Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/II1
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Capitolo I - Montecuccoli e la regina di Svezia
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PARTE SECONDA
Capitolo I
La pace di Vestfalia, se pose fine ad una condizione di cose divenuta ormai intollerabile, non poteva però apportare alla casa d’Austria e alla Germania, che in gran parte avevano i paesi loro ridotti allo stremo, quel sollievo che dalla cessazione di un male momentaneo deriva, perché quelli che avevano funestato quelle terre, lasciavano dietro di sé una lunga sequela di sventure. La politica pertanto della corte imperiale risentivasi della debolezza in che la Germania e gli stati austriaci erano rimasti; e questa tanto maggiormente apparir doveva, se conforme a verità era ciò che al senato veneto il nunzio Grimani riferiva, affermando che nel consiglio aulico, nel segreto e in quello di guerra l’imperatore, “eccettuato uno o due, non ha uomini”. Tra questi ultimi senza dubbio il Grimani avrà inteso di porre il Trautmansdorf, ministro già da noi nominato, il quale trattava a quel tempo circa le condizioni della pace, la cui conclusione, dopo le molte difficoltà superate, tornò a grande onore di lui .
Dalla decadenza dell’autorità imperiale, e dalle altre conseguenze dell’ultima guerra, derivava poi che dovesse l’imperatore diffidar de’ suoi vicini, i principi tedeschi cioè, che avevano combattuto contro di lui, e i francesi riesciti per quella pace a porre, con pericolo della Germania, fermo piede sulle sponde del Reno. Ed erano i francesi quelli che a menomare il potere dell’imperatore in Germania maggiormente si erano adoperati, influendo sui principali membri della dieta, e specialmente sull’elettore di Baviera, presso del quale fu a tal uopo mandato un tal Bervaux, gesuita. Sciolti a norma de’ nuovi patti i principi elettori dalla soggezione all’imperatore, liberi di far leghe cogli stranieri, purché non a danno di lui, non a torto poté scrivere allora il nunzio veneto al senato: “L’autorità dell’imperatore è abolita nell’impero”. Lo sfasciarsi di questo vetusto edificio, del quale invero dopo i casi dell’ultima guerra più non rimaneva che l’esterna apparenza, fece dire al Menzel: doversi reputare che le miserie di quella guerra vennero, se possibil’era, superate dalle vergogne della pace. Ma questa, perché necessaria, tornò opportuna, benché non fosse universale. Dopo la cessazione delle ostilità, Raimondo era restato coll’esercito in Boemia, e abbiamo una lettera che il 27 di dicembre indirizzava al duca di Modena da Praga . Colà si occupava egli nel definire coi commissarii svedesi l’indennità dovuta pel mantenimento delle truppe di quella nazione insino all’eseguimento dei patti della pace non ancora convenuti, nella Boemia, in Slesia e in Moravia, e che fu poi stabilita in 42.000 fiorini mensili, secondo egli stesso l’otto di gennaio del 1649 scriveva al principe Mattia di Toscana. Chiamato dal Piccolomini a Budweiss, perché nel frattempo quel generale aveva dovuto andare a Vienna, colà lo raggiunse. La parte presa dal Piccolomini nelle trattazioni diplomatiche e militari che condussero poi alla pace conclusa nel 1650, fu l’ultimo de’ tanti servigi da lui resi alla casa d’Austria e all’impero germanico, dalla dieta del quale veniva allora rimunerato col titolo di principe dell’impero. Ma cotesto atto di gratitudine sarebbe venuto dall’imperatore secondo scrisse Montecuccoli, che aggiungeva avere in cotal circostanza gli stati (provinciali) dell’Austria fatto dono al Piccolomini di una casa franca (esente da imposizioni) in Vienna. Congiuntosi egli l’anno seguente (1651) in