate”.
Mondualdo, manovaldo, manualdo, tutore della donna (G. Villani, Morelli). Questo nome giuridico, proprio solo dell’it., risale a mlt. mundualdus formatosi sul longob. mundvalt, che ricorre tre volte nelle leggi di Liutprando, 12, 14, 30 (cfr. C. Meyer, p. 297). È dunque d’importazione di quel popolo. La forma longob. genuina, secondo il Meyer, sarebbe stata * mundwald, che risale ad aat. munt-walt o -waltô. Questo è un composto il cui primo elemento sarà trattato alla voce Mundio: il secondo è il nome aat. walto, da cui mat. walte, as. waldo, “colui che ha potestà in qualche cosa”. Quindi il muntwaltô è “l’avente la potestà del mundio”2. Si formò da vb. aat. walton, mat. tm. walten, as. got. walden, anrd. valda, ags. weâldan gewyldan, dominare, regnare, avere potenza, esercitare qualche cosa; ing. to wield, maneggiare. Secondo il Kluge il ger. waldan da preger. waltá acquistò il t da principio solo nel presente; ma poscia questo divenne parte del tema verbale. La rad. primitiva sarebbe stata wal, che appare anche in l. val-ere, essere forte, robusto, e le spetterebbero quindi anche got. valian, aat. wëllan, tm. wellen, volgere, aat. walzan, tm. walzen, rotolare. Il Pott2 2, 3, 623, e dietro a lui lo Schade, credono che l’ampliamento e indurimento della rad. mediante il t significhi l’energia e risultativa volontà per sostenere una cosa e dominare. Il Faulmann p. 388, dopo avere tratto di qui anche Wald, bosco, foresta, mette a base il vb. wëltan, essere gonfio e vivace: da questo senso sarebbesi svolto quello di “essere robusto e potente”, quindi quello di “soprastare” e infine quello di “dominare”. Questa rad. fu fecondissima nel campo ger.: per l’aat. e mat. si vegga lo Scade p. 1084; nel tm. accenneremo solo Anwalt “procuratore”, corrispondente approssimativamente a muntwalti; walten e verwalten, amministrare. Nel mat. muntwaltô produsse muntalde e muntadele mediante il femminino aat. muntwaltâ, che valeva “protetta, soggetta al muntwaltô”. Le innumerevoli affinità nel campo sl. sono riportate dallo Schade loc. cit.; ma il Kluge crede siano state tolte in prestito dal ger. Nella formazione di it. manovaldo, manualdo ebbe parte la mescolanza di mano (v. fr. mainbour). Deriv.: manovalderia.
Mopsa (neolog.), donna cupa e sospetta che occulta i suoi sentimenti; settaria (Bresciani). Questo sost., della cui etim. nessuno s’è ancora occupato, non può evidentemente avere alcuna relazione con Mopsus, nome latino che ricorre in Virgilio; ed io credo che venga senz’altro dal tm. Mops, Möpse, musola, musetto, specie di cane; persona dalla faccia trista. Il Kluge p. 261 trae il tm. dal bt. mops mop, ol. mops mop d’ug. sig. Questo poi procede da vb. bt. moppen, fare il muso, brontolare, tm. vermoppeln, riprendere, da rad. ger. mup, contrarre o storcere il viso, fare baje e frascherie. Qui connessi sono anche mat. muff mupf, storcimento della bocca, ol. mopper, faccia burbera, cupa ed arcigna, ing. mop mops, faccia contorta, gesto di disprezzo, zanni, buffone, mopish, stupido, mopishnes, tristezza, m. ing. moppe, pazzo, matto. Da tutti questi signif. il passaggio a quello di “persona cupa e chiusa” si presenta facile e spontaneo. Secondo il Faulmann bt. moppen si sarebbe formato dal participio mumban del vb. antiq. mimban, premere, aggravare; quindi varrebbe “essere, oppresso”. * Mimban poi sarebbe stato forma parallela al vb. antiq. mingan, da cui tm. Mange, mangano. L’introduzione in Italia di questa voce è avvenuta in questo secolo col travasamento di costumanze settarie originarie d’oltremonti e relativi vocaboli. V. Massone.
