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sibili, sotto ogni forma, la schiavitù, ed assicura l’indipendenza dell’uomo, o almeno ne libra su giusta lance i rapporti? Ogni uno che vuol manifestare francamente la propria opinione, ogni uno che studia la Storia, che osserva il presente, risponderà: No, l’apogèo della civiltà romana, il secolo d’Augusto fu il perigèo della libertà; i rozzi italiani dell’undecimo secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del civilissimo secolo di Lorenzo De-Medici; i Francesi dello splendido secolo di Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi, adunque, il continuato miglioramento delle umane condizioni?

Quale sarebbe il tipo ideale d’una società perfetta?

Quella in cui ciascuno fosse nel pieno godimento dei proprii diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità o d’umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l’eguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d’accordo con la ragione; e in cui niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gl’impulsi di quello. In tal caso l’uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza, e però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi più lontano da questo ideale, il mercante, e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, o lo stesso italiano dell’XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo paragone del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli del vantato progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano.

Libera la mente da idee preconcette o da sistemi faremo ricerca di questa legge del progresso, e del modo come esso opera.