matrimonio con Maria Benigna, figlia di quel duca di Lauenburg che falsamente fu detto avesse ucciso il re Gustavo Adolfo, e non offerendoglisi più occasione di esercitarsi in guerra, tranquillamente passò gli ultimi anni del viver suo ora a Praga, ora a Vienna, o al suo castello feudale di Naschod, dove ancora si veggono le pitture ch’ei fece farvi da Luca Kranack e da altri artisti, i quali raffigurarono in esse alcune delle sue più gloriose imprese militari. Morì egli di soli 56 anni nel 1656, pianto dalla sua vedova la quale, quantunque non contasse più che 21 anno di età, serbandosi fedele alla memoria di lui, non mai passò a seconde nozze . Agevol cosa è il reputare che la notizia della morte di quel gran capitano sarà riescita dolorosa a Raimondo che l’ebbe ad amorevol capo in più guerre. Un’ulteriore dimostrazione di amicizia avevagli porta Piccolomini nel luglio del 1650, chiamandolo a prender parte alle feste che in Norimberga accompagnarono la proclamazione della pace. In questa non fu compresa la Spagna, per la quale ne’ Paesi Bassi continuò a combattere contro i francesi l’arciduca Leopoldo d’Austria: e sotto di lui militava quel conte Andrea Montecuccoli che più addietro ricordammo. Il 20 di marzo del 1649 venne eletto dall’arciduca mastro di campo della cavalleria, e fu più tardi governatore di Armentiers. Seco era Andrea suo figlio, nel quale e ne’ fratelli Federico, Carlo e Girolamo si estinse quella linea de’ Montecuccoli ch’ebbe in feudo Montecenere, passato poi a Ferrante, e poscia a Leopoldo figlio del generale Raimondo. In Italia, contro gli spagnoli, rimaneva a capo dell’esercito francese il duca di Modena; il quale in breve, per le guerre civili che fervevano in Francia, vedutisi scemare i soldati, si trovò astretto ad accordarsi colla Spagna, certo con soddisfazione de’ popoli suoi, de’ quali (e fra questi degli uomini di Montecuccolo) ci rimangono le rimostranze che allora facevano pei gravi balzelli ond’erano gravati. Ebbe allora incarico Raimondo di partecipare all’imperatore che, “cessate le gelosie dalle quali ebbe impulso la guerra”, esso duca s’era pacificato col re di Spagna. Doveva al tempo medesimo porre Raimondo in buon aspetto alla corte di Vienna le cose di lui, significando che sempre, durante la guerra, aveva mantenuto fedelmente quelle convenzioni che l’univano all’impero. Il duca gli mandava una lettera diretta a quel monarca non però suggellata, acciò ne prendesse cognizione. Rispondeva esso il 26 di marzo da Presburgo ove trovavasi: aver fatto comprendere a S. M. l’imperatore (che era allora appunto in Ungheria), i motivi che già avevano indotto esso duca a prendere le armi contro la Spagna, essere stati “ombre e sospetti per le ragioni di Correggio”. Intorno a codesto principato fece allora il duca Francesco un accordo con don Maurizio da Correggio che i diritti suoi gli cedeva, e spedì a Vienna per ottenergli l’investitura don Giovanni Parenti benedettino, del quale ci rimane la corrispondenza nell’archivio di stato già degli Estensi; e da questa si ritrae che, secondo eragli stato commesso, nelle trattative coi ministri si attenne fedelmente ai consigli di Raimondo, dell’opera del quale all’opportunità si valeva. Intorno a codesto negozio dell’investitura corrispondeva poi il duca anche col Montecuccoli, al quale era stato consegnato un esemplare della cifra segreta. E perché era riescito al duca di ottenere dai ministri spagnoli una lettera pel marchese di Castelrodrigo, ambasciatore di Spagna a Vienna, nella quale a lui si ordinava di concorrere alla spedizione di quella investitura, la mandò il duca al Montecuccoli a sigillo levato, acciò la leggesse innanzi di