Morbido, morvido, delicato, trattabile, piacevole al tatto, soffice, molle, tenero (Arrighetto, Crescen., Boccaccio, Morelli). Il Muratori propose di trarlo da t. mürbe d’ug. sig. L’aat. ha muruwe, muruwi murwi, il mat. murewe, frollo, tenero, morbido. Queste due ultime forme spiegherebbero bene il morvido che ricorre nell’Ovidio del Semintendi e nel Redi. Tuttavia il Diez, considerato che il l. morbidus, malaticcio, può essere disceso anche al signif. di “tenero, delicato”, per la frollezza che mostra ciò che è malato, inchina a questa ultima derivazione; e ne trova una conferma nello sp. morbido che riunisce i due sensi del lat. e dell’it. S’aggiunge a questo che san Girolamo usa morbidus proprio nel signif. dell’it., e che aat. muruwe, mat. mürwe, tm. mürbe non darebbe in it. altro che morvo-vio-bo, e lascerebbe inesplicato il suffisso ido. Per tutto ciò l’orig. ger. in questo caso resta poco probabile. Deriv.: morbid-o-amente-amento-are-etto-ezza-iccio-ire-issimo-one-otto-ume; rammorbi-dare-dire.
Mórdar, cattivo, empio (dial. com.). Gli corrisponde lad. morder, uccisore, assassino. Provenne da tema di mat. mordaere mordaer mörder, da cui tm. Mörder, uccisore, omicida. L’it. ha generalizzato il significato del vocab. ger. sul cui ceppo e svolgimento v. Mordo, mordro.
Mordo, mordro, uccisione segreta e premeditata. È un vocab. ger. che penetrò nel fr. colle forme di afr. * mortre meutre, vb. meutrir, fr. mordre meurdre meurtre, e nel mlt. murdum murdrum mordrum, d’ug. sig., mordritus mordridus. L’it. non l’adottò, forse perchè un po’ incomodo a pronunciare, ed anche perchè esso possedeva parecchie voci lat. equivalenti, come uccisione, ammazzamento, assassinio. Però l’accenniamo qui sia perchè ne deriva il vocabolo dialettale precedente, sia perchè contribuisce a dare un’idea dell’influsso ger. sulle lingue neol. Ha per base aat. mord, da cui mat. mort, tm. Mord, uccisione. Forme sorelle sono: as. morth mordh, ol. moord, ags. mordh mordhor mordhur [da cui ing. murder], afris. morth mord, anrd. mordh, d’ug. sig. Grein, 2, 263; Richtofen 936; Vigfusson 434. Il got. era maúrthr, vb. maúrthrian, uccidere. Il tema ger. comune è murtha murthra, e in quel campo gli appartengono: mordaere mordic mordisk murdian murthian murdian murdrian murthiren, [got. maúrthria, uccisore, maúrthrjan, uccidere] nell’aat.: nel mat. murden morden mörden; ags. myrdhra, uccisore; nel tm. morden e derivati. Fuori del campo ger. presenta molte affinità. Così lit. ha mirti marinti, fare morire, a. sl. mrêti da rad. mra, morire, morû, morte; l. mori, mortuus, mors; gr. βροτός [β da μ], mortale; a. per. mar, morire, zend. mereti, mortale; sans. mar, morire. Bopp Gl.3 288, 301, 18; Curtius3 309; Fick2 838, 148; Meyer, Got. Sp. 263.
Morfia, bocca (Varchi, Ercol. 64). È voce di gergo ancor viva nel dial. fiorentino, a cui corrisponde fr. morfe. Credo che siasi formata da vb. morfire, e non questo da essa; perchè il t. presenta bensì il vb., ma non il sostantivo corrispondente; e poi logicamente è più naturale che la bocca sia stata denominata dallo “sminuzzare, divorare”, che non questo dalla “bocca”; essendo manifesto che la bocca non ha per sola funzione il mangiare. V. Morfire e Smorfia.
