cole tutto l’utile privato accordavasi con l’utile pubblico; in queste in cui tutto era industria e commercio, quello era in opposizione con questo, e vinto il nemico che li aveva costretti ad unirsi e concorrere al medesimo scopo, l’amor di patria cessò di fatto e fuvvi solitudine di pensieri e d’interesse. Le ricchezze degli antichi popoli italiani che abitavano i monti non poterono crescere che lentamente e per mezzo delle conquiste; ai comuni risorti invece che non aveano rivali nel resto d’Europa allora barbara, le ricchezze, come presso i Magno-Greci, crebbero rapidamente. Al XIII secolo le grandi fortune erano ammassate, la plebe compra, le città si dividevano in opulenti e mendiche; al XV secolo è riprodotto il medesimo fatto osservato presso i Magno-Greci ed i Romani. Alla cima della società un’opulenta e però molle e codarda oligarchia che sempre restringevasi, alla base plebe vilissima; all’oligarchia si viene al dispotismo militare dei tirannelli. Sintomi delle rivoluzioni si manifestano; i tumulti si succedono, ma tutti mancano di un concetto dirigente. In quelle società parteggiate dall’oro, l’istinto altro non suggeriva che surrogare una tirannide ad un’altra; le forze si logorarono, e la voragine spalancata fra ricchi e poveri inghiottiva libertà, indipendenza, arti, industria, commercio, tutto insomma. Mentre l’Italia per le mal distribuite ricchezze perdeva ogni nerbo ed imputridiva nei vizii, la sua opulenza, la sua civiltà soverchiamente superiore a quella delle nazioni che l’accerchiavano, dando effetto a quella fatale legge per cui la prosperità tende continuamente a spandersi su tutti i popoli, produsse l’irruzione in Italia di quelle nazioni. L’Italia dei Romani era stata mirata dai barbari come lo schiavo mira il padrone; ora i semibarbari d’oltremonte la guatarono come il discepolo il maestro, come il mendico guarda l’agiato; la preda era facile e ricca,