consegnarla. Se non che non rispose il superbo marchese, avverso agli Estensi e onnipotente allora alla corte viennese, sostenuto, come sapevasi, dal ministro Auersperg ch’era tutta cosa sua, entrambi più tardi umiliati dall’imperator Leopoldo, secondo narra in Nani nunzio veneto. E neppure desisté dall’opposizione sua, avvalorata forse da segreti contrordini della sua corte. Le quali contrarietà furono stimolo al duca per ritornare, secondo diremo, all’alleanza di Francia. Durante le trattative, accadde che a quel monaco venisse a mancare il denaro; e tosto Raimondo ad offerirgli un prestito di cinque mila talleri: che se questa somma, per essergli pervenuto denaro da Modena, non bisognò più per allora al Parenti, guari non tardò poi esso, per nuove spese ordinate dal duca, ad accettare tremila talleri. Né in ciò solo, ma più nel fornirgli ottimi consigli circa lo spinoso affare che trattar doveva, tornò proficua al Parenti l’opera del Montecuccoli, come egli stesso nelle sue lettere affermava. Nell’agosto del medesimo anno 1649 partecipava il duca a Raimondo la morte della propria moglie Vittoria Farnese; e il 21 di quel mese sappiamo che questi era ad Ebersdorf presso la corte imperiale, colà ritrattasi dopo la morte dell’imperatrice, da Raimondo annunziata al principe Mattia de’ Medici con lettera del 14 di agosto, e dove a lui e al cardinale Harrach furono dal Torresini portate lettere del duca . Commetteva ancora esso duca al valoroso suo suddito, di dar opera acciò nelle lettere imperiali a lui si dessero que’ medesimo titoli che otteneva il duca di Mantova: di gran momento, come allora così in appresso nelle corti, e più forse nelle minori, era questa materia dei titoli e delle cerimonie. Ad Ebersdorf si trovava per avventura il Montecuccoli per prender parte alle discussioni, alle quali porgevano argomento le modificazioni da farsi nell’esercito che per la pace si veniva notabilmente diminuendo. Una sua lettera del 6 di settembre al duca di Modena accenna appunto che stavano per effettuarsi alcune disposizioni nell’esercito; con che gli veniva fatta facoltà di mandare a compimento il desiderio che allora aveva di visitare i Paesi Bassi, per dove lo disse infatti partito, con lettera del 13 di quel mese, il diplomatico Torresini . Gli fu compagno nel viaggio un altro valente italiano, il conte Enea Caprara, figlio di una sorella del general Piccolomini, e destinato pur esso, che contava allora 17 anni, a salire ai primi gradi della milizia, e la famiglia del quale doveva nel secolo successivo esser continuata da un Montecuccoli, da Francesco cioè, figlio del marchese Raimondo, che sposando Vittoria, ultima dei Caprara, ed assumendo il cognome di lei, si pose a stanza in Bologna . Racconta l’Huissen che, traversata l’Alemagna, andò Raimondo in Olanda, passando poscia nella Svezia; ma qui quel biografo unì senz’altro due viaggi di lui in un solo, assendoché in Svezia non andasse se non nel 1654, secondo diremo. Una compiacenza grande avrebbe invero provata, se gli fosse stato concesso di visitare allora la patria di que’ forti guerrieri che per sì lungo tempo aveva avuti a fronte, e di que’ generali che avevano destato l’ammirazione del mondo. E cresciuta sarebbegli la meraviglia nel trovare che piccola e non ricca era la nazione che, saputasi procacciare poderosi alleati, aveva potuto con vantaggio affrontare le congiunte forze di una gran parte dell’impero germanico, che uscì indebolito ed umiliato da que’ trent’anni di conflitti, laddove la Svezia vi si era accresciuta di territorii, e soprattutto di gloria. E avrebbe veduto affidate le sorti di quel paese ad una giovinetta che aspirava ad emulare, secondo