Morfire, mangiare assai (M. Franzesi, Rim., 2, 194). Ha per base rad. di mat. murfen murfin, corrodere, sminuzzare, a cui sono paralleli m. ol. morfen morfelen, masticare a guisa de’ becchi, dialetti alto-tedeschi murfelen d’ug. sig. Il tm. presenta altresì vb. mumpfeln, masticare; il bt. mumpeln, isl. mumpa, ing. mump, mangiucchiare, che hanno evidentemente la stessa rad. di mat. murfen e paralleli; rad. che in questi ultimi si rinforzò col cangiamento di p in r. Perciò morfire è radicalmente affine a Mummiare e a Mopsa (v. q. parole). Essendo poi difficile credere che i due vb. it. e afr. siano penetrati nel territorio rom. dal mat., bisogna ammettere che il vocab. ger. esistesse anche nell’aat., benchè in esso non sia documentato; e che da quello lo prendessero le due lingue neol. sorelle.
Morganato1 (antiq.), signoria (Iacop. da Todi 1. 33). Sono d’avviso che questo sost. sia derivato dal bl. morganaticum, con elaborazione ideologica che non risponderebbe propriamente al valore etim. del vocab. latino-germanico. Credo cioè che essendo il morganatico cosa propria solamente dei signori, questa parola assumesse perciò nell’opinione comune il significato di “signore”, e che di qui si risalisse a morganato, dandogli il senso di “signore” e “signoria”. Perciò il signif. acquistato accidentalmente in processo di tempo dal vocabolo derivato avrebbe contribuito primieramente alla formazione d’un supposto primitivo, e poi a fargli attribuire un senso che etimologicamente non gli spetterebbe.
Morganato2 (antiq.), signorile (Dante da Majano, Rim. Ant.; Chiabrera). Questo agg. non può essere altro che uno svolgimento ulteriore del sost. precedente. Vale dunque per esso ciò che s’è detto di quello.
Morganatico, epiteto di matrimonio in cui un principe sposa una donna di grado a lui inferiore col patto che essa e i figli non possano succedergli nella pienezza dei suoi diritti, detto altrimenti matrimonio dalla mano sinistra. Insieme col fr. morganatique riposa immediatamente su bl. morganaticam, (Matrimonium ad Morganaticam), il cui signif. è spiegato nel Lib. 2 Feudorum, edit. Parigi 1552: «Quidam post mortem prioris coniugis, aliam minus nobilem ducit ea lege ut nec ipsa nec filii eius amplius habeant de bonis paternis quam dixerit die sponsaliorum, quod Mediolanenses dicunt accipere uxorem ad Morganaticam, alibi Lege Salica». Il bl. morganaticum ricorre già all’anno 1310 (V. Guicher, Histor. Sabaud., p. 559). Questo termine del diritto germanico appare dunque piuttosto tardi; ma la istituzione ger. dovette entrare in it. coi Longobardi; il che, oltre da ciò che s’è visto, risulterà manifesto da quello che si dirà alle voci Morgengab, Murganale e Murgitatio. Ma si fa quistione sull’origine del nome. Lo Scheler respinge la derivazione da mlt. morganegiba sia pel senso che per la forma. Quanto al primo, egli dubita che la Morganegeba o “dono mattutino” costituisca l’essenza del matrimonio morganatico. Per la forma, non crede possibile un passaggio da Morganegeba a Morganaticum. Perciò propone l’estrazione da got. maurgian, restringere. Ma quest’ultima, come nota il Littrè, sarebbe una derivazione passata a traverso un concetto dotto che non si può facilmente ammettere. Perciò ci atteniamo alla prima derivazione, la quale non è niente affatto inverosimile. Difatti: se, come tutti convengono, il morganegeba o “dono mattutinale” consisteva sostanzialmente nella donazione volontaria della quarta parte dei beni del marito, è chiaro che dal concetto della gratuità e della esiguità relativa del dono, si potè facilmente, generalizzando la cosa, passare a quello di “matrimonio in cui i diritti della moglie o dei figli vengono limitati o ristretti”. Per la forma, non sappiamo comprendere che difficoltà ci sia ad ammettere la possibilità della formazione di morganatico da morgangebe, dal momento che se ne formò il bl. murganale e murgitatio.
