Saggio sulla rivoluzione/Capitolo I
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Capitolo Primo
I. Ragionamento sul progresso. — II. Riscontro con la Storia. — III. Tendenza della società moderna. — IV. Religione.
I. La parola progresso suona nella bocca degli uomini di ogni condizione, d’ogni partito, ma è da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza, che, applicati all’industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti, sono fatti innegabili: noi vediamo ove erano gruppi di capanne sorgere superbe città; vediamo campi aspri e selvaggi squarciati dall’aratro, e resi fecondi; selve, monti, mari superati, rozzi velli trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l’arte, le tenebre cacciate da fulgidissima luce, il navigare contro i venti, il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze, perfino il fulmine reso rapido messaggiero dell’uomo; l’immensità dei cieli, le viscere della terra esplorate, gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali tutti studiati, classificati, misurati..... Se questo è il progresso, niuno può negarlo, o non comprenderlo.
Ma cotesto accrescimento continuo della ricchezza e dell’umano sapere, spande egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell’uomo il sentimento del proprio diritto, della dignità? Garantisce la libertà, garantisce il popolo dall’usurpazione di pochi, rende forse invisibili, sotto ogni forma, la schiavitù, ed assicura l’indipendenza dell’uomo, o almeno ne libra su giusta lance i rapporti? Ogni uno che vuol manifestare francamente la propria opinione, ogni uno che studia la Storia, che osserva il presente, risponderà: No, l’apogèo della civiltà romana, il secolo d’Augusto fu il perigèo della libertà; i rozzi italiani dell’undecimo secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del civilissimo secolo di Lorenzo De-Medici; i Francesi dello splendido secolo di Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi, adunque, il continuato miglioramento delle umane condizioni?
Quale sarebbe il tipo ideale d’una società perfetta?
Quella in cui ciascuno fosse nel pieno godimento dei proprii diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità o d’umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l’eguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d’accordo con la ragione; e in cui niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gl’impulsi di quello. In tal caso l’uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza, e però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi più lontano da questo ideale, il mercante, e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, o lo stesso italiano dell’XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo paragone del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli del vantato progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano.
Libera la mente da idee preconcette o da sistemi faremo ricerca di questa legge del progresso, e del modo come esso opera. Tutti i filosofi del mondo, da Platone ad Hegel, si accordano nel riconoscere l’esistenza di una legge che chiamano idea, sostanza, logica ecc... che regola le condizioni e relazioni degli uomini. Stabilito un tal principio, svolgono i ragionamenti; ma le conseguenze non sono d’accordo col principio d’onde prendono le mosse. Quel primo concetto, tutto astratto, è creato dal pensiero indipendentemente da fatti: ma una tale astrazione non dura che un istante, la realtà riprende il suo imperio, e la ragione non può che insinuarsi attraverso i fatti, e quindi le conclusioni a cui ognuno di essi giunge, si adattano alle condizioni di quei popoli fra i quali vissero. Platone ed Aristotile sacrificano l’uomo alla grandezza dello stato, perchè tali erano le greche costituzioni. Loke riconosce la sovranità della nazione sul monarca, perchè scriveva all’epoca de’ rivolgimenti dell’Inghilterra, e per esso la nazione è quale era l’inglese; col parlamento, coi grandi, coi pubblici funzionarii. I filosofi francesi, per contro, che scrivevano sotto l’impulso del bisogno di abbattere ogni privilegio, riconoscono il diritto, la sovranità del popolo nel puro senso democratico. Kant comecché razionalista, era un inglese che scriveva, nel 97; quindi afferma che il popolo francese non aveva il diritto di giudicare, e condannare il suo re.
Dopo la rivoluzione del 93 le condizioni del popolo sono cangiate, e con esse cangiano le idee sorte dai nuovi mali; la miseria crescente chiama a sè l’anima dei pensatori, quindi essi non sacrificano più l’individuo allo stato, ma al diritto d’ogni uno vogliono che s’adatti la costituzione di esso, e mirano all’umana prosperità; d’onde l’idea del convitto umano, del socialismo, rivolto nell’applicazione alla ricerca dei godimenti materiali.
Nella guisa stessa, per le stesse ragioni, nel XVI secolo la vita politica essendo muta in Italia, la filosofia è costretta a rimanersi nell’astrazione, e si manifesta nel razionalismo di Bruno, che Vico e Campanella avvicinano alla realtà, perchè cominciasi a sentire il bisogno d’un’esistenza politica; e quando questo bisogno manifestasi nell’azione, la realtà è raggiunta da Mario Pagano, svolta da Filangieri, da Romagnosi in tutti i rami della vita d’un popolo. Oggi finalmente nella dotta e pacifica Germania, in cui l’azione ha pochissimo imperio sul pensiero, rivive con forme anche più astratte il razionalismo di Bruno; e mentre cercasi anche negare la realtà, procedesi così servilmente sotto l’imperio di essa, che deducesi dai ragionamenti come il costituzionalismo sia l’ideale dello stato perfetto.
Dunque, dal principio del mondo, il pensiero umano non ha potuto mai procedere nelle sue ricerche indipendente dalla realtà; ed appena discende all’applicazione delle idee, che si adattano ai fatti, e non mai i fatti procedono da esse. Ciò basta per dimostrare ad evidenza, quanto sia assurdo il concetto che le rivoluzioni, i mutamenti negli ordini sociali si facciano prima nel pensiero e poi nella realtà; essi sono conseguenza delle condizioni, e relazioni degli uomini, e cominciano a manifestarsi con l’idea quando già sono latenti nella società; dalla manifestazione procedesi all’attuazione, e spesso questa avviene senza di quella: nella guisa stessa che nell’uomo si manifesta un bisogno, poi una idea, poi l’azione, e spesso l’azione segue immediatamente il bisogno di manifestarsi, o maturarsi nel pensiero. Quindi la filosofia è quella che esamina con pacata ragione sulle condizioni, sui rapporti sociali onde discernere ciò che si nasconde sotto l’apparente calma, trae in luce e presenta in concetti chiari e distinti quello che vagamente ed universalmente è sentito. La società ammira le astrazioni del pensiero come i giuochi dei funamboli, ma non apprende nulla da quelle, che possa migliorare le sue condizioni: come niuno impara meglio a camminare osservando le sorprendenti prove d’equilibrio di questi; le une e gli altri non sono che passatempi. La filosofia veramente razionale, ovvero la scienza che merita il nome di filosofia, è quella cominciata in Italia con Bernardino Telesio e seguita da tutti i sommi italiani sino al Romagnosi, che le diede il più vasto sviluppo; secondo i dettati di questa scienza noi seguiremo le nostre ricerche.
Io mi scorgo parte dell’universo; penso, ma penso ciò che è il reale; non si produce nella mia immaginazione nulla che non risulti da ciò che esiste. Ho un’idea chiara e distinta, senza conoscerne l’essenza della materia, del moto, delle sue proprietà; lo spirito è una negazione; e ciò che non è materia, un’incomprensibilità; una cosa, che non potendo essere avvertita dai sensi, non può essere nè pure immaginata; spirito è una parola che non ha significato.
Nel mondo osservo un incessante avvicendarsi di produzione, e di distruzione; due cose opposte, ma se meglio rifletto, ogni contraddizione sparisce, produzione e distruzione non sono che l’effetto di una medesima causa, che è la legge della vita; produzione come distruzione vuol dir moto, ovvero vita.
L’uomo lo scorgo eziandio sotto mille aspetti contraddittorii: eroe e codardo, benefattore e crudele, avaro e generoso; ma ogni contraddizione sparisce quando riconosco queste diverse azioni effetto di una sola e medesima causa, di una sola e medesima legge, la ricerca dell’utile, che secondo l’indole degl’individui, ed i rapporti che costituiscono la società in cui vive, cangia i modi ed il nome; chi lo cerca nella gloria, chi nell’ignominia; alcuni nel sacrifizio, altri nei beni materiali..... È questo un fatto che niuno può revocare in forse; esso è riconosciuto da tutta la scuola del sensismo francese ed inglese, dai nostri grandi italiani, Pagano, Filangieri, Beccaria, Romagnosi e sottinteso da Vico, da Campanella, da Telesio, da tutti gli economisti moderni, da tutti i socialisti, dai razionalisti della Germania: Di buon grado, dice Schiller, io presto aiuto agli amici. Ma ahi lasso! lo fo per indignazione; onde spesso mi contrista il pensiero di non essere virtuoso. Fichte dice: ama te stesso sopra ogni cosa, ed il tuo prossimo per amor di te stesso. Negano questa verità i paesi devoti ad un Dio personale, e gli ecclettici, cioè quelli che cercano conciliare i principii della scienza e lo stato presente della società; e così si fanno gli apologisti del sacrifizio quelli che ne rifuggono con orrore!! A Giordano Bruno sarebbe stato più doloroso rinnegare la sua dottrina, che sentirsi ardere le carni; si gettò nel rogo per fuggire il dolore di rinunziare alle proprie idee. I due ultimi versi del suo sonetto il dicono chiaramente:
Fendi secur le nubi e muor contento, |
Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la più assurda è quella di supporre l’esistenza di un Dio, e l’uomo creato a sua imagine; ovvero, non essendoci dato imaginare questo Dio, l’uomo l’ha creato ad imagine propria, e ne ha fatto il Creatore del mondo; e così una particella diventata creatrice del tutto.
Ma quale utile può ottenersi dalla ricerca del Creatore del mondo? Nessuno. Il mondo esiste, e ciò è un fatto; in esso da pertutto io trovo moto, da pertutto la medesima causa della vita, che appare in mille guise: è latente nei minerali, vegeta nelle piante, guizza nei pesci, rugge nel leone, ragiona nell’uomo; la diversità dei modi coi quali manifesta la sua potenza, dipende dalla maggiore o minor perfezione del corpo da essa animato. Corpo ed anima sono entrambi immortali, non avvi nell’universo mondo un granello di sabbia che si distrugga; il corpo ridotto polvere, rientra in seno alla gran madre; l’anima o il fluido animatore esce dalla sua prigione che davagli forma, abbandona il corpo che si distrugge e più non si presta al moto, e confondesi con la gran massa di esso che vaga negli spazii; la morte non è che la distruzione delle forme d’individualità. Da questo moto incessante risultano i rapporti dell’uomo col mondo esteriore, degli uomini tra loro, la società; e però non fa d’uopo ricercare la causa del moto, perchè a nulla gioverebbe tale ricerca, ma la legge del moto. Tutti i filosofi del mondo convengono nell’immutabilità di questa legge; quelli soli che riconoscono l’esistenza di un Dio la negano.
Il concetto d’un Dio onnipotente è figlio dello scolasticismo in cui cadde il mondo romano nella sua decadenza. La virtù, il giusto, il diritto sono incompatibili con l’esistenza di questo Dio che può tutto cangiare secondo il suo capriccio, che piegasi alle discordi preghiere dei mortali; nulla vi resta d’immutabile, tutto cangia secondo la sua volontà. L’unità nell’universo sparisce, non è una sola la causa del moto, e quindi una sola la legge di esso, ma son tante cause diverse quanti sono gli enti; l’anima dell’uomo è diversa da quella del bruto, questa da quella del vegetabile, anzi ogni uomo ha un’anima diversa. Ammessa tale ipotesi, la virtù non ha significato, la ricerca di una legge unica del moto è impossibile, impossibile il progresso; per un solo atto della volontà di questo Dio noi potremmo indietreggiare di secoli. L’unica regola, l’unica legge è la rivelazione che ci vien fatta da alcuni uomini in nome di questo Dio; questi uomini sono gli arbitri dell’umanità. La storia non ha più nesso, ma sono tanti fatti, manifestazioni della libera, e però mutabile, volontà di questo Dio. Ma quest’ipotesi scoraggiante e incomprensibile, questo Dio assurdo, imagine della dissoluzione sociale, sparisce, non appena dalla corruzione comincia a manifestarsi novella vita.
Stabilito che una sola debba essere l’ignota causa del moto, ci faremo a rintracciarne la legge; non già astraendo il nostro pensiero, e ricavando le conseguenze secondo i dettati della dialettica, ma seguendo da vicino i fatti, studiandoli accuratamente, e conoscendo così la legge con cui gli uni dagli altri procedono; non già cercando quale dovrebbe essere questa legge, ma quale è; non l’ideale, ma il reale.
Nell’universo scorgiamo armonia ed unità, tutto è regolato, il moto degli astri, il succedersi delle stagioni, il prodursi delle piante; tutto è l’effetto di una medesima forza attiva, la quale sospinge gli uomini al moto, e crea le loro diverse condizioni e relazioni, le diverse costituzioni della società; e però essendo la storia un effetto di questa forza, essa deve procedere secondo una regola, secondo una legge immutabile e necessaria.
La noia che esagera il fastidio del presente, la speranza che abbellisce oltre misura l’avvenire; ed in altri termini la necessità di soddisfare ai proprii bisogni, sospingono l’uomo al moto; dolore e piacere, suoi angeli tutelari, lo costringono a fermare la sua attenzione sugli oggetti circostanti. Ed in tal guisa da ogni sensazione, da ogni esperienza vien creata un’idea; se nulla v’è nell’esperienza, nulla v’è nella mente, ovvero come dissero i peripatetici: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.
Le continuate sensazioni dirozzano le fibre, che per soverchia rigidezza, come quelle del selvaggio, mancano d’irritabilità, e danno tono a quelle dei fanciulli per placidezza tarde. Appena la fibra acquista un certo grado d’irritabilità, l’uomo immagina; nè ha più bisogno della presenza dell’oggetto per descriverlo e vederlo in sua mente. Segue in ultimo la ragione, facoltà di discernere, la quale classifica, compara, cerca la correlazione. Nella prima le fibre son molte, nella seconda cominciano a tendersi, nella terza hanno il giusto grado d’irritabilità, con la vecchiezza diventano flaccide, l’uomo peggiora, e diventa di nuovo fanciullo.
Le facoltà dell’uomo sono inferiori ai bisogni; da ciò la perpetua operosità della vita. Ad ogni sensazione, ad ogni idea l’uomo subisce una modificazione, e con questa sorge un nuovo bisogno; e così la vita è un avvicendarsi continuo di bisogni, di idee, di nuovi bisogni.
L’uomo, se non è costretto da forze esteriori ad operare diversamente, segue per sua natura questa serie di movimenti, e trasforma tutti gli oggetti circostanti. L’indefinita modificabilità del mondo esteriore, che reagendo sull’uomo lo modifica indefinitamente, costituisce un’indefinita modificabilità di rapporti fra uomo, e uomo, fra esso e gli oggetti che lo circondano. Questi rapporti, ovvero l’azione degli uomini gli uni verso gli altri e sul mondo esteriore, costituiscono le umane società che per tal ragione sono indefinitamente modificabili. Dunque il continuo mutarsi di questi rapporti, ovvero delle costituzioni sociali, è una legge assolutamente necessaria, legge che risulta dalla natura umana; quindi fa duopo o migliorare, o peggiorare continuamente, oppure oscillare fra certi limiti.
Inoltre le fibre vengono modificate secondo il numero delle sensazioni: queste crescono a misura della trasformazione degli oggetti esterni; dunque in una società in cui la natura è selvaggia, e non ancora ha subìto gli effetti dell’umana operosità, le sensazioni debbono essere pochissime, le fibre degli uomini rozze. A misura che le sensazioni crescono per la trasformazione che il mondo esterno subisce per mano dell’uomo, le fibre gradatamente si dirozzano; quindi le tre età che si riscontrano nell’uomo, esistono egualmente nelle società dei sensi, il puro stato selvaggio; dell’immaginazione, l’epoca delle favole e degli eroi; della ragione, l’epoca delle forti passioni, delle grandi virtù, perchè la fibra ha raggiunto tutto quel grado d’irritabilità di cui è capace. Dunque per la natura umana il moto, il cangiamento delle condizioni e relazioni degli uomini, è immancabile; e per la stessa natura nelle società debbono sempre migliorando succedersi tre età diverse; dunque progresso. Ma le modificazioni, ed i rapporti, effetti dell’umana operosità, essendo indefiniti, indefinito eziandio il numero delle sensazioni che ne risultano; e siccome le soverchie, e continue sensazioni logorano ed ammolliscono le fibre, e gli uomini s’avviliscono, ne risulta che le società debbono eziandio soggiacere allo stato di vecchiezza, e morire di sfacelo; il progresso indefinito è impossibile.