poteva, le virtù del suo gran padre Gustavo Adolfo, e in sin d’allora si preparava alla famosa sua rinunzia al trono, alla quale faceva appunto in quell’anno preceder l’elezione del successore nella persona del palatino Carlo Gustavo. Ma per avventura, il non essersi ancora a quel tempo condotte a fine le trattative circa il modo di rendere stabile la pace convenuta, impedì a Raimondo di protrarre sin là il suo viaggio, pago intanto alla soddisfazione di rivedere in Olanda e in Fiandra i luoghi testimonii de’ suoi primi passi nel mestiere delle armi. Della dimora di lui in Brusselles, è ricordo in una lettera che il 19 di dicembre di là scriveva al principe Mattia, significandogli che al suo ritorno avrebbe atteso a procurargli per le truppe toscane qualcuno tra gli ufficiali che venivano licenziati. Che nonpertanto, o allora, o non guari appresso, entrasse egli in corrispondenza colla regina Cristina, io l’argomento da ciò che i biografi di lui raccontano, dell’averlo essa posto a parte del segreto suo disegno d’abdicare, il quale incominciò ad esser noto in Svezia nell’ottobre del 1651, allorché se ne aprì essa al senato che da ciò la dissuase. Mentre però credevasi che a questo più non pensasse, la persistenza sua in quel disegno ebbe essa a fare nel successivo anno manifesta ad Antonio Pimentell, andato ambasciatore della Spagna alla sua corte, e per mezzo di lui al suo re. E di questo veniva informato Raimondo dal ministro suo a Vienna (senza dubbio per ordine di lei), come scrisse egli stesso al duca di Modena. Ché se non aggiunse di aver avuto precedente cognizione del progetto che la regina andava meditando, e nel quale tuttavia persisteva, ben poté farlo per non tradire un segreto confidatogli, ristringendosi a riferire le cose comunicategli dal ministro svedese. Narra poi l’Arckenholtz, che il primo ad indovinare, quando ancora non era palese, ciò che stava Cristina progettando, fosse lo Chanut, in quel tempo ambasciatore della Francia presso di lei, e ne fu allora discorso tra essi: tanto deducesi da una lettera da lei indirizzatagli nel 1654 che Voltaire pubblicò nella sua storia di Luigi XIV, ove dice esser ella venuta allora a quella determinazione (di abdicare), dopo avervi pensato otto anni. “Sono almeno cinque” soggiungeva “ch’io v’ho comunicato questa risoluzione”. E intorno a codesto argomento avremo tra non guari a nuovamente intertenerci.
Era reduce a Vienna il Montecuccoli la notte precedente il 18 di febbraio del 1650, secondo che scriveva il Parenti, il quale lo stava ansiosamente aspettando per riprendere insieme con lui a trattare delle cose di Correggio, mandate innanzi nel frattempo tra esso Parenti ed il Torresini. Essendo poi occorso caso pel quale doveasi prestar giuramento, e non ritenendosi diplomaticamente per valido quello di lui perché monaco, di questo fu dato incarico a Raimondo, il quale rispose lo farebbe se gliene desse facoltà l’imperatore, che crediamo l’avrà concessa. Ma un altro più geloso affare a lui veniva, nel suo ritorno a Vienna, affidato dal suo sovrano naturale, quello di maritargli una delle sue figlie, Isabella cioè, che non contava ancora 15 anni di età, quella stessa che nella Parte prima avemmo occasione di ricordare. Due tra le diverse lettere nelle quali fu codesto negozio ventilato, mi accadde di vedere nell’archivio estense; ed in una di esse in cifra, del 23 di marzo del 1650, teneva parola il duca di due partiti, ai quali doveva avergli accennato Raimondo. Non opportuno all’uopo suo gli sembrava l’arciduca Sigismondo, uno de’ proposti, perché cadetto di famiglia, e perché ancora si supponeva che mirasse a sposare una Farnese; e quanto all’altro, che