Morganegeba, morgingab, dono del mattino. È una voce ger. che ricorre assai spesso nel bl. e con varie forme, cioè di morganegeba in Gregorio di Tours lib. 9, cap. 20 [Morganegeba, hoc est matutinale donum]; morgengeba, Lex Burgund. tit. 4, 2; Morgangeba, Lex Alaman, tit. 56; morgincap, Papia [Morgincap, idest quarta pars in Lege Langobardorum]; morgingap, Leg. Langob. lib. 1, tit. 9; morgengaba, morgengaba, Leg. Lang. lib. 2, passim; morgagifa, Leg. Kanuti Reg. cap, 99; morgangifa-giva, Leg. Henrici I Angli, cap. 11; morgincapud, capit. Adelchis Beneventani c. 3. L’etim. è aat. morgan, tm. morgen morgin, mat. morgen, tm. Morgen, mattino; a cui sono parallele ags. morgen, ing. morning [dove ing è sillaba di derivazione, come in evening, sera], anrd. morgunn myrgenn, got. maûrgins; e aat. gëba, mat. gëbe, gippe, tm. Gabe [svoltasi da un aat. * gâba e got. gêba, mat. gâbe], dono, da vb. aat. gëban, mat. gëben, tm. geben, dare; got. giban, ags. gifan, ing. to give, ol. geven. L’ags. gifan, ing. give, spiega le forme morgagifa- giva, viste di sopra, mediante aat. mat. gift, tm. Gift, got. gifts, ing. gift, dono, regalo; il quale ultimo nome appare anche nel tm. Brauntgift, dono del fidanzato. L’aat. morgana morgane valeva “il giorno seguente” e propriamente “la mattina del dì seguente”: significato svoltosi a quel modo che l’it. domani e fr. demain si è svolto da l. de mane. La Morgangeba importava adunque il d“ono fatto dallo sposo alla sposa la mattina seguente alle nozze”. Questo dono consisteva dapprima nella quarta parte dei beni del marito; ma poi crebbe secondo la maggiore affezione di lui per la moglie. Quindi a temperare la soverchia liberalità e profusione di queste donazioni gratuite, il Re Liutprando vietò che si eccedesse il quarto. Un tale uso durò nei popoli germanici per tutto il medio-evo, e ne troviamo menzione in una carta di Ernesto duca di Baviera all’anno 1396. Ma in Italia si dileguò collo sparire delle leggi longobarde. Lo troviamo però mentovato nell’anno 1044 in un atto con cui un certo Giovanni di Domenico della Marca di Fermo dona a sua moglie Micza la quarta porzione de’ suoi beni; e poi all’anno 1145. V. anche Murganale e Murgitatio.