Ora ci faremo a particolareggiare le nostre ricerche. Generalmente ogni modificazione che l’uomo opera sugli oggetti circostanti è un prodotto; le modificazioni sono indefinite; i prodotti debbono indefinitamente crescere.
Discorremmo nel primo saggio come si formano le prime famiglie, e quindi i paghi, le città; quindi l’uomo tende all’associazione, o perchè il debole donasi al forte per essere protetto; o perchè questi lo fa suo schiavo, o perchè varii deboli si collegano contro il forte. Insomma questa tendenza continua risulta dall’istinto della propria conservazione, dalla ricerca della prosperità, dalla paura della vendetta, non già dall’amore reciproco degli uomini. Come gli uomini, le famiglie, i vichi, i paghi per vantaggiare sè stessi si uniscono e formano le città, del pari vediamo le varie città formare le nazioni; e queste sotto l’imperio degli stessi moventi, formare gl’imperi. Quindi possiamo inserire che l’umanità ha una tendenza verso l’unità mondiale.
Nè questa è l’unica ragione, ma avvene un’altra non meno importante. La natura, quasi per confermare questa legge, ad ogni regione ha dato prodotti diversi, mentre il desiderio, ed il bisogno di giovarsene è lo stesso in tutti gli uomini della terra, i quali ricorrono alla forza, alla frode, al commercio, per fornirsi di ciò che difettano. Quindi è indubitato che un giorno, se il globo non formerà un solo ed unico stato, certamente la prosperità e la civiltà saranno uniformemente sparse sulla sua superficie. E come ne’ vichi, ne’ paghi, nelle città, nelle nazioni dai varii costumi e gerghi, nacque una pubblica opinione, ed una lingua comune, nella guisa stessa, un giorno vi sarà un’opinione ed una lingua mondiale1.
Proseguiamo lo studio della natura umana. L’istinto avverte la esistenza dei fatti senza svolgerne le conseguenze. La ragione le svolge, le studia e le compara. Gli impulsi che riceviamo dallo istinto sono l’effetto dell’immediato piacere che può procurarci un’azione. Se a questa prima sensazione piacevole, ne succedano come conseguenza, altre dolorosissime, noi nol sappiamo. Solamente la ragione può avvertircene, la quale opera quando una sensazione dolorosa fissa su di un oggetto la nostra attenzione. L’uomo deve necessariamente errare; la sua ragione non evita l’errore, ma lo corregge quando i tristi effetti delle sue conseguenze lo costringono a ragionare. L’errore non è conforme alle leggi di natura, altrimenti non sarebbe errore; i suoi tristi effetti sono la voce di queste leggi che ci richiama sotto il loro assoluto imperio. Dunque l’istinto ci allontana dalle leggi di natura, la ragione ci rimena verso di esse. Il fine a cui tendono le leggi di natura, è il bene, è l’azione che risulta dalle ultime conseguenze dei loro effetti; l’istinto, invece, non mira che al bene immediato; la ragione c’insegna di sacrificare questo all’avvenire. L’istinto restringe il nostro sguardo in angusta valle, mentre per discernere le leggi di natura, è d’uopo di ascendere una sublime vetta, ed in un fissar d’occhio tutto antivedere nell’avvenire. Fra i suggerimenti dello istinto, e le leggi di natura, avvi il medesimo rapporto che passa fra una lettera dell’alfabeto e la scienza. Per il che la legge del moto, della vita, è evidente: il moto è una serie non interrotta di azioni, le quali sono effetti erronei dell’istinto, che più tardi la ragione corregge, quello deviando, questa avvicinandosi alle leggi di natura. Inoltre le condizioni, e le relazioni degli uomini, la costituzione sociale insomma, è l’effetto dell’azione degli uomini, gli uni verso gli altri; dunque le costituzioni delle società sono effetto dell’errare dell’istinto, che la ragione corregge avvicinandole sempre alle leggi magistrali della natura. Svolgeremo più diffusamente cotesta idea.
Seguendo l’istinto, l’uomo che trovasi sotto una sensazione dolorosa, cerca tutto ciò che allevia il dolore, che distrugge la causa del male; nè riflette se il rimedio dall’istinto suggerito, svolgendo in seguito le sue occulte proprietà, possa cagionare un male maggiore del presente; ricalcitra con esso, e ciò basta. Con questa leggo che risulta dall’indole sua l’uomo costituisce la società e muta la costituzione di essa.
Intanto ad ogni nuova costituzione accettata dagli istintivi desiderii del popolo, esiste sempre un utile immediato, causa di coteste aspirazioni e quindi nei primi istanti, rinfrancata da un tale utile, la società prospera. L’ulcera che dovrà roderla, è nascosta, è appena in germe, i mali non sono sensibili. In tale stato la ragione, non ancora costretta dal dolore a studiare i mali, segue ciecamente l’istinto, ed essendo costretta a serpeggiare nei suoi angusti giri, e comparando e studiando i rapporti delle cose in quelle condizioni che l’errore dominante la sociale costituzione le ha stabilite, risultano i pregiudizii e le opinioni, che un giorno dovranno tiranneggiare questa società, e pur non di meno in quest’epoca, la ragione siccome segue l’istinto, è d’accordo col sentimento; gli uomini sentono e ragionano, non già giustamente, ma liberamente; la società è giovine, i costumi sono puri: il diritto, il giusto, le azioni virtuose sono quelle conformi al patto sociale.
Ma i rapporti sociali che si svolgono partendo da una base erronea, si scorgono diventare sempre più contrarii alle leggi di natura: quindi cominciano a manifestarsi gli inconvenienti, poi i mali, i quali rapidamente crescono ed ingigantiscono; ecco il periodo delle rivoluzioni, o delle dissoluzioni delle società.
In tal periodo il dolore obbliga la ragione a fare studio su i mali che tormentano il pubblico, ed è condotta a delle conseguenze opposte ai pregiudizii ed alle opinioni dominanti contraddittorie con le opere, coi costumi; quindi una lotta di motivi esterni con l’interno convincimento. La virtù, essendo la vittoria di questo su di quelli, ovvero quel sentimento superiore alla stessa fama che appellasi coscienza, per cui disse il Campanella: Onor non ha chi d’altri il va cercando, non è più quella che opera secondo il patto, ma in contraddizione col patto. Il diritto, il giusto non più quello riconosciuto dal patto, ma quello che risulta dai nuovi rapporti delle cose scoverte dalla ragione. Se il patto, per cagione dei dolori che tormentano le moltitudini, non è riformato o cangiato la società è condannata a perire. Allora scorgesi la virtù difettiva; quindi i motivi esterni prevalendo, la ragione è costretta a tacere. Ognuno impotente a combattere i proprii mali, si isola; non è più commosso dai mali altrui, e la ragione stessa impone per la propria conservazione silenzio al sentimento; l’uomo è depravato, è perfido ed infelice.
In questi diversi stati, in queste condizioni la società per mezzo degli scrittori manifesta le sue idee. Nell’epoca di prosperità l’erudizione ordinariamente sovrabbonda, gli scrittori sono puri, le loro opere, le loro dottrine sono d’accordo col patto sociale.
Cominciano i mali, i tormenti, e questo sentimento doloroso manifestasi con rimpiangere il passato, con maledire i depravati costumi. La Divina Commedia fu il canto solenne con cui l’Italia manifestò i proprii dolori, e rimpianse l’antica purezza dei costumi.
I mali cessano, la depravazione generale produce la sfiducia, lo scetticismo. Allora vediamo sorgere sovente gli apologisti del sentimento, i nemici del calcolo e della ragione; scrittori generosi ma non profondi, i quali credono cagione dell’isolamento, dell’egoismo, non già i mali da cui l’uomo è tormentato, ma la facoltà che li fa discernere. Eglino vorrebbero porvi rimedio suscitando in altri quei generosi sentimenti dai quali si sentono animati. Melchiorre Delfico, Giacomo Leopardi sono di un tal genere; la loro voce è lamento, protesta della società contro i mali che tutti sentono.
Contemporanei di questi scrittori, si mostrano i riformatori, nunzii di speranza e di vita, uomini di squisita fibra, che sottopongono a sereno esame i mali che opprimono la società, mostrano a nudo le sue piaghe, ne ricercano la cagione, propongono i rimedii, e compongono la filosofia dell’epoca. Se i dolori non sono abbastanza sentiti, o l’indole nazionale è tarda ed incapace di forte passione, costoro rimangono nell’astratto; e se discendono ad applicare le loro dottrine, si allontanano ben poco dallo esistente, adattano ad esso i loro ragionamenti. Se i mali son gravi, le passioni violente, il ragionamento dei riformatori distrugge quanto esiste. Gli scrittori alemanni, e i francesi del presente secolo hanno questi due distinti caratteri. I riformatori debbono vincere l’aspra lotta del proprio convincimento, contro tutti i motivi esterni, i pregiudizi, la pubblica opinione, spesso la presunzione, l’esilio, il carnefice, il rogo. Sono gli eroi dell’epoca.
D’altra parte in molti l’utile privato trovasi strettamente legato alle leggi, alle opinioni, ai pregiudizî combattuti, e questi se ne fanno i difensori.
In questi cotali scrittori depravati, i motivi esterni hanno sempre il trionfo sull’interno convincimento, la virtù è difettiva, sono turba vile e spregevole in perpetuo, se lo sprezzo potesse aspirare ad immortalità; l’opportunità è la legge suprema, il principio che li regola. Lodatori infaticabili, formano il corteggio della tirannide finchè questa non diventa forte, da non aver più bisogno delle loro lodi, ed impone silenzio all’importuno garrito.
La lotta fra i riformatori ed i conservatori rischiara le tenebre, perfeziona le dottrine di quelli, che, originate da mali della società, acquistano maggior lume secondo che maggiori sono gli ostacoli che trovano al loro sviluppo. Per tal ragione, i conservatori, parte cancrenosa della società, loro malgrado contribuiscono al perfezionamento delle nuove idee. Così il pensiero nasce dai fatti fra il volgo, dai dolori procede a traverso di essi, ma siegue poi fuor di volgo, i suoi voli, la sue astrazioni, mentre questo, senza mai addottrinarsi, dai soli fatti vien balzato da un un’idea in un’altra.
Intanto le moltitudini, sotto la pressura dei crescenti mali, cominciano a manifestare un’irrequietezza, un odio al presente, un desiderio di migliorare vago, confuso, non espresso in verun concetto. Ma questo desiderio, questo concetto non tarda a formolarsi nella mente di pochi in un’idea che diventa legame di sette, scopo di congiure, fede di martiri; e così essa manifestasi in una serie di fatti, di sensazioni, che la rendono comune, spontanea, concreta, immediata, sentimento insomma. Allora la rivoluzione delle idee è compìta; quel concetto di pochi getta un seme nell’universale coscienza che frutterà, fecondato da fatti. Questa idea popolare legasi con le astrazioni dei filosofi, ma essa è quel primo suggerimento dell’istinto movente, e punto di partenza dei ragionamenti di quelli; e però nasconde nuovi errori, nuovi mali, dai pensatori, manifestati, comparati, contrappesati, ma sempre inutilmente pel volgo, che non cercherà il rimedio di mali non ancora esperimentati; e come quelli procedono seguendo i voli del loro pensiero sino alle ultime conseguenze, le moltitudini, lentamente operano, ed attraverso fatti, delusioni, errori, procedono verso la meta da quelli rapidamente raggiunta.
Sbattuto dalla tempesta sento il bisogno di un ricovero, penso di piantare degli alberi, e già li veggo nella immaginazione, in grandi rami diffusi. Li esamino minutamente, e mi convinco che non sarò da essi abbastanza guarentito, anzi mi attirerò i fulmini addosso. Come fare adunque? Quando saranno grandi, penso meco stesso, li abbatterò; coi loro fusti costrurrò un ricovero più utile degli alberi. Esamino questo nuovo trovato del pensiero, e, non iscorgendolo abbastanza perfetto, procedo; perfeziono il ricovero, e giungo, sempre migliorando, ad un edifizio; e conchiudo che l’edifizio è il solo utile rimedio contro la bufera. Ma a quanti travagli, a quante fatiche, a quante delusioni non dovrò sottostare se voglio trarre in atto il mio pensiero, e piantare gli alberi, attendere che crescano, abbatterli, ed adattarli all’ideato edificio? I riformatori son quelli che ragionando stabiliscono la necessità dell’edificio; il popolo comincia per attuare il pensiero con piantare l’albero, e non l’abbatte, se prima non ha esperimentato che esso non è sicuro all’ombra delle sue foglie, come aveva sperato; e così procede, perfezionando il proprio ricovero, sempre dopo avere esperimentati quei mali che la ragione aveva già preveduti.
Nel pensiero di Campanella, di Pagano, di Filangiero, di Romagnosi noi scorgiamo, o espressa, o sottintesa, o come conseguenza di quei principî, la rivoluzione sociale. Quindi il pensiero italiano raggiunse ben presto le sue ultime conseguenze. Ma come procede il popolo verso questa meta? Ora oppresso da esorbitanti gravezze sollevasi nella gigantesca Napoli, terribile come la natura in corruccio, e, condotto da un pescatore, sbaraglia il mal governo che l’opprime; ora si raccoglie in Lucca intorno ad un nero e stracciato vessillo, e minaccia i ricchi; ora assale, al segnale di Balilla, e caccia lo straniero dalle mura di Genova; ora favorisce il Francese per odio contro il Tedesco; poi favorisce questo per odio di quello; finalmente, dopo tanti esperimenti e tante delusioni, comincia a riconoscere la necessità di conquistarsi una patria, e l’idea d’indipendenza Italiana la personifica in un Papa, poi in un Re, ed ora attende i nuovi fatti che verranno a trarlo dall’incertezza in cui gli ultimi disastri l’hanno gettato. A traverso di tanti esperimenti raggiungerà la meta, e, distruggendo l’edificio incantato dei pregiudizii e delle opinioni, adatterà la sua costituzione alle leggi magistrali della natura, le quali già da lungo tempo servon di norma ai nostri pensatori. Quindi è assurdo che il progresso dell’idea faccia progredire i fatti; è assurdo pretendere di giudicare dalle idee espresse dagli scrittori, il progresso di cui un popolo in una rivoluzione è capace. Per giudicarne, bisogna studiarne la sua storia, e dallo studio delle peripizie a cui è soggiaciuto, potrà conoscersi ciò che esiste nella coscienza nazionale, ovvero quell’universal sentimento che si manifesta nel moto, lo regge e ne prescrive i limiti. Se un tal sentimento non sarà un’idea chiara e distinta, ma prenderà norma dai mali esistenti che a pena cercherà di toccare senza distruggerli, il moto sarà sviato, represso, infruttuoso, non sarà che una nuova esperienza, che un ammaestramento universale, che allargherà per l’avvenire i limiti di quel concetto esperimentato troppo angusto; in tal guisa si succedono le rivoluzioni, errori fatali dell’istinto nazionale, che la ragione corregge ed indirizza verso le leggi di natura.
Fin qui potrebbe conchiudersi che il progresso è continuato, che le nazioni percorrendo una sanguinosa via procedono sempre; ma bisogna considerare altri elementi, altre cagioni, che operano sull’indole umana e sulla coscienza dei popoli.
Se l’eccesso delle sensazioni, se le troppe delusioni logorano le fibre, e gettano la sfiducia nell’animo, se le soverchie ricchezze di alcuni e la miseria spaventevole dei molti troncano ogni nerbo alle moltitudini, e succede una solitudine di pensieri e d’interessi, che distrugge affatto la coscienza nazionale, allora le rivoluzioni sono impossibili. Allora manca quel sentimento universale d’onde i pensatori traggono le prime idee; mancano ai popoli le speranze, ai cospiratori i concetti; mancano le passioni che sospingono quelli a scrivere, questi ad agitarsi ad operarle. Cessa il moto, e con esso la vita: ed il difetto di ardenti passioni non è che preludio di morte. Una nazione giunta in tale stato, è condannata a perire per vecchiezza: essa sarà preda dei più forti vicini.