avrebbe senza più contentato il duca, ed era il figlio del palatino di Baviera, col quale corsero in effetto trattative ricordate dal Muratori, sospettava esso duca, potesse fidanzarsi ad una principessa di Savoia. La seconda lettera è in una minuta non firmata, e serve di commento a quella del duca, esponendo le qualità fisiche e morali della principessa, che vien detta “di statura conveniente che in breve potrà dirsi grande, di volto bellissima per aria e lineamenti e per una colorita bianchezza”. Lodati poi gli occhi e la bella disposizione del rimanente del corpo, soggiunge lo scrittore, che della qualità dell’anima, non potendo mai a bastanza encomiarle, si astiene dal tener parola. Ma nonostante un quadro così lusinghiero, né a quel tempo, né insino all’età sua di 29 anni, venne fatto a quella principessa di trovar marito. Sposò essa allora Ranuccio Farnese duca di Parma, e tre anni appresso morì di parto. Né miglior ventura due anni di poi incontrò Raimondo, di nuovo sollecitatore di matrimonii. Aveva egli trovato per servigio del duca di Modena un ingegnere di nome Nicola Blois; e il duca di ciò ringraziandolo, usciva a dire: essere venuto a sua conoscenza che l’imperatore Ferdinando fosse in desiderio di passare alle terze nozze, e che inclinerebbe a prendere in isposa una principessa italiana; e soggiungeva: “V. S. sa che in questa casa ce ne sono, e noi possiam dirle che non sono inferiori a qualunque altra”; i ritratti porrebbero in chiaro le doti delle persone, e pel rimanente esso duca “s’avanzerebbe a fare, per così dire, oltre il possibile”, e finiva dicendo: “ciò le basti”. Ma o non giungesse in tempo Raimondo a fare proposte, o non ne trovasse il modo, ovvero fossero nell’imperiale aspirante più modeste le pretensioni, avendo egli poi sposato una principessa di Neoburgo; Raimondo non poté neppure in questo far pago il desiderio del principe suo.
Rifacendoci ora all’epoca del ritorno del generale dall’Olanda, accenneremo ad una grave infermità che pose a repentaglio la vita di un giovane omonimo suo, figlio di Giulio Montecuccoli della linea di Polinago , che da suo zio Massimiliano come dicemmo, era stato a lui raccomandato quando dalla Fiandra passò a militare in Germania. Non ebbe tuttavia quell’infermità, che derivava da dolori colici o di renella, conseguenze funeste, essendo quel giovane vissuto insino al 1658. Egli stesso il generale sentì necessità di provvedere alla salute propria, usando le acque di Baden presso Vienna, nella qual città alcuna volta tornava per accudirvi ad affari che da Modena gli erano raccomandati. Si veniva intanto riformando l’esercito, più reggimenti licenziandosi: di quelli di cavalleria otto soli se ne ritennero, e tra questi annunziava il Parenti ch’esser doveva quello del Montecuccoli . Anche a lui pertanto, siccome agli altri generali, fu di un quarto diminuito lo stipendio, secondo che il 5 di novembre di quell’anno 1650 consigliava il Piccolomini. Gli venne però offerta a compenso la lucrosa carica di governatore della Boemia, con titolo di capitano generale di quel regno. Ed erano gli stessi boemi, secondo il Parenti racconta, che avevano pregato l’imperatore a preferirlo per quell’officio al Colloredo, al Conti e ad altri che lo chiedevano. Scriveva per altro venti giorni appresso il Parenti, non essere ancora ben risoluta l’andata del Montecuccoli in Boemia; e probabilmente declinò egli, usato com’era a vita operosa, quell’officio stanziale che non dubitiamo gli fosse allora offerto. In un elenco dei documenti dell’archivio della famiglia Montecuccoli Laderchi, trovo annoverata una patente imperiale del 10 di gennaio di quest’anno 1650 che conferiva