Motta, cumulo, collicello, scoscendimento di terreno, la parte del terreno smosso; fango (Storia Europ., 6, 45; Magazz. Coltiv. 13). È una delle parole rom. più ribelli al tentativo di ridurne ad unità i sensi. Accanto all’it. abbiamo: afr. mote, collina, diga, altura con castello, fr. motte, zolla, a. prov. mota, opera di difesa, castello, sp. port. mota. Nel bl. mota motta vale quasi sempre “colle, altura con un castello sulla cima”. Questa parola del bl. era diffusissima nel medio-evo in tutto l’occidente, e specialmente in Francia, Inghilterra ed Italia. In quest’ultimo paese restò a parecchi nomi proprii, specie nell’It. settentrionale. Tuttavia io non credo che il vocabolo sia d’orig. it., come alcuni pretendono. Difatti se questo nome fosse indigeno, come sarebbe saltato fuori solo in epoca relativamente tarda, cioè nei secoli 13º e 14º? In Francia e Inghilterra compare assai prima, ed era più comune. Per questo io credo che direttamente ci venga di là. Ma a base del rom. il Diez e lo Scheler pongono una rad. ger., per la ragione che il vocabolo esiste in molti dialetti ger. e proprio cogli stessi signif. Così l’ol. presenta un moet mot, piccola elevazione, il bav. mott, monticello, lo svizz. motte, zolla, il fris. mot, deposito di torba. Certamente è più facile supporre che dai dial. ger. il vocabolo sia passato al rom., di quello che immaginare che dal rom. passasse ai dial. ger., poichè in quest’ultimo caso resterebbe inesplicato come non fosse entrato anche nella lingua propria. Lo svolgimento genetico dei signif., come si è detto, presenta gravissime, anzi insuperabili difficoltà per chi li voglia derivare l’uno dall’altro e ridurre ad unità. Difatti se si ammette come originario quello di “terra smossa, fango” come da questo si può passare a quello di “elevazione, colle, diga, castello”? Se poi si parte da “tumulo, diga, colle, castello forte” che nel medio-evo è certamente il prevalente, come si può discendere al concetto di “fango, terra smosssa”? Per me, non sapendo come dar ragione dello strano accozzamento dei due sensi fondamentali in un solo vocabolo, inclinerei a credere che Motta in senso di “colle, elevazione, castello” tragga origine da sassonico gemote, unione, radunanza, pel fatto che nel medio-evo i signori feudali facevano le loro adunanze, i placiti, su questi monticelli coronati di castelli; del che resta una reminiscenza nell’ing. the mute hill, il “monte del placito”. Anche nell’altro senso il vocab. sarebbe del pari d’orig. ger.
Mozzare, tagliare una parte dal tutto, diminuire il tutto d’una qualche sua parte (Dante, Fra Giord., Villani). Ha per corrispondenti fr. emousser, sp. mochar, e nomi fr. mousse, prov. mos, sp. mocho. Il Diez, seguito dallo Scheler, trae questo vb. rom. da ol. motsen d’ug. sig. [mots, scorciato, mozzo]. Ma nelle lingue neol. questa è parola antichissima, nè si può credere che in quei tempi l’ol. esercitasse alcuna influenza su di esse, giacchè questa cominciò molto più tardi, e solo relativamente a termini marinareschi e pochi altri. Meglio è dunque supporre che derivasse dal ceppo ger. di cui è ramo anche l’ol. motsen mots, il quale ceppo, benchè non sia documentato nell’aat. e nemmeno nel mat., dovette però esistere, avendo esso dato origine a parecchi derivati nel tm., paralleli all’ol. Tali sono: tm. mütz, cortaldo, vb. mützen in vertmutzen, troncare, scorciare, svizz. mutz, scorciato. Il Diez pare anche credere che mozzo sia primitivo così in rom. come nel campo ger. Invece io credo il contrario, trattandosi qui d’un agg. verbale mozz. Deriv.: mozza-mente-mento-tore-tura; -etta-etto; mozzi-care-coda-concino-cone; mozzo-letto-lo-ne-orecchi.
Mucciarsi, nascondersi (dial. sicil.). Ricorre nel composto ammucciarsi. Lo Scheler sulle orme del Diez lo fa affine ad afr. mucer, pic. mucher, vall. muchî, fr. musser d’ug. sig.; e lo trae da mat. sich muzen, ritirarsi nell’oscurità. Il ritrovarsi un tal vb. solo nel dial. sicil., esclusi gli altri italiani, fa supporre che sia stato importato colà dai Normanni e dai Francesi nei secoli 11º, 12º o 13º, poichè è difficile pensare ad importazione immediata dalla Germania. Nel fr. poi doveva essere antichissimo, ed essere venuto coi Franchi; nonostante che non appaia documentato nell’aat. Il Grandgagnage crede che afr. mucer si rannodi alla forma mat. muchen mucken, agire nascostamente, tm. meuchlings, furtivamente.