Dal nostro ragionamento possiamo conchiudere, che ogni nazione tende con le sue rivoluzioni verso le leggi di natura, ma nel suo aspro cammino, può incontrare ostacoli tali che ne logorano le forze e la distruggono, quindi il corso e ricorso delle nazioni, non è legge fatale ed inevitabile, ma nemmeno contraria all’indole dell’uomo e delle società. Nè perchè per lo passato ebbe luogo, dovrà necessariamente ripetersi al presente; può non avvenire, o almeno seguire un’orbita più eccentrica di quelle già percorse. Intanto le ricchezze sociali, dimostrammo che sono in continuo aumento, le scienze che scrutano i segreti della natura, e si giovano delle sue forze, volgendole allo accrescimento dell’industria, in continuo progresso; ed i popoli del mondo tendono sempre verso l’unità, quindi le diverse nazioni corrono tutte verso questa meta comune; uniforme prosperità mondiale; ma nel loro cammino ciascuna sottogiace alle proprie peripezie; alcune migliorano nelle loro istituzioni, altre decadono, certe si dissolvono, altre ingrandiscono: sono come tante navi che navigano verso il medesimo porto, ma non vi giungono senza che ognuna non abbia corso fortuna a sua volta.
II. Fin qui non abbiamo fatto altro che seguire la dialettica, e rimanere nell’astrazione; ora l’accurato esame dei fatti, ovvero della storia d’Italia, che nel primo saggio abbiamo adombrata, servirà di riscontro al nostro ragionamento.
Distrutto l’Imperio Etrusco, dal diluvio d’Ogige, dalla crisi di fuoco di cui parlammo, fra i martiri dell’Italia, e della Grecia, per quell’incontrastabile legge di natura per cui l’uomo tende all’associazione, come il grave al suo centro, cominciarono a raccogliersi in vari gruppi i dispersi selvaggi. Le leggi da cui vennero retti questi primi gruppi, il dispotismo di uno su molti, ci dimostrano chiaramente il primo suggerimento dell’istinto. I deboli, onde esser garantiti dalla prepotenza dei forti, cercarono la protezione di altro forte, al quale si diedero volontariamente schiavi. Forse fuvvi chi suggerì la lega di tutti i deboli contro i pochi forti, forse fuvvi chi fece riflettere che si sfuggiva un male, e se ne creavano degli altri con la volontaria schiavitù; ma queste ragioni, queste dottrine dell’epoca, questi voli del pensiero riuscivano infruttuosi; l’istinto diceva ad ognuno: dònati ad un forte, e questi ti proteggerà: e così ognuno a schivare la probabilità d’un servaggio, rendevasi volontariamente servo.
Così si formarono i vichi ed i paghi. I deboli si sentivano lieti del ritrovato di aver chiesto la protezione del forte, contenti lavoravano, ed il forte, loro protettore, godeva del frutto dei loro lavori; la ragione era d’accordo col sentimento; queste prime società prosperarono.
La guerra fra i vichi, e paghi fece che varii di questi borghi collegandosi formarono la città. I varii capi, re scettrati, e sommi sacerdoti dei loro dipendenti si raccolsero in congresso nella città onde accordarsi riguardo il modo come condurre la guerra solo pubblico interesse allora esistente.
Intanto dal consorzio dei vichi e paghi risultò un culto comune, ed un paragone fra il modo di esercitare l’imperio dei diversi capi; quindi nei più oppressi sorse desiderio di migliorare: ed ecco i primi sintomi di una rivoluzione. Certamente soffrì pene acerbissime quel primo schiavo che si lagnò della propria condizione facendone paragone coi più fortunati: questi fu un riformatore, un virtuoso: le sue ragioni furono soffocate con la violenza, e la virtù ignota a quella società si mostrò per la prima volta. Virtuosi furono quei primi plebei, che sfidando il corruccio dei loro padroni, proposero sottoporre alla concione dei forti le private contese; virtuoso fu quel primo nobile che l’approvò facendo prevalere il suo convincimento — motivo interno — alla seduzione, che lo attirava ai vantaggi del domestico imperio — motivo esterno. Fu questa una prima rivoluzione, un progresso; divennero più equi i rapporti fra i padroni ed i clienti, ma crebbe oltre ogni misura la podestà della concione, sovrana e giudice nel tempo stesso. Il suggerimento dell’istinto di surrogare all’arbitrio di varii capi il volere del congresso che essi medesimi componevano, si avvicinò assai più alle leggi di natura che la volontaria schiavitù, ma diede corso a nuova tirannide.
Al crescere delle popolazioni e delle ricchezze, al moltiplicarsi dei rapporti fra gli individui, la podestà dell’oligarchia dei forti cresceva, pesava sempre più sulla plebe, le cui fibre d’altra parte venivano dirozzate dal crescente numero delle sensazioni. Cominciarono a sentirsi i dolori, che trassero a sè l’animo dei più accorti, e la ragione dichiarò ben presto un’ingiustizia, che i soli nobili fossero sovrani. Ecco la lotta della ragione coi pregiudizii e colle opinioni di quelle società. Da questa lotta cominciò a sorgere naturalmente l’idea della colleganza della plebe contro i nobili, idea dalla quale l’istinto aveva deviato, prima col volontario servaggio, poi col concedere ogni podestà alla concione dei forti, ed a cui la ragione rimenava la società. Questa prima colleganza ha in sé tutto l’avvenire della democrazia; dà principio alla lotta del popolo contro le caste ed i privilegii, ed entra nella sfera delle rivoluzioni dei popoli civili.
Quale sarebbe stato il suggerimento della ragione per risolvere questa prima contesa fra nobili e plebei? Manomettere i nobili, e farsi la plebe arbitra della cosa pubblica. Ma conseguita la vittoria come reggersi da sé? Faceva d’uopo rifletterci, pensarci, ed il volgo non riflette, né pensa. L’istinto suggerì di non distruggere i nobili, ma limitare la loro podestà, sottoporla a regole, e queste regole furono le consuetudini, rudimenti dei codici di tutti i popoli; prima vittoria della plebe sui nobili, prima idea del giusto, e dell’ingiusto. Dunque sulle consuetudini primitive si basarono i codici, e queste consuetudini erano risultate dal volontario servaggio, dagli erronei suggerimenti dell’istinto; quindi il lungo cercare, le tante esperienze ancora in corso, onde giungere da principii così ingiusti al semplicissimo codice della natura, l’uguaglianza.
Nuovi danni, e coi danni i dolori, sospinsero la plebe a nuova conquista. Si moltiplicarono i rapporti, le faccende, gli utili; la macchina sociale si complicò, la difficoltà di reggerla crebbe. Alle qualità naturali dell’uomo, forza ed astuzia in guerra, si sentì il bisogno d’una qualità nuova, saggezza in pace; se questa saggezza era difettiva nei nobili, la società non tardava a provarne le conseguenze; ed ecco che il sostituire ad essi altri governanti più degni, idea un tempo suggerita dalla ragione, ora per lo svolgersi dei fatti era suggerimento dell’istinto, effetto dei mali da cui la società era gravata, dei dolori, dai quali veniva stimolata. Quindi la storia dei tanti tumulti, dei martiri, delle rivoluzioni, con cui la plebe cercava conquistarsi il diritto di conferire ai suoi eletti i maestrati della repubblica. Dunque volontario servaggio; quindi il volere della concione dei forti sostituito all’arbitrio dei singoli capi; quindi la podestà di questa concione sottoposta alle consuetudini, ad una regola; finalmente gli eletti o i migliori sostituiti ai nobili; ecco il progresso delle interne istituzioni seguito dai varii popoli italiani, progresso che lo troviamo conforme a quelle leggi di natura, di cui abbiamo nel precedente paragrafo ragionato. Ora abbandoneremo per poco un tale argomento, e ci faremo a ragionare sulle scambievoli relazioni che si stabilirono durante questo tempo fra i varii popoli d’Italia e l’effetto che esse produssero sulle interne condizioni di ciascuno dì essi.
Quando i selvaggi cominciarono a raccogliersi in vichi e paghi si trovarono in contatto in Italia con i civilissimi etruschi superstiti del distrutto impero; quindi il desiderio in quelli di procacciarsi le ricchezze che questi possedevano; l’avidità dell’indole umana faceva tendere quei nascenti popoli a raggiungere la prosperità dei loro vicini. Di qui le guerre continue, le scorrerie che quei semi-selvaggi fecero contro i civili etruschi, dai quali furono sempre respinti; d’altronde le comunicazioni dirette fra’ monti, e però sommamente disagevoli, fecero sì che lo scambio dei prodotti, delle idee, dei trovati dell’industria, fu lentissimo fra gli Etruschi ed i popoli montani; e quindi lentissimo fra questi lo svolgersi della loro prosperità.
Non così sulle coste: il mare li abilitò a facilmente comunicare coi civili orientali; lo scambio divenne facilissimo, ed arti ed industria rapidamente fiorirono, le ricchezze crebbero immense, ed ove erano agresti tribù si videro sorgere le Magno-Greche repubbliche.
Ma come testè dicemmo il codice di questi popoli, comechè civilissimi, era basato sulle consuetudini delle primitive società, in cui una parte erano servi destinati al lavoro, un’altra padroni i quali cautamente vivevano delle fatiche di quelli. Inoltre l’indispensabile gerarchia militare, in cui i privilegi di ogni grado venivano stabiliti dai medesimi capi, introdusse l’ineguale riparto del bottino, quindi tali consuetudini, quantunque la condizione dei servi migliorasse, la base furono, i principii su cui venne stabilita la legge di proprietà, e quindi il diritto, non già quello giustissimo di usare ed abusare del frutto del proprio lavoro, ma l’altro sommamente ingiusto, che alcuni potessero possedere più del bisognevole mentre altri mancassero del necessario. Un tal diritto fondato su di un principio affatto oligarchico venne scosso, temperato ad ogni rivolgimento a cui quelle società sottostettero, ma, rimasto fermo nella sostanza, conservò la sua tendenza all’oligarchia, e le immense ricchezze ammassate da quei popoli civilissimi, furono proprietà di pochi, e più non si videro che opulenti e mendichi, mentre fra gli abitanti dei monti, l’industria in difetto avendo impedito lo sterminato crescere delle ricchezze, serbossi una quasi uguaglianza.
Esaminiamo queste due società. I Magno-Greci e gli Etruschi dalla soverchia opulenza e dalla miseria di molti depravati; imperò i sensi di quei popoli erano dall’abuso o dall’inerzia attutiti, e le fibre per sopprabbondanza di sensazione rese flaccide, e se tese, per debolezza soverchiamente irritabili, e quindi gli umori dall’incostante tensione, o troppo impetuosamente sospinti, troppo languidamente premuti; di quinci i loro vizii corrispondenti a questo stato dei loro sensi: sempre oscillanti ed incapaci di durevoli proponimenti: gli affetti o troppo concitati ed al minimo ostacolo repressi, o soverchiamente rimessi: la costanza, la calma impossibili: spesso li vediamo arroganti col nemico lontano, e se vicino codardi; i Tarantini derisero i legati Romani, all’avvicinarsi poi dell’esercito, tremarono e si diedero a Pirro. Inoltre, la miseria degli uni, e l’opulenza degli altri faceva abilità a questi di comprare il voto di quelli, ed ai ricchi, non già ai migliori, veniva conferita la suprema podestà, e le cariche della repubblica; e però più innanzi ancora crebbero i mali. L’oligarchia dei ricchi immersi nella mollezza cercò sempre di divezzare il popolo dalle armi; per loro difesa assoldavano Campani..... Galli ivi accorsi per amor di guadagno, terrore di quell’imbelle plebe, ed eziandio dei tiranni che li pagavano.
Se poi ci trasportiamo fra le robuste popolazioni che abitavano i monti, non troveremo nè soverchia opulenza che attutisce i sensi, nè miseria che logora le fibre, le quali, dotate di giusta irritabilità, premono e sospingono a regolare e costante corso gli umori: onde fermezza ne’ propositi, calma nel deliberare, costanza nelle opere; non insultavano, ma combattevano il nemico. Il valore in onore: e più del valore, la saggezza, e la disciplina dei guerrieri; eravi lusso, ma nei militari ornamenti. Inoltre l’agricoltura essendo la gradita occupazione di quei guerrieri, e le terre quasi ugualmente divise, l’utile privato trovavasi d’accordo con l’utile pubblico; i voti non venduti, e la suprema podestà, le cariche tutte della repubblica venivano conferite ai migliori. Ecco dunque nell’epoca medesima, nella stessa Italia due società, l’una pel rapido svolgersi della civiltà e l’accrescersi delle ricchezze, corrotta e decadente; l’altra ove erasi conservata una giusta uguaglianza, giovane e fiorente.
Proseguiamo le nostre considerazioni: in una società depravata gli scrittori non possono essere che dotti e correttori di costumi; tali i Pittagorici, i quali non furono, come alcuni opinano, riformatori, ma propugnatori delle antiche virtù, apologisti del governo dei migliori, che aveva già esistito, che esisteva presso i popoli montani, e che fra i Magno-Greci era degenerato, perchè non bilanciate le fortune, e il governo dei più ricchi. «Il migliore dei Governi, diceva Clinia, non debb’essere affidato ad un solo, perchè un solo ha delle debolezze; non a tutti, perchè fra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi.» — «Se una città libera, diceva Aristotile, non avesse che un solo uomo virtuoso, chi potrebbe negare che in tale città la dominazione di un solo sarebbe necessaria?» E Clinia, Aristotile, Platone, facendosi come è naturale all’uomo centro di ogni cosa, credettero scoverte del loro ingegno quelle massime, quei principii, che in quella società decadente erano un pallido riflesso, una debole eco di antichi costumi; e dando il nome di virtù, non già all’azione che oppone nuovi principii a vecchi pregiudizii, ma ai principii, stessi, si credettero i soli virtuosi, nè dubitarono per fare il bene, come essi dicevano, spacciarsi quali inspirati da Dio; e così l’amor proprio trovò in essi ragioni, come accordare impostura e virtù. Quindi diventarono sètta, società secreta; ma le loro dottrine non erano conformi alle istituzioni sociali, né cercavano riformar queste; ma rendere gli uomini con le istituzioni stesse migliori, opera vana e stolta; epperò li vediamo ora onorati e vezzeggiati, ora aspreggiati dai governi, ed in ultimo distrutti da Dionisio, quando da Sicilia passò a devastare la Magna-Grecia. Intanto quei principii, quelle massime dei Pittagorici si praticavano dai popoli montani: fra i Sanniti, forte federazione di tre milioni d’uomini raccolti intorno ad eccelsi monti, fra i Lucani, fra i Sabini... Sembrava strano ed inutile ragionare lungamente per dimostrare la giustizia di quelle massime; fra essi tali idee erano sentimenti, e simiglianti costumi erano quelli dei nascenti Romani. Dunque i fatti sono in perfetto accordo col nostro ragionamento; le istituzioni di ciascun popolo progrediscono esattamente secondo quelle leggi fatali che sono effetto dell’indole umana: e se nelle società avvi sovrabbondanza di sensazioni, peggiorano e decadono. Nei primi secoli di Roma, si riscontrano in Italia tre diverse gradazioni, tre diverse età della vita dei popoli: al settentrione i Galli sono in uno stato di completa barbarie; i più forti fra di loro sono duci in guerra, ed arbitri degli altrui destini in pace; fra gli Appennini, giovani e fiorenti società, governate dagli eletti del popolo; sulle coste, popoli peggiorati, e decadenti. I primi, secondo queste leggi, avrebbero dovuto raggiungere lo stato dei secondi; questi o passare ad una ignota, ma migliore condizione, o decadere; gli ultimi erano condannati a perire. E così avvenne; i loro destini si compirono, e si compirono nel tempo medesimo che, per le stesse leggi regolatrici dell’universo, cotesti popoli soggiacevano a nuova trasformazione.