Muffa, specie di vegetazione che nasce sui corpi dove trovasi una materia vegetabile unita a certa quantità d’acqua, e che si forma principalmente quando questa materia comincia a putrefarsi (Dante, Crescen., Sacchetti). La voce it. ha per corrispondenti: comas. e romag. moffa, port. mofo, sp. moho, muffa, musco, fr. moufette, polvere di muffa, esalazione di muffa, lor. mouffá, prov. muffir, muffare, ammuffare. È certamente d’origine germanica; nel qual campo però non troviamo documentata la forma antica da cui si svolse il vocabolo rom. che, essendo antichissimo, non può certamente avere a base nè il tm. e nemmeno il mat. Il tm. ci presenta: at. Muff, muffa (anche “cavallo leardo”, chiamato così forse per il color del suo pelame, simile alla muffa), vb. müffen, muffare, intanfare, muffig, intanfato. e ol. muf, muffato, intanfato. Il tardo mat. ci presenta vb. müffeln, mandare odore cattivo. Secondo il Kluge l’at. procedette dalla forma ol. È chiaro peraltro che quest’ultima non può essere stata nè l’orig. prima nè il tramite per cui il nome ger. entrò nelle lingue neol. Il Faulmann vorrebbe riannodare il tm. Muff, e quindi il rom. derivato dallo stesso ceppo, a tm. Muff, manicotto, da cui it. Muffola; ed in ultimo trae quest’ultimo da vb. mimmen mumman mimpfan, gonfiare, essere ammalato, consumarsi. Ma io, pur ammettendo una certa relazione fra il concetto di “consumarsi, essere ammalato” e quello di “muffa”, non so capire che connessione possa esistere fra quest’ultimo e quello di “manicotto”. Qui il Diez osserva opportunamente che colle parole di questa radice sono spesso espresse figuratamente qualità morali cattive. Così sp. moho vale “infingardaggine”, mohino “fastidioso, molesto, cattivo”, port. mofino “sordido, avaro”, venez. muffo “malinconico, tristo”, bavar. muffisch “burbero, cupo”, muffen “brontolare, stare ingrognato”, sp. mohino “mulo”, a cagione della sua testardaggine. Evidentemente questi sono concetti svoltisi da quello di “muffa” considerata come “lordura” o come “marciume, putrefazione, consunzione”. Il comas. e romag. moff, pallido, grigio, hanno invece considerata la “muffa” solo dal lato materiale del colore. Deriv.: muff-are-atellina- aticcio-ato-etta-ettina-etto-ettula-ido-igno-ire-ito-o-osità-oso.
Muffare, nascondere. Questo vb. ricorre solo in camuffare da capomuffare, composto ibrido che si è già esaminato. Il Diez lo riattacca a muffola, e a mat. mou mouwe, ermellino, prov. moflet moufle, pic. mouflu, vall. mofnes, tenero, morbido, elastico.
Muffola (antiq.), manicotto (O. Ferrari). Voce parallela è fr. moufle, guanto, restato della lingua viva, mentre non è stato così dell’it. È d’origine ger., donde passò nel bl. sotto la forma di muffola. Nei capit. di Carlo Magno (verso l’an. 810) troviamo espressioni come queste: «Wantos [guanti] in aestate, muffolas in hieme»; poi: «ut muffolae vervecinae monachis dentur». Adelardo di Corbeja, Statuti, ha: «Wantos duos, muffolas duas». Altri esempi in proposito sono allegati dal Ducange alla voce Muffolae. Ora questi luoghi mostrano chiaro che doveva essere nome ger., massime trovandosi quasi sempre accoppiato a wantus che è pure ger. Nel fr. è voce antichissima e usitatissima, specialmente nell’afr. (Poema De Vulpe Coronato, Roman de la Rose, De Florance et Bianche). Nel tm. abbiamo Muff, manicotto, pelliccia per scaldare le mani, che viene da bt. muf, ol. mof, manicotto di pelliccia, ing. muff, d’ug. sig.
Mummiare, masticare senza denti (dial. moden.). Il Muratori col suo fine intuito capì che questo vb. era d’origine germanica. Spetta alla radice stessa da cui il tm. mummeln, romoreggiare, masticare, venuto dal bt. d’ug. forma e signif. Secondo il Faulmann il vb. t. proverrebbe da un vb. * mumban “premere, stringere”, senso che conviene anche al moden. Forma parallela a mummeln è mumpfeln, rispondente a bt. mumpeln, masticare, isl. mumpa, ing. mumble d’ug. sig. Resterebbe a vedere come dal sig. di “rumoreggiare, brontolare” che pare fondamentale nella rad. mum, si potesse passare a quello di “masticare”, che è così disparato. Forse sarà avvenuto pel fatto che colui che mummia produce una specie di rumore; ma è sempre un passaggio molto duro. Alcune forme ger. presentano solo il primo dei due sensi, cioè quello di “romoreggiare”, e tali sono: ol. mommelen, m. ing. mummen. Questa voce benchè non appaia documentata nell’aat. e benchè al tm. sia venuta dal bt., deve nondimeno essere d’introduzione antichissima in Italia, come avviene generalmente di tutte le parole dialettali, le quali importano quasi sempre una derivazione dovuta ad uno stanziamento di popolo. Nel caso presente o è dovuta ai Longobardi, ovvero a quella specie di colonie, che, come si è notato altre volte, furon stabilite nel Modenese nel sec. IV dell’êra volgare.
Mundiburdo1 (term. stor. giur.), protettore, tutore. Questo vocabolo giuridico ger. non entrò nella lingua viva it., ma si ristagnò nel mlt. mundiburdus; e solo ha fatta la sua comparsa negli storici moderni, quando parlano delle istituzioni giuridiche dei popoli germanici invasori del mezzodì dell’Europa. Lo possedette tuttavia l’afr. nella forma mainbour mambourg e il prov. in quella di manbor con signif. uguale al ger., e colla mescolanza fonetica di l. manus dovuta ad un ravvicinamento popolare, che si scorge anche in manovaldo. Risale ad aat. munt-boro-poro-porto, mat. muntbor, as. mundboro madboro, ags. mundbora, ol. mombaar momber. Questo composto si risolve in aat. munt, mano, protezione, e boro, voce del vb. bëran, portare (v. Bara), e vale perciò etimol. “che porta e dà mano o protezione”; paragonabile perciò a rom. mantenere da l. manum-tenere. Un tale vocabolo sparì non solo dalle lingue neol., ma persino dal tm. Lo conservano però, come s’è visto, i dial. dei Paesi Bassi.
Mundiburdo2 (term. stor. giur.), tutela, protezione. Riposa su as. mundburd munburd, ags. mundbyrd, tutela protezione [vb. gemundbyrden, proteggere], composto il cui primo elemento è aat. mund, come nel precedente, il secondo è della stessa rad. del secondo della precedente; ma è nomen actionis invece di nomen agentis, quale era quello, cioè aat. burdî, burd [mat. burde, tm. Burde-en] carico, peso: vale quindi “carico, peso, uffizio della tutela”. Entrò nel bl. dove presenta le forme di mundiburdis, mundiburdium-nium (quest’ultima nel sec. 10º); e nell’afr. mainbournie, vb. mainbournir, proteggere.