Da isolati selvaggi, per propria conservazione e per avidità, erano giunti a costituirsi in forti federazioni, ed opulente repubbliche. La civiltà, la prosperità, non erano in Italia ugualmente sparse; ne difettavano i Galli, ne sovrabbondavano i Magno-Greci.
Guerrieri i Galli e gli abitanti dei monti, e le comunicazioni difficili, quindi impossibile che avessero atteso dal lavoro pacifico e lento del commercio guest’opera unificatrice. L’autonomia di questi stati, troppo recisamente costituita per sacrificarla all’unità, e sorgente di odi vicendevoli; niun nemico comune ed universalmente temuto che li avesse indotti per propria conservazione a confederarsi, quindi essi erano dal fato condannati a sottostare ad una forza prepotente che ne avesse formata una sola nazione. Intanto ad ognuna di quelle nazioni sarebbe stato difficile compiere tale impresa, e perchè avevano incontro avversarii di pari forza, e perchè eravi in Italia stabilito un diritto pubblico, che garantiva la loro indipendenza. I Romani, in forza di questo diritto pubblico, perchè nascente, ne vennero esclusi e sprezzati; essi per propria conservazione dovettero vincer tutti; prima dovettero essere guerrieri per procacciarsi il bisognevole; poi lo furono per difendersi da tante aggressioni, finchè vinti i più forti avversarii, i Sanniti, divennero quella forza prepotente che unificò l’Italia.
Unificata l’Italia essa trovossi in quello stato fiorente, in quella purezza di costumi in cui erano i Romani, i Sanniti, i Latini, ecc., che formavano la parte preponderante; il patriziato romano, i migliori d’Italia fu la sovrana concione che governò tutta la penisola. In tal guisa Galli, Sanniti, Magno-Greci corsero verso la stessa meta che raggiunsero, ma, nel compiersi cotesta legge, le istituzioni, i costumi delle società fiorenti prevalsero; i Galli ancora barbari furono inciviliti per forza; i Magno-Greci e gli Etruschi per vecchiezza perirono nella lotta. Roma fu il centro ove concorsero le varie istituzioni e i costumi di tanti popoli italiani; Roma fu il centro d’onde queste istituzioni si sparsero ugualmente in tutta l’Italia.
Gl’italiani retti dal saggio e guerriero patriziato romano si trovarono in contatto della vecchia civiltà d’Oriente o della barbarie d’Occidente; conquistarono gli uni e gli altri e sparsero la civiltà dei primi egualmente sul loro vasto impero. Ma le tante ricchezze acquistate colla guerra cominciarono a far sorgere l’opulenza e la miseria; il governo passò nelle mani dei più ricchi; gli ordini sociali avevano compito il loro corso, i mali crescevano, quindi o dovevano con una rivoluzione rigenerarsi o peggiorare e dissolversi come era avvenuto ai Magno-Greci.
Le fibre non erano inflacidite, le passioni ancora esistevano; quella società presentò sintomi di rigenerazione; i Gracchi, i Saturnini, i Drusi furono i riformatori dell’epoca; essi mirarono a limitare i dritti di proprietà, ma i loro ragionamenti, i loro sforzi non furono compresi dal popolo italiano; questo seguiva i suggerimenti del proprio istinto e credeva cagione dei mali il potere usurpato dai romani. Tutti vollero essere romani, e lo furono. Ma i mali, in luogo di diminuire crebbero; le loro forze, le loro fibre si logorarono nella lotta. Noi vediamo la stessa cagione — opulenza e miseria — produrre i medesimi effetti, i medesimi vizii, dai versi di Lucano, espressi con impareggiabile maestà ed evidenza:
In poder vasto il campicel si estese |
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . |
Tutti i maestrati della republica si ridussero nelle mani dei pochi ricchi, e con essi il governo, il tesoro, la guerra, le provincie, i trofei, le glorie; le guerriere prede fra capitani si dividevano, erano i soldati plebe misera e vendereccia, e se le proprietà dei padri o figli di qualche soldato confinavano a quelle di qualche potente, ne rimanevano spogliati. Così spalancossi fra i patrizii e la plebe — quelli diventati opulenta oligarchia, questa moltitudine di codardi e mendichi — la stessa voragine da cui furono inghiottiti i Magno-Greci. Ben presto in Roma, come era avvenuto fra quelli antichi popoli, l’oligarchia dei ricchi fu a sua volta oppressa dal militare dispotismo.
La storia d’Italia diventa ora la cronaca sanguinosa dei suoi tiranni, e Roma nella decadenza non cessò di essere grande. Gli eroici e puri costumi che descrive Tito-Livio e la corruzione ed i misfatti scolpiti da Tacito, rappresentano degnamente il sorgere ed il tramontare di un gran popolo. Lo stato di Sibari, di Cuma, di Cotrone, di Siracusa........ è riprodotto su vastissime dimensioni. Sino a Nerone la cronaca è italiana, poi perde questo carattere di nazionalità e diventa universale. Alle frontiere si creano gl’imperatori che si disputano il trono; il Senato, estraneo alla lotta, applaudisce al vincitore. Quest’impero cadente e ricco trovasi a contatto di Goti, Longobardi, Franchi, barbari affatto. Essi agognano d’impossessarsi di tante ricchezze, ma dubitano pel terrore che loro inspira il nome romano. Intanto per effetto della corruzione le feraci terre si spopolano, e si cangiano in deserti, gli uomini avviliti dalla miseria ed oppressi dalla tirannide cercano rifugio fra le caverne e le selve. I superstiti a questo cataclisma politico non differiscono gran fatto dai superstiti alle grandi crisi della natura; essi fuggono spaventati la violenza dei potenti, come questi lo scroscio della folgore ed il muggito della tempesta. Finalmente i barbari scacciano la paura e si rimescolano con le reliquie dell’Impero. I destini si compiono; i Romani periscono per vecchiezza, e la civiltà che arresta vasi al Reno ed al Danubio spandesi sino all’Oder.
Siamo ora alla barbarie ricorsa, che vedremo progredire sotto l’impero di quelle medesime leggi di cui discorremmo. All’imbelle patriziato romano si surroga la robusta e guerriera aristocrazia dei barbari. Quest’aristocrazia componeva la concione sovrana da cui veniva eletto il re loro duce in guerra. I patrizii romani con l’usura e la frode vicendevolmente si distruggevano; i nobili barbari lo facevano con la forza, ed i piccioli proprietarii erano da questi baroni talmente oppressi che rinunziando ad un’effimera libertà, si dichiaravano volontariamente vassalli del potente vicino onde esserne protetti; nella guisa stessa che nella primitiva barbarie quelli che meno potevano si donavano schiavi ai più forti. La società nuova che erasi sostituita all’antica con nomi e costumi diversi conservò la medesima tendenza ad un’oligarchia di proprietari che andavasi sempre restringendo, allargava quella fatale voragine che separavala dalla plebe. Intanto in questa barbarie ricorsa era rimasto superstite il comune romano; esso fu punto di rannodamento alla maggior parte degli oppressi; questi comuni sottostettero all’assoluto imperio dei baroni, ma essi furono tanti centri di vita.
Il misero popolo dopo sei secoli cominciò a sentire i propri mali, venne scosso dalla lotta impegnata fra l’aristocrazia e la teocrazia, la rivoluzione cominciò; e questa rivoluzione che logorò le forze dei romani, fece inabbissare tutto l’impero in quella voragine spalancata fra ricchi e poveri e trionfò dinante la barbarie ricorsa, imperocchè le sue mire furono più recise. Allora gl’italiani volevano conservare l’Impero, chiedevano solo di esser Romani. Vano rimedio ai loro mali. Ora che in diritto ed in fatto altro non esisteva che l’arbitrio dei baroni, il suggerimento dell’istinto fu di distruggere questi; non eravi nulla da conservare: i ricchi baroni vennero assaliti; le loro terre conquise, diroccate le loro castella, ed essi furono costretti a chiedere rifugio ai trionfanti comuni.
L’Italia risorgeva. I comuni italiani, per loro interne istituzioni erano al medesimo punto in cui erano giunti i Sanniti e i Magno-Greci; quindi l’intera Italia sotto i Romani, il governo dei migliori, gli eletti del popolo. Quelli pel crescere delle ricchezze peggiorarono e perirono, questi corsero con più rapidità le vicende medesime. Nelle antiche città italiane formate dalla riunione di rozzi selvaggi, ed in cui l’agricoltura era in onore, i migliori erano considerati i più laboriosi, i meno ignoranti; per contro nelle città italiane surte dalla ritornata barbarie, dal lezzo della comune depravazione, cogli sforzi dell’industria e del commercio, i simulatori e gli scaltri erano quelli nelle cui mani veniva affidata la suprema podestà; nelle primitive popolazioni agricole tutto l’utile privato accordavasi con l’utile pubblico; in queste in cui tutto era industria e commercio, quello era in opposizione con questo, e vinto il nemico che li aveva costretti ad unirsi e concorrere al medesimo scopo, l’amor di patria cessò di fatto e fuvvi solitudine di pensieri e d’interesse. Le ricchezze degli antichi popoli italiani che abitavano i monti non poterono crescere che lentamente e per mezzo delle conquiste; ai comuni risorti invece che non aveano rivali nel resto d’Europa allora barbara, le ricchezze, come presso i Magno-Greci, crebbero rapidamente. Al XIII secolo le grandi fortune erano ammassate, la plebe compra, le città si dividevano in opulenti e mendiche; al XV secolo è riprodotto il medesimo fatto osservato presso i Magno-Greci ed i Romani. Alla cima della società un’opulenta e però molle e codarda oligarchia che sempre restringevasi, alla base plebe vilissima; all’oligarchia si viene al dispotismo militare dei tirannelli. Sintomi delle rivoluzioni si manifestano; i tumulti si succedono, ma tutti mancano di un concetto dirigente. In quelle società parteggiate dall’oro, l’istinto altro non suggeriva che surrogare una tirannide ad un’altra; le forze si logorarono, e la voragine spalancata fra ricchi e poveri inghiottiva libertà, indipendenza, arti, industria, commercio, tutto insomma. Mentre l’Italia per le mal distribuite ricchezze perdeva ogni nerbo ed imputridiva nei vizii, la sua opulenza, la sua civiltà soverchiamente superiore a quella delle nazioni che l’accerchiavano, dando effetto a quella fatale legge per cui la prosperità tende continuamente a spandersi su tutti i popoli, produsse l’irruzione in Italia di quelle nazioni. L’Italia dei Romani era stata mirata dai barbari come lo schiavo mira il padrone; ora i semibarbari d’oltremonte la guatarono come il discepolo il maestro, come il mendico guarda l’agiato; la preda era facile e ricca, all’ammirazione prevalse il desiderio di rapina; i nostri tardi discepoli gettandosi sul nostro corpo infralito da vecchiezza, lo sbranarono. L’Italia venne disseccata dalla vitalità che assorbirono i conquistatori; noi ricevemmo da essi barbarismo, vanità ed ozio. In tale epoca la degradazione compresse in noi ogni elaterio dell’animo; lo splendido medio-evo moriva, e per indolenza si amò da noi la stessa tirannide, si abborrì la libertà per amor dell’inerzia; obbedienza a chi comanda, disse con gran verità il Sismondi, fu la formola che raccolse in sè ogni precetto politico fondato sulla avversione alla lotta, e nel costante desiderio del riposo.
Dall’Italia gettiamo un rapido sguardo al resto d’Europa, che sorge anch’essa dalla rinnovata barbarie. Da per tutto vediamo la concione dei baroni sovrana, il popolo servo, il re magistrato. Il risorgimento dei comuni riformò in Italia questa società, ma presto cogli oltremontani, l’elemento barbaro prevaleva al romano, le città mancavano di quella vita che si svolse in Italia, e tale rivoluzione avrebbe dovuto compiersi su vastissimi imperi, e però le cose procedettero diversamente. Nelle città il re eletto dai forti, poco differiva da essi, nè poteva per l’immediato contatto esercitare un grande ascendente. Quando il popolo sente, il bisogno di distruggere l’oligarchia, la prima idea pratica che gli suggerisce l’istinto è quella di surrogare ad essi gli eletti del popolo; quindi la democrazia trionfa; per contro in un vasto impero in cui il re solo in una capitale si estolle agli occhi del volgo al disopra dei feudatari, i popoli per francarsi dalla prepotenza di questi divennero collegati del re, e poi si trasformarono da vassalli in sudditi della corona, e la regia potestà trionfò, e con essa venne stabilito il diritto divino; e questo diritto prova che l’opinione universale e la rivoluzione tendevano, come era naturale, al governo dei migliori; epperò i re per non concedere al popolo quel diritto d’elezione che aveano i baroni, si fecero dichiarare i migliori da Dio, onde così la loro podestà più non dipendeva dalla volontà dei governati.
Possiamo finalmente conchiudere che quelle leggi fatali che reggono i destini delle nazioni si verificano nei fatti con l’esattezza medesima con cui risultano dalla logica, e l’esperienza e la ragione si trovano in perfetto accordo. Ragionando della natura umana e del suo modo di essere nel mondo esteriore, dimostrammo nel paragrafo precedente, come essa con incessante trasformazione accresca sempre le ricchezze sociali; le quali poi per legge della stessa natura, tendono a spandersi egualmente su tutto il globo; e mentre la prima di queste leggi è per sè medesima evidente, l’altra la troviamo esattamente confermata dalla storia. La civiltà tende all’equilibrio fra due nazioni vicine come il fluido elettrico fra due nubi; quella degli Etruschi e Magno-Greci era molto superiore a quella dei popoli montani d’Italia, quindi noi vediamo quelli conquistati da questi, e l’opulenza e l’industria spandersi egualmente in tutta la penisola; nella guisa stessa le conquiste dei Romani in Oriente stabilirono l’equilibrio fra le due civiltà, l’una scarsa, l’altra sovrabbondante; ed i Romani conquistando i barbari d’occidente la sparsero uniformemente sul vasto impero da essi fondato: finalmente l’irruzione dei barbari del settentrione fu conseguenza di questa mancanza d’equilibrio fra la civiltà corruttrice dei Romani ed i selvaggi costumi dei loro vicini, e con quest’irruzione i limiti dell’Europa civile non furono il Reno ed il Danubio, ma l’Oder; d’onde poi col mezzo stesso delle guerre e del commercio penetrò in Prussia, e mentre con moto incessante tali destini si compivano in un periodo di forse quaranta secoli vedemmo in Italia tre società progredire e poi pei loro vizî dissolversi, i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani. Dunque il progresso continuo è un sogno, i fatti sono troppo eloquenti per sè medesimi, nè possono distruggersi da studiati sofismi. Nell’Europa moderna la costituzione politica dei vari stati, ha raggiunto quel punto medesimo in cui si trovavano quei popoli decaduti, il governo dei migliori; codesto principio sotto diverse forme, e con diversi nomi regge tutte le nazioni: o lo sono dichiarati da Dio, o, eletti, tali li dichiara il popolo.
Questo limite fatale nessun popolo antico come moderno è stato capace di oltrepassarlo, quantunque moltissimi tentativi si fossero fatti per conseguire un tale iscopo. Le eloquenti orazioni dei romani tribuni contro il potere dei consoli, i tanti rivolgimenti delle repubbliche italiane del medio-evo, e particolarmente di quella di Firenze, i tanti ritrovati dei moderni, ad altro non mirano che a garantirsi contro quella podestà dal popolo stesso conceduta, ma è forza confessare che lo scopo non si è raggiunto. Appena affidasi il maestrato supremo ad un uomo o a varii uomini, le forze di tutta la nazione si volgono a profitto di questi pochi, e dei loro seguaci, e la schiavitù delle moltitudini in varie gradazioni è permanente.
È questo forse il limite fatale dalla natura stabilito? Declinano i moderni come i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani? Abbiamo dimostrato che la possibilità di andare oltre è attributo della natura umana; come essa ha necessariamente corretto le diverse costituzioni, ed è giunta allo stato presente, non havvi nessuna ragione per credere che sotto il pungente stimolo del dolore non possa stabilire ordinamenti migliori. Ma se è possibile migliorare, è possibile eziandio che i moderni si dissolvano come gli antichi prima di raggiungere il loro scopo. Ci faremo a svolgere tale argomento interrogando le tendenze della moderna società, ma prima di tutto fa d’uopo porre in vista, e richiamare l’attenzione del lettore su di una grande verità che risulta da quanto testè abbiamo detto. Quale fu la cagione per cui presso i Magno-Greci all’antica purezza di costumi successero i vizi che li corruppero? Quale fu la cagione per cui tutte le cariche della repubblica, un tempo concesse dal popolo ai più degni, caddero nelle mani dei pochi ricchi, i quali ad altro non pensarono che ad avvilire e tiranneggiare il popolo, e godersi la podestà usurpata e le esorbitanti ricchezze? Quale fu la cagione per cui presso i Romani avvenne precisamente lo stesso? E quale la cagione che rinnovò il fatto nei comuni italiani? La cagione fu sempre la stessa: la cattiva distribuzione delle immense ricchezze che divisero la nazione in opulenti e mendichi; di qui tutti i mali accennati, e quella voragine spalancata in cui questi imperi sprofondarono. Quale fu la cagione per cui presso i Magno-Greci, i Romani, le ricchezze nell’accrescersi si sono sempre più ammassate fra un ristretto numero di cittadini, e la miseria della plebe è cresciuta in ragione diretta dell’aumento del prodotto sociale? La cagione è evidente, il diritto di proprietà, il diritto che dà facoltà a pochi di arricchirsi a discapito di molti, ma tale diritto è l’asse intorno a cui queste nazioni, queste società hanno compito il loro ciclo. Sofisti!... apologisti della proprietà, osereste negare quaranta secoli d’istoria? Sareste voi capaci di dimostrare che non fu la miseria della plebe e l’opulenza di pochi la sorgente di tutti i vizi che li distrussero; che la tendenza del prodotto sociale ad accumularsi in poche mani, e quindi cagionare la miseria della moltitudine, non sia una conseguenza inevitabile del diritto di proprietà?
III. Le rapide e numerose comunicazioni, che si aprono ogni giorno e traversano in ogni senso l’Europa, hanno fatto abilità ai prodotti dell’industria di spandersi quasi uniformemente da per tutto, hanno reso le idee, le scoperte di comune ragione; hanno talmente intrecciato gl’interessi dei vari popoli che la guerra fra due stati europei viene considerata dalla numerosa turba dei commercianti ed industriali quasi come guerra civile.
Intanto le due diverse civiltà di Asia e d’Europa debbono in un avvenire non lontano compenetrarsi, unificarsi; questa è una legge che abbiamo visto confermata dalla storia. Ma come avverrà questo fatto? Sarà l’Europa che si rovescierà sull’Asia, o questa su quella? Nè l’uno, nè l’altro: l’Europa non abbandona, nè le converrebbe farlo, il suo commercio e la sua industria per correre alla conquista dell’Asia, nè questa ha tali moventi che la facciano sortire dalla indolenza per rovesciarsi sull’Europa; e se il facesse, il periglio comune unificherebbe le falangi di tutti gli eserciti europei, al cui urto gli asiatici verrebbero dispersi.
Se rivolgiamo lo sguardo all’America la vediamo posta fra i due continenti, fra le due civiltà, e parrebbe destinata a dar compimento a questa legge fatale, nella guisa stessa che l’Italia il fece fra l’Oriente e l’Occidente. Ma gli Americani sono dediti al commercio, all’industria e non già alla guerra; i loro prodotti trovano sempre mercati abbastanza vasti, e l’estensione e feracità del suolo di cui dispone, fanno sì ch’essa non ha bisogno di cercare ventura per accrescere la sua prosperità.
La Russia per la sua apparenza guerriera, e per la velleità dei suoi autocrati c’indurrebbe a credere che un giorno fosse destinata a compiere con la spada i decreti del fato; ma non vi è popolo meno del Russo adattato alla guerra, esso non è abbastanza civile per sentire gli stimoli della gloria militare: nè tanto barbaro d’abbandonare le proprie contrade e correre alla conquista di nuove regioni. La volontà dell’Autocrate basterà per esaltarlo in difesa del proprio paese, ma non già per trasformare in conquistatore un popolo di servi. La Russia contribuisce a compiere queste leggi fatali non già con la guerra, ma col lento lavoro del commercio.
La civiltà europea già varca gli Ural e penetra in Asia. Finalmente se ci faremo a considerare attentamente le condizioni dell’Inghilterra, ben lungi dal vedere in essa la Roma o la Cartagine moderna, noi crediamo che essi rappresenti ciò che era Venezia nel medio evo. L’Inghilterra vive d’industria, i suoi prodotti sono immensi e sempre crescenti, quindi essa ha bisogno di mercati vastissimi; essa deve, se le circostanze lo richiedono, aprire col cannone lo sbocco ai suoi prodotti. Quindi a noi pare che l’Inghilterra sia destinata a capitanare l’esercito di trafficanti, che unificherà la civiltà europea e l’asiatica se impreveduti avvenimenti non cangiano la condizione dei popoli.
Dunque, esclameranno i partigiani del continuo progresso, noi ci avviciniamo verso l’unità meridionale (?), che verrà quasi pacificamente attuata; noi ci avviciniamo ad un libero e facile commercio fra tutti i popoli della terra; i vari prodotti di tante nazioni, la loro industria, le attitudini speciali di ciascun popolo, di ciascun individuo, saranno volti a benefizio di tutta l’umanità; — questo è quello che desideriamo. Ma la storia e la logica ci conducono a queste incoraggianti conclusioni? Cerchiamo le sorti più vicine, a cui accenna la vita politica ed economica dei popoli moderni.
Sino allo scorcio del XV secolo l’Italia fu l’astro intorno a cui tutti i popoli hanno compiuto il loro giro, il centro verso di cui tutti hanno gravitato. La sua luce offuscata, spenta questa signora delle genti, questo centro venuto meno, l’Europa abbandonata a sè stessa, per quasi tre secoli ha seguito un corso incerto e balenante. La Francia finalmente si è surrogata all’Italia per regolare il corso dei destini europei, ma il suo ascendente non è evidente, incontrastabile come fu quello dell’Italia, spesso è contrappesato, quasi sempre resta in ombra e si discerne appena, qualche volta sparisce affatto. Non di meno in Francia possiamo fare studio sulle tendenze delle moderne nazioni.
Sappiamo dalla storia come in essa i comuni non poterono mai completamente francarsi; la regia podestà distrusse il feudalismo e surrogossi a lui. Ma il popolo non essendo libero, come in Italia, l’industria, il commercio lentamente progredirono, e il protezionismo, conseguenza della monarchia, tutto interdisse. Finalmente sotto Sully ed Enrico IIV fiorì l’agricoltura, sotto Colbert e Luigi XIV l’industria, a cui Turgot con l’abolizione delle corvate e dei mestieri diede grandissimo impulso. Oggi i francesi, e quasi tutti gli oltremontani, raggiunsero quel grado di prosperità a cui erano giunti gli italiani allo scorcio del XIV secolo, e se presso gli italiani, in quest’epoca ogni cosa accennava decadenza, quali sono le tendenze dei moderni? Come!.... esclama Mercier de la Rivière, ch’è un partigano del despotismo, l’agiatezza è sconosciuta a coloro che la producono. Ah!! diffidate di questo contrasto. Ma spingiamoci innanzi alla ricerca dell’ignoto avvenire.
È innegabile che la presente società può considerarsi divisa in due classi: da una parte capitalisti e proprietà, dall’altra operai e fittaiuoli. Queste due classi sono in un’evidente e continua opposizione: quella prospera al deperire di questa. «Invano, dice Filangieri, i moralisti han cercato di stabilire un trattato di pace fra queste due condizioni: quelli cercheranno sempre di comprar l’opera di questi al minor prezzo possibile; e questi cercheranno sempre di venderla loro al maggior prezzo che possono. In questo negoziato quali delle due parti soccomberà?... Questo è evidente: la più numerosa». Cotal vero non può negarsi, che per ignoranza o per difetto di buona fede: il capitalista mira sempre ad accrescere il prodotto netto, quindi il ribasso della mercede alla ruina dell’operaio; il proprietario a trarre quanto più sia possibile dal fittaiuolo onde alimentare i suoi ozi, poco curandosi dei bisogni di quello. La proprietà fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII secolo, che scemarono molto il suo ascendente sui destini della società; oggi è il capitale l’arbitro dell’umanità, per esso corrono prosperi i tempi. L’umano ingegno datosi all’industria, non si tardò ad inventare macchine, strumenti, trovati che ne facilitano il progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata l’operaio; le macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto, e nel tempo medesimo ribassato grandemente il salario; e quello e questa riducendo l’opera dell’uomo ad un atto puramente materiale e costante, non è rimasto al misero operaio nessuna attitudine di cui possa avvalersi. Un tal fatto gli economisti nol niegano, ma come rimediarvi, essi dicono? Sostituiremo i viaggi sul dorso d’uomini alle strade ferrate, la vanga all’aratro, il copista alla stampa? Non si arriva, soggiungono, senza perdite sulla breccia! Nè possiamo tener conto di coloro che il corso del progresso schiaccia nel suo cammino. E l’economista, atteggiandosi qual benefattore dell’umanità, con una gravità sotto cui nasconde la sua ipocrisia, vi dice: noi miriamo al bene pubblico non già il privato. Meno quest’ultimo asserto, le loro risposte sono giuste; sarebbe stoltezza pretendere di arrestare i voli dell’umano ingegno; a noi basta registrare un vero, un fatto, un risultato ch’eglino stessi non possono negare, ed è che: la miseria dell’operaio cresce al crescere della ricchezza sociale e del prodotto dell’industria. Inoltre maggiore è il capitale, ed in parità di lavoro, maggiore è il prodotto, questo è un assioma in economia; e però un vistoso capitale producendo sempre più a buon mercato che un piccolo capitale, ne risulta che questi dovrà indubitamente soccombere nella concorrenza. D’onde risulta un altro fatto, che gli economisti non possono disconoscere, ma non vogliono confessare, cioè: nella continua lotta che si fanno i varii prodotti, i varii capitali, la ricchezza sociale si accresce ed il numero di coloro che la posseggono diminuisce. L’Inghilterra produce quanto basta a 250 milioni d’uomini; solamente 9 milioni sono i possessori di queste immense ricchezze. Perchè avviene ciò? per legge di natura: ricerca continua di prosperità; bisogni crescenti al crescere dei prodotti, facoltà inferiori ai bisogni, ecco l’umana natura; donde l’operosità, il progresso dell’industria indefinito, la felicità ad onta degli umani sforzi impossibile, ed in questo continuo ed istintivo moto l’uomo cercando di volgere in suo profitto quanto cade sotto i suoi sensi, in una società in cui i guadagni privati non sono cospiranti, ma contrari ed in concorrenza, e cercano vicendevolmente distruggersi, bisogna inevitabilmente, fatalmente tendere ad una oligarchia di ricchi e raggiungerla.
Dunque i principii su cui sono stabilite le leggi economiche, le leggi immutabili di naturali fatti in fine, ci dimostrano ad evidenza che le moderne società si avvicinano rapidamente a quelle condizioni medesime a cui giunsero i Magno-Greci, i Romani, i Comuni: cioè esse tendono a ridursi in un’opulentissima oligarchia, ad una moltitudine di mendichi.
Fin quì per ciascuna nazione in particolare. Ora ci faremo ad esaminare i destini dell’intera Europa. La giustizia, l’utile del libero cambio, astrattamente, è incontrastabile; esso è una conseguenza delle leggi naturali da cui viene regolato il mondo. Ma queste leggi naturali vengono esse osservate nel resto degli ordini sociali, nella distribuzione delle ricchezze? È questo il punto della questione dagli economisti studiosamente evitato. La varietà dei prodotti delle diverse regioni, la diversità delle attitudini di ciascuna nazione e di ciascun uomo sono fatti da’ quali risulta l’utile, la necessità del libero cambio. Che ogni popolo fruisca dei prodotti degli altri popoli e faccia loro fruire dei suoi; che ognuno possa giovarsi delle diverse attitudini di tutti, e tutti di quelle di ognuno, è il problema umanitario, il problema che il libero commercio, e la facilità e rapidità delle comunicazioni risolvono. Il libero cambio, produrrà l’altro grandissimo vantaggio che una nazione, destinata dalla natura ad essere agricola, non abbandonerà certo l’agricoltura per l’industria, viceversa, e così ogni popolo troverà il suo vantaggio rimanendo in quelle condizioni che natura gli ha fatto. Ma per ottenere cotesti risultamenti richiederebbesi che i prodotti sociali, le ricchezze insomma, scorressero e si diffondessero ugualmente in tutte le classi della società, e non già, come avviene, che si andassero restringendo in pochissime mani. Questo fatto che abbiamo dimostrato fa crollare l’edifizio incantato dei liberi cambisti; è questo lo scoglio ch’eglino vorrebbero nascondere curandosi poco, ottenuto l’intento, che la società si rompesse.
Discendiamo ai fatti: un paese abbonda di cereali, ed ivi la plebe vive a buon mercato. Si ponga in atto il libero cambio, ed immediatamente gli incettatori faranno acquisto di tutto il grano, e l’invieranno a quei mercati ove è maggiore il prezzo. Quale sarà la conseguenza? Il caro del pane! Ma vi rispondono i liberi cambisti: se il prezzo del pane sarà maggiore, vi sarà in compenso una grandissima diminuzione nel prezzo de’ panni, delle stoffe, dei tappeti; ed inoltre non contate l’oro che entra nella scarsella degli incettatori?
Tutto questo è vero, ma il popolo minuto, misero com’è, non ha bisogno per covrirsi de’ panni forastieri, nè gode della diminuzione di prezzo di questi generi; l’oro che entra nella scarsella degli incettatori, non arreca nessun vantaggio alle moltitudini, ma è volto ad affamarle l’anno seguente. Nè qui finiscono i mali. La proprietà fondiaria è un monopolio permanente, ed in una nazione destinata dalla natura ad essere esclusivamente agricola, non tutti possono dedicarsi alla agricoltura; i posti sono occupati, quindi per necessità, alcuni capitali e moltissime persone si dedicano alla industria, che per l’indole nazionale, per le condizioni del paese mai potrà ingrandirsi e perfezionarsi in modo tale da sostenere la concorrenza di quelle fabbriche immense, di quei prodotti dei popoli esclusivamente industri, e però il libero commercio le distrugge immediatamente, e priva di lavoro quelli operai che già ha tormentato col caro del pane. I capitali poi escono immediatamente dallo Stato e passano allo straniero. Senza poter rispondere alle prime obbiezioni, i liberi cambisti credono di rispondere vittoriosamente a quest’ultima e dicono: Allorchè il denaro passerà da A in B, è segno che A ne abbonda; appena ne mancherà, il danaro ritornerà, per la ragione medesima che da A è passato in B. — Sì, vi ritornerà, risponde Proudhon, ma vi ritorna nelle mani dei capitalisti stranieri, i quali acquisteranno terre, stabiliranno fabbriche, ed A diverrà una nazione che vive dei salari che percepisce dagli stranieri. L’ascendente dell’Inghilterra sul Portogallo è dovuto al libero commercio; il vasto impero delle Indie per questa ragione è divenuto proprietà di pochi mercanti. In una parola: se le condizioni e le relazioni sociali non mutano, il libero cambio facilita la concorrenza, e questa il monopolio di sua natura oligarchico; quindi facilita la tendenza delle ricchezze sociali a ridursi a poche mani, ed il crescere incessante dei mendichi e delle loro miserie.
Coteste verità che studiosamente si disconoscono fanno esclamare a Proudhon: «Il libero monopolio, è la Santa Alleanza dei grandi feudatari del capitale e dell’industria, è la mostruosa potenza che deve compiere su ciascun punto del globo l’opera cominciata dalla divisione del lavoro, dalle macchine, dalla concorrenza, dal monopolio, dalla polizia; schiacciare le industrie minori e sottomettere definitivamente il proletariato. È la centralizzazione su tutta la faccia della terra, è il reggimento della spoliazione e della miseria, è la proprietà in tutta la sua forza e gloria. È per conseguire l’adempimento di questo sistema che tanti milioni di lavoratori sono affamati, tante innocenti creature gettate dalla mammella nel niente, tante fanciulle e donne prostituite, tante riputazioni macchiate. E sapessero almeno gli economisti una uscita da questo laberinto, una fine di queste torture. Ma no, sempre mai come l’orologio dei dannati è il ritornello dell’apocalisse economica. Oh! se i dannati potessero ardere l’inferno!!...»