Mundio (term. stor. giurid.), protezione, tutela (Balbo, Troya, Cantù). Questo nome ger. entrò nel bl. sotto la forma di mundium; ma non nella lingua viva it. Però nei tempi moderni, come parecchi altri dei termini giuridici dei Barbari e specialmente dei Longobardi, è stato rinfrescato dagli scrittori che si sono occupati degl’invasori d’Italia nel principio del medio-evo. Nel bl. penetrò verosimilmente per opera dei Longobardi, nelle cui leggi ricorre assai spesso: per es. in Rotari 26, 160, 161 ed altrove sotto la forma di mund e col valore di “potere tutorio, protezione”. In Liutprando 61 troviamo anche l’avv. munditer, e il partic. mundiatam 139. Alla sua volta il longob. mund riposa su aat. munt, mano, difesa, protezione; donde mat. munt d’ug. sig., tm. Mund, difesa, tutela. Forme sorelle in quel campo sono: ags. mund, mano, difesa, afris. mund mond, difesa, tutela, ol. mond, tutore, anrd. mund mano, mundr, somma con cui l’uomo compra la fidanzata dal padre di lei, e con cui egli acquista il diritto di tutela sopra di essa, Vigfusson 407, Möbius, 307. Il nome aat. non è verbale, anzi esso diè origine a vb. aat. muntôn, essere tutore, donde as. mundôn e ags. mundjan d’ug. sig. Da aat. munt si formarono pure aat. munt, afris. mund, mond, protettore, mundboro-poro-porto da cui mlt. mundiburdus (v. Mundibordo), tutore, munthêrro, avvocato, patrono, mat. muntlichen, tutoriamente, aat. mat. muntman, cliente, protetto; infine tm. Mündel, pupillo, Mündig, maggiore, Mundigkeit, maggiorità. Secondo il Kluge l’aat. non ha alcuna affinità con l. mûnire, moenia, ma è affine a l. manus, mano. Il Faulmann, premesso che mund deriva da muntân, trae poi questo da vb. * mintan, innalzare, afferrare. V. anche Mondualdo, Mundibordo e Mundiburdo.
Murganale, murgitatio, donazione fatta in occasione delle nozze. È voce del bl., e d’orig. ger. e propriamente longobarda. Il Dofred. in Cap. de Donat. fol. 283 scrive. «Istae donationes propter nuptias variis modis nuncupantur secundum Longobardum, sed secundum vulgare nostrum vocantur Murgitatio». Non v’è dubbio cbe questi due vocaboli non siano due derivazioni bl. da Morgangeba, o meglio della prima parte del composto. Il che costituisce una prova di più anche per Morganatico.
Note
- ↑ Per illustrazione di maghetto riporto qui quel che ne avea scritto il Mussafia che s’era valso del Galvani: Il parm. maghett vale “borsa del denaro” (scherzosamente come presso Plauto, Pers. 2, 5, 11, vomica, e it. postema). Il Galvani scrive: «La forma del ventricolo, che somiglia in qualche modo ad un borsiglio, fa che noi diciamo maghett gruzzolo». Nel Reggiano accanto a maghett s’usa magon in questo senso; e si dice «un magon ed diner» che vale “gruzzolo”. Il concetto di “cumulo”, mucchio si rinviene altresì in ferrar. «magalott d’ carne» che significa “catollo di carne”, «d’ pasta» “massa di pasta”. Il romag. presenta un maghett che s’applica all’oro, all’argento e alla cera, poi ai capelli, filo e lana, ed anche al sangue che si coagula e si rappiglia. Così si spiegano i vb. ferr. magunar, mant. magonar, accumulare, e forse parm. magonars, divenir duro come pane, e piac. agg. magonà, che dicesi di terra fattasi dura per essere stata calpestata quand’era dura; e infine tosc. magona, “fabbrica o deposito di ferro”. Quindi per tutti questi significati dialettali si potrebbe stabilire il seguente, ad ogni modo arditissimo, sviluppo di concetti: stomaco-gozzo degli uccelli-rigonfiamento scrofoloso o accumulamento d’umori-borsa-cumulo-gruppo-gran quantità. Mussafia, Beitrag, p. 76, nota.
- ↑ Mundwalt ist einer der das mundium über andre hatte. Leo’s, Geschichte von Italien, I, 101.