Nè qui si arrestano i mali, nè qui cessa il potere che hanno le leggi economiche sui destini sociali; esse informano, danno norma, indirizzano verso la stessa meta a cui esse tendono qualunque politica istituzione, eziandio quelle che sembrano volte a migliorare le condizioni delle moltitudini. Il governo vive delle gravezze pagate da’ cittadini, e queste, meno pochissime su taluni oggetti di lusso, tutte gravitano sui poverelli, sul minuto popolo che paga nella più gran parte, e più delle altre classi sociali ne risente il peso; mentre i ricchi, e coloro che assorbono i maggiori stipendi sono in proporzione i meno gravati. Questi governi dovrebbero almeno proteggere i miseri. Ma no: è il ricco che ne ottiene protezione, è il povero che popola le prigioni, che vive sotto la sferza e la prepotenza dei birri.
Nel governo assoluto il povero può alcune volte ottenere da un monarca un provvedimento arbitrario, ma repressivo, contro il ricco; nel governo rappresentativo, coverto con la maschera della legalità, ciò è impossibile; elettori quelli che posseggono, i nulla tenenti sono fuori la legge, sono in una condizione peggiore degli schiavi; il governo è nelle mani dei capitalisti e dei proprietarii, l’industria progredisce, la miseria cresce, e la società corre verso l’oligarchia dell’oro.
Passiamo al suffragio universale, amara derisione pel popolo minuto. L’operaio, il contadino, che non votano pel capitalista, pel proprietario, vengono da questi minacciati della fame. I capitalisti fanno monopolio del voto come d’una derrata; il popolo nel governo rappresentativo è abbandonato affatto in balìa del ricco, i suoi mali giungono al colmo. Il capitale dispoticamente governa: da ciò la codardia politica, co’ deboli superbi, e co’ forti umili; la non curanza per l’avvenire, guadagni pronti e grossi è la massima dei presenti uomini di Stato; nelle loro mani il telegrafo elettrico ed il vapore, grandi trovati dell’umano ingegno, volti a perpetuare l’usurpazione e la miseria. Il Sismondi scriveva alla Giovane Italia: «Affiderete voi la causa del proletario agli uomini che ne dividono le privazioni? essi non hanno forza. L’affiderete quindi ai ricchi? essi saranno i primi a tradire il povero». Ecco il problema fatale che tutte riassume le future sorti dell’umanità. Nè questo è tutto: le ricchezze dei pochi e la crescente miseria delle moltitudini producono l’ignoranza e fanno abilità agli usurpatori di salariare parte del popolo per opprimere il rimanente. Quindi le numerose soldatesche ed il militare dispotismo. La questione politica è nulla in faccia all’importanza della questione economica. Finché vi saranno uomini che per miseria si vendono, il governo sarà in balìa di coloro che più posseggono; la libertà è un vano nome. Invenzioni, scoverte, ordini nuovi, liberi reggimenti, altro non fanno che respingere la società in quell’abisso verso cui le leggi economiche inesorabilmente la traggano. In quali Stati è maggiore la miseria e più sensibile l’oligarchia dei ricchi? In quelli ove le moderne libertà e l’industria maggiormente fioriscono: più che altrove in Inghilterra, poi nel Belgio, poi in Francia. Gli europei dalla burrasca economica che gli travaglia sono cacciati a torme verso il nuovo mondo; e dall’Inghilterra emigrano il maggior numero perchè, secondo i moderni, la più civile. Son fatti questi e non congetture che vengono in appoggio alla ragione: quindi il vantato progresso altro non è che decadenza. Ma ove giungeremo? Sarà un giorno l’affannata umanità governata da una gretta oligarchia di banchieri? È questa la domanda a cui risponderemo col ragionamento che segue.
Svolgiamo la storia: essa ci indicherà quali furono le sorti di quei popoli le cui ricchezze s’accumularono nelle mani di pochi patrizii. I Magno-Greci sono lontani da noi, e comechè la loro storia ci venga tramandata attraverso la nebbia dei secoli, pure vediamo che appena pochi divennero i possessori delle ricchezze sociali, cominciò in quelle repubbliche il parteggiarsi del popolo, sorsero i tumulti, donde risultò il militare dispotismo, quindi gli Aristodemi, gli Anapali, i Dionisii, i Faleridi..... Presso i Romani gli avvenimenti si disegnano con recisi contorni; appena la società vien divisa in pochi ricchi e numerosa ed ignorante plebe, cominciano, dai mali di questa suscitati, i tumulti; Tiberio e Caio Gracco, Saturnino Apullanio, Livio Druso, lo stesso Catilina sono generosi che tentano francare il popolo dalla schiavitù, alleviare le sue miserie; la guerra sociale, la servile, la spartacida, la mariana, la sertoriana, la Catalanizia, furono i conati di un popolo infelice contro l’usurpazione dei ricchi; ma la cagione dei mali non cadeva sotto i sensi, non poteva perciò suggerirsi dall’istinto il rimedio: mancò quindi il concetto che avesse unificata e diretta l’universal volontà; il popolo fu sempre vinto, ma non perciò gli opulenti patrizii gioirono delle loro usurpazioni; ad essi successe il dispotismo militare: quindi Mario, Silla, Cesare, poi l’impero, i pretoriani che spogliarono ed oppressero ricchi e poveri. E gli stessi avvenimenti li vediamo esattamente riprodotti nelle repubbliche del medio evo; l’oligarchia de’ ricchi cade sotto il dispotismo dei venturieri. E presso i moderni quali sono i fatti che osserviamo? Chiunque senza spirito di parte si farà ad esaminarli potrà riconoscere ch’essi sono del medesimo carattere di quelli avvenuti presso i magno-greci, i romani, il medio evo; i tumulti, le guerre civili si succedono, il dispotismo militare fra noi, a cagione degli eserciti permanenti, più pronto, già s’estolle su tutti gli ordini, viola giuramenti, calpesta leggi, vuota borse... Banchieri! monopolisti! cercate gioire del presente, giacché l’avvenire non vi appartiene: il popolo non può ottenere il trionfo che scrollando ed abbattendo tutto l’edifizio sociale, ed in tal caso voi perirete sotto le ruine; se poi il popolo è vinto, il dispotismo militare vi aspetta, la vostra morte sarà più lenta. Vedrete a poco a poco vuotare le vostre borse, e morrete consunti; altra alternativa non v’è; questo decreto del fato è incancellabile.
Ecco, o dottrinari! il progresso sognato dalla vostra beata schiera. È meravigliosa l’astrazione in cui questi cotali lontani dalla miseria e dall’opulenza vivono; essi credono in buona fede che dalle loro elucubrazioni fiorirà la libertà. Una catastrofe politica li sorprende, un soldato prescrive i limiti alle loro dissertazioni, come un pedagogo limita, minacciandoli della sferza, le ricreazioni dei fanciulli; essi senza perder coraggio velano le loro idee, le lasciano indovinare, e procedono sognando di far guerra al dispotismo. L’idea, il concetto, dominano, è vero, il destino dei popoli: ma esse sono conseguenze de’ fatti e non si traducono in fatti che dalle rivoluzioni compite per forza d’armi, ed il popolo non trascorre mai alla violenza perchè animato da un concetto, ma perchè stimulato da’ dolori. Cosa sono le idee senza le rivoluzioni, senza la guerra che le faccia trionfare? un nulla: sono le varie forme che i vapori prendono nell’aria, e che un zeffiro disperde.
Ma non bisogna arrestarsi alla superficie della società, su cui pur troppo chiaramente è scolpito un tale destino, fa d’uopo esplorare il fondo per pronunciare la sentenza. Discorremmo, come i pregiudizii e le false opinioni in origine più comuni, manifestando col tempo i loro attributi, cagionano, perchè non concordi con le leggi di natura, mali gravissimi, ed il rispetto, anzi il culto che il popolo aveva per essi, cangiasi in disprezzo e derisione. Coloro che primi scrollano tali pregiudizii sono i riformatori; affrontano questi l’ira sociale, sfidano l’esecrazione di quelle moltitudini ch’eglino vogliono difendere, e tanti dolori immeritati, tanti martirii estremi vengono in essi ad alleviarsi pel convincimento di essere i propugnatori del vero.
Incontro a questi, dicemmo eziandio, sorgono gli apologisti del presente, dediti sempre a sacrificare ogni loro convincimento ai vantaggi che loro vengono offerti dal mondo esteriore; sono questi i propugnatori degli interessi che prevalgano, difensori delle classi che predominano, nascondendo sempre il male, sotto le apparenze del bene; — sono gli ottimisti. Queste due schiere nemiche possono dirsi il genio del bene e del male dell’umanità; quelli rappresentano il moto, la vita, questi, l’immobilità, la morte; sono due pleiadi che precedono sempre le grandi crisi sociali; una tramonta a misura che l’altra sorge sull’orizzonte. Queste due schiere nemiche vengono, fra i moderni, chiaramente rappresentate dai socialisti e dagli economisti, e noi ci faremo ad esporre per sommi capi la lotta che tutt’ora fra loro si combatte.
Tutti i riformatori osservando la cattiva ed ingiusta distribuzione delle ricchezze in una società che pretende di esser libera, cercano un mezzo acciocché essa venga ugualmente ripartita. Le idee di Campanella, nella Città del Sole, di Cabet nell’Icaria, le teorie di Owen, di Louis Blanc tutte si propongono lo scopo di creare una forza estrinseca, artificiale, la quale presieda alla divisione delle ricchezze. Carlo Fourier, superiore a tutti, rinviene questa forza nella natura stessa dell’uomo; sciogliete il freno alle passioni, concedete ad esse piena libertà: e l’equilibrio, egli dice, si stabilirà da sé. Nondimeno all’applicazione di questo trovato egli prescrive alcune regole; grande nel rinvenire questa forza di cui si va in cerca, erra nel modo di adoperarla. Gli economisti hanno francamente appiccata la battaglia, ed abilmente ferito l’avversario nel debole della corazza. I vostri sistemi, dicono essi, non sono che il ristabilimento del dispotismo con tanta pena abbattuto. Incontro ad essi il passato protezionismo può dirsi libertà: voi prescrivete il vestito, il cibo, la dimora, alcuni tra voi finanche l’ora del coito. La società sotto un tal reggimento perirebbe di languore: l’uomo non lavora che per sè; se distruggete la personalità distruggerete il prodotto. Pretendete forse con le vostre utopie cangiare le immutabili leggi di natura? Libertà a tutti e per tutti è la formola degli economisti, e quindi, osservate superficialmente le cose, eglino in questa lotta sembrano i propugnatori della libertà e del progresso. La libertà ridona la dignità all’operaio, vi dicono essi; noi non possiamo nè vogliamo lasciar da parte la sua volontà, altrimenti sarebbe ridurlo alla condizione del bruto che opera sotto l’impulso della sferza. Continuano, nè tralasciano di servirsi giustamente, ed abilmente del sarcasmo. I vostri sistemi, dicono ai riformatori, sono così complicati che solo il vostro grande ingegno che li ha concepiti può averne un’idea chiara e distinta; e però per attuarli fa d’uopo che la società abbandoni nelle vostre mani tutte le sue ricchezze, tutti i suoi diritti, che vi conceda illimitatissima podestà, acciocché voi possiate rigenerare l’umanità. Le vostre filantropiche pretese, è forza confessarlo, non sono piccole.
Fin qui la vittoria degli economisti è completa. Ma quando si trasporta la quistione sul suo vero terreno, cambiano le veci. I riformatori, a lor volta, dicono: Voi parlate di libertà e dignità dell’operaio? Quale libertà gli concedete voi se non quella sola di morir di fame? Quale sferza è più umiliante e più potente della fame, solo ed unico legame che aggioga il proletario al carro sociale? Quando i riformatori notano la profondità delle piaghe sociali, e la statistica alla mano, terribile scienza, contano in Parigi 360 mila persone immerse nella miseria, ed in tutta la Francia sette milioni e mezzo d’uomini che vivono con soli cinque soldi al giorno, e nel Belgio un milione e mezzo che vivono di pubblica beneficenza; quando spalancano innanzi ad essi quei tetri volumi delle ricerche fatte in Londra, delle condizioni dei poveri, quando scorgesi che quasi tutti i malfattori sono miseri ed ignoranti; quando si osserva, finanche un morbo distruttore rispettare il ricco ed unirsi con gli altri innumerevoli mali sotto il nero e stracciato vessillo della miseria; quando infine, la forza delle stesse leggi economiche, gli mostra ad evidenza che questi mali debbono immancabilmente crescere con ispaventevole celerità allora gli economisti rimangono atterriti. I loro sofismi sono impotenti, il sarcasma cangiasi in ira, e prorompono alle onte; vi chiamano anarchisti, e parteggiatori: ma i fatti sanguinosi e minaccianti non cessano di protestare.
Fra gli economisti il solo Malthus, coraggiosamente si è svincolato dalle fatali strette: Non sono le leggi economiche, egli dice, non è l’ingiusta distribuzione delle ricchezze, non le condizioni ed i rapporti della società la cagione di questi mali; ma essi risultano da due leggi immutabili di natura, che regolano la propagazione della specie, e l’accrescimento del prodotto, e fanno sì che l’una proceda in una progressione geometrica, mentre quella cresce in una progressione aritmetica, e quindi conchiude: «Un uomo che nasce in un mondo di già occupato, se la sua famiglia non ha come nutrirlo, e la società non ha bisogno del suo lavoro, quest’uomo dico non ha il minimo diritto a reclamare una posizione qualunque di nutrimento, egli è realmente di soverchio sulla terra. Al grande convito della natura non vi è posto per lui, la natura gli comanda d’andarsene, né tarderà a porre essa medesima quest’ordine in esecuzione.»
Non è necessario dimostrare per ribattere l’argomento di Malthus che in natura non esiste cotesta legge fatale e terribile; ma basterà rispondere che se essa esistesse, non dovrebbe aver effetto, se non quando ognuno non occupasse nel convito della vita che un posto solo; ma quella ingiusta distribuzione di ricchezze di cui si ragiona fa sì che uno solo occupa i posti di più: che nove milioni per esempio, come avviene in Inghilterra, divorano la mensa che natura ha imbandito per 250 milioni. Or come impedire ai tanti esclusi di avvalersi di quella superiorità di forze dalla natura stessa concessagli, e calpestando quei pochi, farsi da loro medesimi giustizia?
Giunta la questione a tal punto, entra in lizza Proudhon; la chiave della volta, secondo Garnier, dell’edifizio sociale è... — La proprietà è un furto, è la netta evidente incontrastabile conseguenza a cui perviene Proudhon colla sua inesorabile logica. Gli economisti hanno consumate inutilmente tutte le loro forze per difendersi, ma l’impresa era troppo ardua, massime per la proprietà, fondiaria. Sarebbe soverchio venir ripetendo in queste pagine gli argomenti di Proudhon; il certo è che l’uomo ozioso, semplice consumatore inutile alla società, che impone patti a suo capriccio a coloro ai quali essa deve tutto, è l’immediata, la legittima conseguenza del diritto di proprietà. L’ultimo fra i volgari, se i pregiudizi non l’acciecano, se la sua ragione può per un solo istante francarsi dall’imperio di fatti, è nel caso di comprendere questa verità. Come mai può dirsi giusta una legge dalla quale risulta il diritto di non far nulla, e scialaquare il frutto dell’altrui sudore? Gli economisti hanno alzata l’ultima barricata dietro cui si credevano invulnerabili: La terra, soggiunge Bastiat, non ha valore (quasi che la mancanza di valore in un oggetto da tutti desiderato potesse adonestarne l’usurpazione); la proprietà, egli dice, è un lavoro accumulato. Ma ad onta di questa ardita asserzione sono stati disfatti, e videro distrutte eziandio le ragioni con cui difendevano il capitale: L’uomo creato con facoltà inferiori ai suoi bisogni, non può bastare a sè medesimo, e solo associandosi coi suoi simili esce dallo stato selvaggio; isolato è inferiore a quasi tutti gli animali, associato diventa sovrano. Sola non può neppure procacciarsi il necessario; in società ottiene subito dal lavoro collettivo un prodotto sovrabbondante, quindi comincia il risparmio, il capitale; e siccome il lavoro, come afferma lo stesso Pellegrino Bossi, non essendo trasmissibile, non è neppure usufruttabile, ne risulta che il risparmio, ovvero il capitale, conseguenza di un lavoro collettivo, non può essere che una proprietà collettiva. Il capitalista che paga otto di salario ad ogni operario che produce dieci, non solo ruba due ad ognuno di essi, ma ruba eziandio la loro potenza collettiva, quella potenza per cui l’azione simultanea di cento persone è superiore all’azione successiva di tutti gli uomini della terra; potenza per cui accrescesi oltre misura il prodotto, potenza generatrice del capitale. Per qual ragione adunque gli operai, padroni legittimi del prodotto del loro lavoro, padroni legittimi del capitale che la loro potenza collettiva ha accumulato, sottostanno alle esorbitanti e tiranniche esigenze d’un capitalista? La fame ne li costringe. Se nella presente società cessasse la miseria, capitalisti e proprietari più non troverebbero nè operai, nè fittaiuoli che volessero lavorare per loro conto; cesserebbe ogni produzione, la miseria fa loro abilità di usufruttare gli altrui lavori; la miseria è il punto d’appoggio su cui librasi, è la base su cui poggia l’edificio sociale; è il solo movente che produce quella vantata armonia della società. I pochi si giovano del frutto dei lavori di molti. Gli economisti, vedendosi debellati, hanno eseguita un’abile evoluzione, sono ritornati sull’antico terreno; essi trascinarono nuovamente i loro avversari ad esaminare i sistemi che pretendono surrogare alle condizioni e relazioni presenti, e disser loro: voi non fate che distruggere; edificate, ed esperimentiamo se i vostri concetti sono attuabili. I riformatori in quest’ultima contesa mancarono di carattere, si mostrarono deboli: eglino, credendo sincere le proposte dei loro avversari, si fecero a chiedere ai proprietarii i mezzi come esperimentare una società senza proprietà, la facoltà d’abolirla,...... ammirabile innocenza!! Eglino avrebbero voluto riedificare senza distruggere, vestire il povero senza spogliare il ricco..... vana speranza! Lo stesso Proudhon pretende riformare la società con alcune istituzioni che tutti potrebbero accettare. I loro avversari risposero con un sorriso di scherno, ed ascosero il loro veleno per servirsene a miglior tempo. Noi troncheremo il nodo della quistione, non essendovi alcuna necessità di scioglierlo.
Riscontrasi forse registrato ne’ fasti dell’umanità che le rivoluzioni si compiono con una discussione o con un’esperienza? Gl’interessi oppositi da cui viene l’urto si salvano entrambi. D’onde, se non dal torrente degli affetti che sgorgano dalle rivoluzioni, e travolgono nel loro rapido corso ogni ostacolo, sorte inaspettato il nuovo ordine sociale? A me basta d’aver provato, nè ciò possono negare gli economisti, che i mali, le cagioni de’ presenti dolori, esistono non solo, ma crescono continuamente, e questo fatto, scritto a caratteri indelebili negli eterni volumi del destino, racchiude in sè la rivoluzione, come i corpi il calorico. «Quando il popolo non avrà più nulla da mangiare, mangerà il ricco.» In questi termini, con queste parole Rousseau ha preveduto e definito la rivoluzione, e così avverrà. Inoltre le nazionalità compresse, le ingorde tirannidi, l’agitarsi delle sette, sono altre ragioni, effetti, e cause della rivoluzione, le quali ne avvicinano il momento, e vestono delle loro apparenze, alcuni rivolgimenti, il cui movente principale, la miseria, il bisogno di migliorare, rimane nascosto.
Dunque, risponderanno esterrefatti gli economisti, la rivoluzione preveduta, desiderata è la strage, la spogliazione? Sì, tale sarà; ma le sue vittime saranno in numero assai minore di quelle che voi spegnete coi lunghi tormenti della miseria. E fossero più, noi ripeteremo le vostre frasi: non si giunge senza perdita sulla breccia — «non possiamo tener conto di coloro che il carro del progresso schiaccia nel suo cammino.» — Concludiamo: la rivoluzione è inevitabile, essa si avvicina con caratteri chiari e distinti, e procede indipendente dalle discussioni dei dotti. — Noi ci faremo ad esaminarne più minutamente le tendenze.
«La Provvidenza, esclama Alessio Battiloro in Palermo nel 1649, fa le campagne ubertose per tutti, nè noi dobbiamo morire di fame perchè alcuni ladri s’impinguano.»
È questa la formola della rivoluzione — che esiste latente da due secoli — dal momento che al popolo del medio evo successe il popolo moderno. Tutti i rivolgimenti che hanno avuto luogo da quell’epoca, che avranno luogo in avvenire, tutti, comechè in apparenza vestiti di altri caratteri, sono l’effetto del medesimo movente: i bisogni materiali del popolo. Questi varii rivolgimenti sono stati vinti e sviati, imperocché lo istinto appigliandosi alle apparenze ha trascurata la realtà; sollecito della riforma politica non ha curato la sociale: ma il movente principale sino ad ora occulto, sconosciuto, non compreso dalla moltitudine, già comincia ad emergere dal fondo della coscienza sociale. Chi oggi è così semplice da supporre che un popolo corra alle armi per surrogare qualche scaltro ad un re, per inalberare uno straccio dipinto in un modo piuttosto che in un altro, per ottenere con le stesse misure un pomposo nome? Chi negherà che il popolo armasi perchè spera in cuor suo, senza dirsi il come, migliorare le sue materiali condizioni? Chi negherà che libertà, patria, diritti, siano vani nomi, amare derisioni per costoro, dannati in perpetuo dalle leggi sociali alla miseria ed all’ignoranza, inerenti al diritto di proprietà come l’ombra ai corpi? Perchè amerà la libertà della persona, del pensiero, della stampa colui che non ha mezzi onde esistere, che, per ignoranza, non pensa e non legge? Sorrideva Metternich quando i sovrani spaventavano della quistione politica; il suo arguto ingegno scorgeva che la vittoria era certa pel dispotismo, finché la quistione non diventasse sociale. Ed oggi chi non vede che la quistione sociale comincia a prevalere alla politica? Gli stessi uomini tenacemente ristretti fra le antiche idee sono loro malgrado obbligati a concederle qualche pensiero, qualche frase. Non era la quistione sociale che scriveva nel 33 sulle bandiere dei ribelli di Lione: Vivere travagliando o morire combattendo? Non era la quistione sociale quella a cui Cavaignac nel giugno del 48 rispondeva a colpi di cannone? E le associazioni che si creano, appena ne hanno facoltà quasi istintivamente non accennano forse a cotesto avvenire? E l’indifferenza con cui il popolo francese mirò violata la costituzione dello stato, arrestati i suoi rappresentanti, diroccato il palazzo dell’assemblea, non dice chiaramente che egli sperava con la repubblica migliorare le proprie condizioni, e, rimasto deluso, non trovò ragione sufficiente per difenderla contro l’Impero? Sono scorsi quasi due anni dacché ho scritto queste pagine, al cominciare del 1856; con mia soddisfazione posso aggiungere nuovi fatti in conferma del mio asserto. Ora che le dottrine socialiste più non si manifestano, ora che i dottrinanti d’ogni colore predicano l’assurda concordia de’ partiti contro il comune nemico, il socialismo s’eleva alla pratica, è l’aspirazione di una società secreta, la Marianna.
Le concioni popolari in Londra già prendono questo carattere, aspreggiano i ricchi. Nella Spagna, ove non erasi mai scritto di socialismo, esso mostrasi nei tumulti popoleschi; e la sollevazione di Lione, quella di giugno, la Marianna, le concioni d’Inghilterra, i tumulti di Barcellona.... sono quelle serie di fatti che spiegano trasformarsi l’idea in sentimento, ed in cui sembra suggerimento dell’istinto ciò che a pena un tempo antivedeva la ragione. Quando un tal fatto avverrà, in men che balena, crollerà il moderno edifizio sociale, e su le sue rovine si vedrà sorgere l’era della libera associazione.
A cotesti fatti sappiamo quale sarà la risposta dei conservatori. Noi speriamo, dicono essi, che tutti i rivolgimenti vengano, come per lo passato, soffocati nel sangue; noi non daremo campo alla rivoluzione di ergere il capo; noi cercheremo di comprimere ogni elatere dell’animo e vinceremo. Ed io rispondo: forse lo potrete; ma nell’aspra lotta le forze della società si logorano, e di vittoria in vittoria vi troverete inevitabilmente sotto il giogo del militare dispotismo, e quindi della decadenza e dissoluzione.
L’avvenire è già inesorabilmente stabilito: o libera associazione, o militare dispotismo. Quale di queste due condizioni sociali avrà il trionfo, è dubbio. Noi porremo fine a questo paragrafo paragonando le forze contrarie che debbono venire in lotta, e così manifesteremo una opinione, se non esatta, almeno probabile, rispetto al nostro avvenire. Se il popolo si riscuote, rovescia facilmente nobili, ricchi, preti che l’opprimono; questa imbelle schiera d’oppressori non può paragonarsi alla gagliarda aristocrazia feudale; essi verrebbero fugati dal solo fragore della plebe in corruccio. La sola forza che li protegge, la sola forza che si opponga alla rivoluzione, sono gli eserciti permanenti; ma quale è la loro natura? Possiamo paragonarli ai satelliti armati di cui si circondarono i tiranni della Magna Grecia, a’ pretoriani de’ romani imperatori, a’ venturieri del medio evo? No; pei moderni ufficiali la milizia è un mestiere, ma non lo è pei gregarii, per questi è un peso a cui con riluttanza si sottomettono. La disciplina adopera ogni meglio onde, quasi direi, affatturarli, e farne un sostegno alla tirannide, di cui i soldati sono le vittime più che le altre tormentate, ma non cessano di esser popolo, dal cui seno sono svelti a forza, e sempre agognano farvi ritorno. Perchè dunque credere che il fascino, l’incanto che li aggioga al dispotismo, non possa cadere, nè possa sorgere in essi la speranza di un migliore avvenire da conquistarsi non già al prezzo di una battaglia, ma solamente rifiutandosi di combattere contro i proprii concittadini ed amici? Chi più del semplice soldato deve desiderare un miglioramento nelle condizioni della plebe? Egli non è che plebe. Inoltre quell’amor proprio di corpo in cui risiede tutta la forza dei moderni eserciti è eziandio efficacissimo conduttore d’ogni nuova idea; un solo, in quei difficili momenti, in cui gli spiriti esaltati ondeggiano nell’incertezza, momenti nelle guerre civili comunissimi, un solo basterebbe per trascinare col suo esempio un reggimento intero, ed un reggimento, un esercito. Aggiungi che la polvere da fuoco ha reso facilissimo l’armeggiare; ha diroccata le torri dei feudatarii; ha sfondata la loro corazza: ha uguagliato il povero al ricco, il forte al debole; ha reso impossibile alle soldatesche sostenersi in una città, in cui i cittadini padroni degli edifizi son decisi a combattere; e finalmente il vantaggio al numero sul valore pare che abbia favorevolmente decisa la causa della umanità.
Concludiamo: la moderna società trovasi in quel punto fatale d’onde le antiche hanno rapidamente declinato. Ma facendo qualche considerazione sulle condizioni di quelle, vi osserviamo una grande differenza in confronto delle attuali. Il popolo è misero come l’antico, ma non come quello parteggiato da’ ricchi e legato alle loro persone; il prestigio di cui godevano gli oppressori più non esiste; le questioni sulle riforme, vaste, nette, non vaghe ed oscure come le antiche — esse dall’astrazione di pochi cominciano già a diventare idee pratiche, sentimento di molti; facili gli armeggiamenti, la trasformazione del cittadino in guerriero facilissima, prontissima; per nemici i soli eserciti permanenti, popolo anch’essi; e però può sperarsi che la società non declini, ma ascenda all’era della libera associazione, scorrendo così un’orbita più vasta di quella percorsa dai popoli che ci hanno preceduto.
IV. — Discorremmo come i varii rivolgimenti trasformino la società, ed illuminati da fatti delle moderne condizioni e relazioni degli uomini, abbiamo sospinto lo sguardo nell’avvenire. La religione fra coteste vicende molto opera, ma pochissimo le modifica; quindi preferiremo per semplicità separatamente discorrerne.
La religione è un effetto dell’ignoranza e del terrore; l’uomo deifica ogni forza ignota che lo spaventa, e personifica coteste forze dando loro le proprie forme, le proprie passioni; quindi mutano i costumi, e gli attributi de’ Dei al cangiar de’ costumi dei popoli.
I primi numi furono i reggitori di quelle forze che la natura manifesta nel suo tremendo corruccio, e cotesti numi così possenti la sconvolgevano, al credere di stupidi ed attoniti mortali, per muover guerra all’uomo. Di qui la credenza di averli offesi, il desiderio di placarli, e siccome la sola vendetta accheta l’uomo sdegnato, per placare gli Dei offrivano loro la vita dell’offensore, ed il culto manifestavasi con gli umani sacrifizii. Isolati gli uomini, ogni uno ebbe i propri Dei, quindi gli Dei penati. Raccolti in città, surse il pubblico culto, come surse la pubblica opinione, il pubblico costume.
I popoli si mansuefecero, si assottigliarono le menti, e la religione cangiò! L’agricolo e placido Etiope adorò le costellazioni, che annunziavano le stagioni avverse o propizie ai suoi campi ed il dilagare dei fiumi fecondatori; le nominò con simboli conformi alle sue idee, ed adorò la Fede, la Pace, la Guerra... Infine coll’ingentilirsi dei costumi i sacrifizii umani cessarono. Nell’assottigliarsi della religione surse la Greca e l’Italica filosofia la quale era in opposizione, come ogni filosofia, coi principii religiosi. Gli Dei dei Greci e dei Romani non erano gli arbitri del destino degli uomini, ma di aiuto efficacissimo, se propizii alle loro imprese, nemici terribili, se irati; al disopra di essi eravi l’immutabile destino, alle cui leggi sottostavano Dii, e mortali. La filosofia naturalmente concentrò tutti i suoi studii su questa forza, su questa legge suprema, e riconoscendo la frivolezza degli altri simboli, l’assurdità della numerosa turba di Dei, li dichiarò falsi, ed altro non riconobbe che questa potenza superiore, che fu l’unico Dio, le cui leggi essendo eminentemente giuste, e però immutabili, distruggono qualunque culto, qualunque relazione tra Dio e gli uomini, e così, come era naturale, la filosofia stabiliva l’Ateismo.
II riconoscere una legge suprema giusta e fatale regolatrice dei destini degli uomini, era idea che poteva allignare solamente fra un popolo puro e conscio della propria dignità, ma la buona semente fu sparsa su cattivo terreno, il degradato popolo del cadente impero; popolo avvilito, popolo schiavo, che le miserie avevano ridotto quasi nello stato medesimo del selvaggio, atterrito dalla sconvolta natura, venne naturalmente dal proprio scetticismo condotto a rimettere le sue sorti nelle mani di quest’unico Dio, e ne fece il vendicatore degli oppressi, l’arbitro degli umani destini; e siccome i popoli credonsi fatti ad immagine sua, così gli attributi di esso furono i loro, l’abbiettezza, l’umiltà, la pazienza, l’indifferenza per le cose terrene. Il culto onde adorarlo, i misteri, i riti li trassero dagli Orientali, quanto i Romani di quell’epoca schiavi ed indolenti. Intanto le solitudini degli animi e degli interessi, l’egoismo umano, volto solo all’utile privato: questo in diretta contraddizione con l’utile pubblico, produsse naturalmente la reazione negli animi degli scrittori, i quali come vogliono i correttori de’ costumi, senza comprendere che que’ vizii erano l’effetto dello sfacelo in cui andava la società colle istituzioni che la reggevano, credettero porvi rimedio predicando contro di essi ed opponendovi a bilanciarli massime di fratellanza ed abnegazione; e così da questa morale predicata, impraticabile, e dalla teologia orientale nacque il Cristianesimo, le cui regole e massime mostrano benissimo che sursero fra un popolo eccessivamente degradato ed in balìa di uno sfrenato egoismo.
Quindi giustamente Hegel dichiara la modestia cristiana nel sapere il grado supremo dell’immoralità. Immorali e contraddittorie alla natura umana dovevano essere tali massime perchè surte fra un popolo in cui ogni elatere dell’anima era spento, e predicate in contraddizione alla realtà dei fatti ch’erano effetti delle immutabili leggi di natura. Gli uomini deïficati formarono, ad imitazione del paganesimo, la turba dei Dii minori, che, come gli antichi, presiedettero a tutte le operazioni della vita, a tutti i fenomeni della natura. Alcune madonne, alcuni santi con attributi speciali, gli amuleti, le reliquie, specie di feticci, si surrogavano agli dei penati, ai lari; e così con diversi principii e nomi, ma quasi con le stesse forme, alla religione di un popolo giovane e fiorente, si sostituì quella che convenivasi ad un popolo degradato e corrotto.
Gli Dei antichi erano eroi, perchè eroico il popolo che li adorava: quelli dei cristiani, eran martiri, perchè schiavi ed oppressi gli adoratori. Avvezzi gli antichi a vedere il trionfo ed a rispettare il giusto, lo riguardavano come legge immutabile a cui sottostavano dei, e uomini; i cristiani, per contro, che la miseria aveva sospinti allo scetticismo, ne perdettero ogni idea, e deïficarono l’arbitrio, abbandonando i destini dell’umanità in balìa d’un Dio, secondo la preghiera degli uomini mutabile, e così al padrone che si creavano nel Cielo davano gli attributi medesimi che avevano i loro padroni sulla terra. La morale degli antichi risultata dall’azione era pratica, e però d’accordo con l’umana natura; quella dei cristiani impraticabile, perchè volta a frenare le sue leggi.
La nuova religione, umile in prima, si propagò strisciando fra i potenti, ma, divenuta padrona della forza, mostrossi oltre ogni credere feroce e codarda. Inorridiscono i moderni in pensando a’ terribili riti druidici ed agli umani sagrifizii degli antichi; non conoscono, tanto da’ pregiudizii è oscurato il loro intelletto, quanto più atroci e codardi sono gli assassinii del cristianesimo commessi nei tetri recessi dell’inquisizione.
Coronata di fiori, resa ebbra dallo stesso sentimento religioso, alla splendida luce del sole, fra devota e festosa moltitudine, invitavasi la vittima degli antichi, la cui vita, in men che balena, veniva spenta dal colpo che vibrava il destro sacerdote.
Carica di catene, estenuata dalla fame, sotto oscure e solitarie volte de’ sotterranei, circondata da carnefici, non già addestrati a recar pronta la morte, ma raffinati nel lento incrudelire, frusto a frusto consumavano fra tormenti atrocissimi la vittima dei cristiani.
Ne’ sacrifizii degli antichi l’aria risuonava dei canti dell’inneggiante e devoto popolo, ed era profumata dalle nuvole di fumo che s’innalzano dai brucianti incensi. Fra cristiani invece, veniva percossa dalle strida acutissime della vittima, ed appestata dal lezzo insopportabile di carni lacerate ed arse, E quindi i principii, i misteri, gli attributi degli dei, i riti, i sacrifizii, tutto insomma rivela un popolo generoso, e nel cristianesimo un popolo codardo e servo.
Fin qui della religione.
Ora diremo de’ sacerdoti. Ogni eroe fu sommo sacerdote nella propria famiglia e fra i suoi clienti. Formati i vichi, i paghi, le città, la concione dei forti, spesso non potendo occuparsi delle cose divine concernenti il pubblico culto, delegò altri a compiere tali ufficii, ma costoro con tali facoltà acquistarono ben presto un grande ascendente sulla credula moltitudine, e l’aristocrazia si vide osteggiata, contrappesata dalla teocrazia; onde la lotta fra queste due caste, che si disputavano la sovranità. Uno dei fatti più antichi, che ci rammenta questa lotta accanita, è l’esterminio che Nob fece d’Achimelech con altri ottantacinque sacerdoti. E le mille volte presso i celti incalzati dal fulmine, brando de’ prodi aristocratici, i tremanti sacerdoti dovettero riparare nelle caverne.
In Italia l’aristocrazia prevalse presso i Magno-Greci come presso i Romani, i Numi obbedivano alla suprema podestà dello Stato.
Le medesime vicende si riscontrano nel cristianismo. Surto in uno stato già costituito, fu al principio indipendente dal governo. Come fra i vichi ed i paghi della primitiva barbarie il capo era sommo sacerdote, così ogni villaggio, ogni città de’ primi cristiani elesse un cittadino a tale ufficio, il vescovo. In tal guisa cominciò la teocrazia, la quale, crescendo il suo potere, si rinserrò in una casta e si attribuì que’ diritti che ad essi venivano dal popolo ed erano inerenti al popolo.
La lotta con l’aristocrazia non tardò a dichiararsi; quindi i guelfi ed i ghibellini. La spada vinse il prete fra moderni, ove il reggimento è nelle mani di uomini nè codardi, nè devoti; se non di diritto, di fatto il pergamo è soggetto a chi impera; i miracoli, le preghiere sono ai comandi del trono. Cerchiamo ora di scorgere quale sia l’avvenire a cui accenna la religione. Vedemmo come essa ha seguito i destini de’ popoli e sia conforme ai loro costumi.
In quella de’ selvaggi sta impresso il terrore di cui è figlia, e il loro ingentilirsi ne rammorbidisce gradatamente, i troppo duri contorni; la religione di una società fiorente è quale si conviene ad un popolo di eroi, ed è sempre in perfetto accordo con l’utile pubblico, come quella nata fra uomini dediti al bene ed alla grandezza della patria.
Nella decadenza delle società poi si riscontrano in essa le contraddizioni e la viltà d’un popolo degradato, e, cercando rapire l’uomo alle cure di un mondo in cui soffre con la promessa di un futuro ed immaginario godimento, deve sempre trovarsi in opposizione con l’utile pubblico.
Dunque, affinchè una nuova religione potesse sorgere, sarebbe indispensabile che un cataclisma confondesse la nostra mente, ne cancellasse ogni tradizione, e riproducesse in noi la meraviglia stessa, lo stesso terrore che i selvaggi sentirono al rombar del tuono. O pure è indispensabile che la corruzione e la miseria, comprimendo affatto l’elatere di nostra vita ci prostrino talmente che, disperando delle proprie forze, ci costringano ad invocare potenze imaginarie; non v’è che l’uomo atterrito e degradato che riponga le proprie sorti nelle mani di Dio. Nel primo caso si riprodurrebbero le primitive religioni con nomi diversi perchè spontanee sono quelle tradizioni. Nel secondo, esistendo ancora una religione surta in simili condizioni non potrebbe che riprodursi, rifiorire la medesima. Quindi se la società moderna declina risorgerà il Cristianesimo e raggiungerà nuovo splendore con rifiorire il cattolicismo, stato di sua perfezione; e viceversa, se questa religione perde il suo prestigio è indizio che la società si avvicina al suo risorgimento. Apriamo l’anima alla speranza, esso non dovrebbe esser lontano. Ma quale sarà la religione della società rigenerata? È questa l’ultima domanda a cui ci faremo a rispondere. La religione è fondata su di un’idea di podestà suprema, di dipendenza, senza della quale non potrebbe esistere.
Senza preghiere, senza credenze, senza culto, senza autorità non v’è religione. Dunque sono indispensabili i sacerdoti che parlano in nome degli dei, che predicano la virtù che gli dei richieggono. È egli mai possibile che ciò avvenga? In una società la quale tende verso la libera associazione e l’eguaglianza, ove ogni gerarchia sarà abolita, potrà mai allignare l’idea di dipendenza da una somma sapienza? Chi oserà dirsi delegato da Dio a predicare la virtù? Chi nelle presenti condizioni può farlo senza essere deriso? Il popolo, di Mazzini, sarà il solo interprete di Dio; ma in simile caso Dio che cosa diverrà? I suoi voleri saranno quelli del popolo nè potranno essere differenti, imperocché per esprimerli sarebbe d’uopo d’interpreti che non fossero popolo, quindi Dio diventa un vano nome, e non altro. Se poi, come soggiunge lo stesso Mazzini, Dio è la legge, allora fa d’uopo dichiarare di quale legge parlasi: se di una legge naturale, allora essa debbe assolutamente esistere nel popolo, quindi Dio sparisce, Dio è il popolo. Se poi questa legge è differente da quelle di natura, sarà indispensabile un rivelatore, ma chi l’oserà? Ognuno al giorno d’oggi potrebbe dire: Italiani! ascoltatemi! io vi dirò le migliori leggi possibili, ma niuno avrà tanto ardire, o sarà così stolto d’aggiungervi: esse mi sono state rivelate da Dio!
La religione non è, come asseriscono alcuni, il desiderio, il bisogno di venire alla conoscenza dell’assoluto; la religione è un sentimento di debolezza che rendeci creatori ed adoratori di potenze sovrumane, e quando la ragione dimostra che queste forze non esistono, o almeno non impongono doveri, nè accordano premii, nè infliggono castighi, nè avvi mezzo come placarle, e renderle a noi propizie, la religione più non esiste. Dicono alcuni: il simbolo della nuova religione sarà l’umanità, la ragione, la libertà. Ma coteste idee non essendo nè mistiche, nè sovrumane, non hanno in sè alcun sentimento religioso. Ma, senza andarci ravvolgendo in inutile giro di parole, domandiamo a costoro se nella nuova società a cui eglino medesimi accennano vi potrà essere un’idea mistica che ne modifichi la costituzione ed i costumi degli uomini. La risposta non può essere che negativa, quindi la società rigenerata dovrà essere indubitatamente irreligiosa.
Chiamare religione e deismo l’aspirazione alla conoscenza dell’infinito è un’improprietà di linguaggio, è oscurare le nuove idee con voci antiche destinate ad esprimere tutt’altro sentimento. Non ammettere che queste aspirazioni, dichiarare ogni simbolo di Dio assurdo, negargli ogni ingerenza nella vita dell’uomo altro non è che irreligione, ateismo.
In tutte le religioni sino ad ora esistite la fede ha creduto alla certezza e verità obbiettiva della parte sovrumana. La ragione altro non aveva fatto che distruggere un simbolo e sostituirne un altro accettato come verissimo. Ma oggi siamo trascorsi più innanzi: studiando sul passato e scorgendo una successione di simboli religiosi, ogni uno a sua volta dichiarato falso, si è dedotto che tutti erano egualmente bugiardi, che tale è il presente, che tale sarebbe un nuovo simbolo che ad esso si sostituisse. Dunque la nuova fede qual'è? Il non aver fede in nessun simbolo perchè chimere della nostra immaginazione ; ovvero, la nuova fede è l’irreligione. Tutti i riformatori, tutti gli apostoli del progresso sono irreligiosi ed atei, ma tutti non vogliono accettare questa conseguenza della loro dialettica e si dichiarano con enfasi religiosi e deisti. Per contro non tutti sono socialisti, ma tutti, comechè professando dottrine opposte al socialismo si compiacciono dirsi tali, e perchè? La ragione è evidente: l’irreligione è già sentimento; quindi tutti la professano; ma sono riluttanti a confessarlo; il socialismo riguardasi ancora dottrina, e tutti cercano farne pompa senza comprenderlo o approvarlo. Un’altra ragione per cui la religione si dichiara indispensabile è che la storia la registra come un fatto universale e costante. Ma questa ragione non dovrebbe avere alcun peso per coloro che credono al progresso indefinito, imperocchè tale credenza non può ammettere che una qualsiasi istituzione debba esistere per la sola ragione che ha sempre esistito; anzi la dottrina del progresso indefinito stabilisce il contrario. La religione ha sempre esistito imperocchè tutti i popoli della terra hanno percorso sino ad ora la medesima orbita, sono soggiaciuti alle medesime vicende. Gli orientali, gli etruschi, i magno-greci, i romani, i moderni tutti, partendo o dallo stato selvaggio o dalla barbarie ricorsa, hanno raggiunto le medesime condizioni. Al termine poi di questo ciclo sociale percorso da tutti i popoli del mondo, si è accennato ad una legge di fraternità ed eguaglianza, quasi sintesi dell’idea sociale: vi accennarono le dottrine di Zoroastro e di Confucio, vi accennò Platone, vi accennò il cristianesimo, vi aspirano più recisamente i moderni. Quei popoli decaddero, nè poterono raggiungere questo nuovo stato: noi, raggiungendolo, varcheremo un punto che nessun popolo ha varcato, quindi niuna delle istituzioni passate o presenti ci può esser norma ad indovinare le future. L’irreligione sarà nuova, come è nuovo il socialismo.
Daremo fine a questo capitolo richiamando l’attenzione del lettore su di un fatto da cui moltissimi sono tratti in un grossolano errore.
Quelle aspirazioni alla fratellanza, che abbiamo scorto in tutte le società che cominciavano a dissolversi, la comunità de’ beni predicata nel vangelo, ha lasciato credere quasi a tutti che quelle antiche idee fossero i rudimenti del moderno socialismo: ma quest’aspirazione ad un migliore avvenire che sentiva un popolo avvilito, un popolo in cui era spenta ogni energia, era conseguenza delle condizioni di quella società, che doveva o progredire o decadere. Ma essa non fu che una semplice aspirazione; le massime che prevalsero furono quelle dell’umiltà, dell’indifferenza alle cose terrene de’ cristiani, effetto di loro degradazione e causa che ne accelerò la caduta; una tale aspirazione fu il crepuscolo d’un tramonto, o piuttosto fu l’alba di nuovo giorno.
L’avvenire immaginato da’ cristiani in tale aspirazione sarebbe stato la trasformazione del mondo in un convento. Il fanatismo condusse que’ popoli al martirio, ma non potette elevarli alla battaglia. Per contro fra le dottrine de’ moderni socialisti, fra le massime ricevute, non avvene alcuna che dissolva od avvilisca; gli uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevole aiuto, lavorando per acquistare maggior prosperità e per combattere; l’aspirazione del socialismo non è quella di ascendere in cielo, ma di godere sulla terra. La differenza che passa fra esso ed il vangelo è la stessa che si riscontra fra la rigogliosa vita d’un corpo giovane, ed il rantolo di un moribondo.
- ↑ Se tale fatto è una legge che si riscontra nell’ordine della natura, però immutabile, è un fatto altresì che questa opinione, questi costumi, questa lingua mondiale non sarà nè tedesca, nè francese, nè inglese, nè italiana. Supporre che il mondo abbia a parlare un giorno o francese, o tedesco, vale disconoscere l’origine delle lingue, e per stabilire la lingua da parlarsi universalmente, e da popoli che non balbettino gerghi, ma favelle illustrate da sterminate elaborazioni, e che narrano un passato ricco di gloriose vicende, e potentissime tradizioni, non varrebbero tutti i decreti del mondo. La lingua studiata, la lingua dei dotti, soggiace sempre alla preponderanza dei dialetti, e la lingua, come i costumi mondiali, sorgeranno dal rimescolamento sociale senza che nessuno degli elementi che ora esistono prevalga; la prevalenza suppone conquista, stato antirivoluzionario, violento, e però passaggiero. Si parlò forse francese in Italia all’epoca che questi stranieri la conquistarono? No; corruppesi la nostra favella, e se il sentimento nazionale non l’avesse ritornata alla sua purezza, gli Italiani non avrebbero più parlato italiano, ma neppure avrebbero parlato francese... Da tutte le moderne lingue dovrà sorgere un dialetto prima plebeo, poi illustrato da poeti, dagli scrittori, per diventare in ultimo lingua mondiale. Dire che il mondo parlerà francese significa rinnegare assolutamente la rivoluzione per la smania d’infrancesare il globo.