a Raimondo il grado di maresciallo generale di fanteria e cavalleria, e mastro di campo di cavalleria; e ben mi duole non aver io veduta quella patente per poterne rettificare il titolo non ben riprodotto, e la data che non credo genuina, tanto più perché il 10 di gennaio Raimondo era tuttavia assente dagli stati imperiali. Agli altri generali che rimasero al servizio, fu dato, come si ha da lettera di Raimondo, qualche compenso per la diminuzione delle paghe. Erano concorsi a Vienna in tanto numero gli ufficiali per chiedervi sussidii, che l’imperatore, per trarsi d’impaccio, se n’andò alle caccie di Ebersdorf. La pace, del rimanente, aveva posti tutti in allegria. “Le caccie, scriveva Montecuccoli, le comedie e il giuoco fra le donne, sono addesso il passatempo di questo cielo: e so (così seguitava), che costì, a Firenze, si godono tutte queste cose in maggior perfezione, e con l’aggiunta di qualche altro più regolato divertimento”. In altra lettera diceva poi: “Il carnevale (in Vienna) va allegramente, domani si corre alla quintana di notte in maschera, dopo che si faranno giuocar molti fuochi d’artifizio, poi si fingeranno le nozze de’ villani, nelle quali concorreranno le principali dame e principali cavaglieri travestiti in abito contadinesco” (lettera del 2 di febbraio 1651).
Nel 1651 andava ministro estense a Vienna Niccolò Siri che, al pari del Parenti, faceva capo al Montecuccoli per quanto avea tratto agli affari del duca; e così un Pietro Panicali, più specialmente incaricato degli interminabili affari di Correggio. Di un assalto di catarro che colse Raimondo dopo una mascherata alla quale prese parte con dame e cavalieri della corte, fa menzione il Siri in una lettera del 25 di febbraio, annunziando poscia il 4 di marzo la guarigione di lui. In agosto lo diceva intervenuto ad un gran banchetto col quale l’imperatore festeggiava il felice parto della regina di Spagna. Trovavasi tuttavia in Vienna a quel tempo il Torresini da noi giù ricordato, che il 22 di luglio di quell’anno scriveva al duca di Modena, essere Raimondo per concludere matrimonio con una Kevenhüller, dama non men lodata di bellezza che di valore, vedova di un cavaliere del toson d’oro, che altissimi offici aveva sostenuti. Perché poi la cosa non avesse effetto, non mi fu dato scoprirlo, essendo questa or riferita l’unica notizia che sia venuta a mia cognizione.
Il 20 di gennaio del 1652 annunziava il Siri al duca Francesco la partenza di Raimondo per Modena, soggiungendo correr voce lo spedisse l’imperatore ad indagare le cagioni che avevano indotto esso duca ad andare a Firenze. Io stimo che quella voce non avesse fondamento; ma se mai alcunché di vero fosse stato in essa, potrebbesi supporre che la corte di Vienna, sempre tenera, e talora anche troppo, degli interessi degli spagnoli, dubitasse che a Firenze in danno di loro alcuna cosa si tramasse dai francesi. Di quell’andata del duca in Toscana trovo menzione nelle carte del Frignano, ov’è notato che in cotal circostanza passò per Montese.
Una lettera che Giovan Pietro Codebò scriveva da Venezia il 3 di febbraio del 1652, avvisava che colà trovavasi allora Raimondo, e che lo si diceva venuto per tener compagnia ad una brigata d’amici suoi che intraprendevano un viaggio per l’Italia; e vi era chi pensava aspirasse a prender servigio nelle truppe della repubblica: cosa invero che mai non sarà passata per la mente a quel generale. Lo scopo vero, e forse unico che in quel viaggio si proponeva Raimondo, non altro era, a giudicio mio, se non quello di rivedere la patria, i parenti, il duca Francesco, e i principi estensi coi quali aveva militato in Germania e in Italia, e ancora di godersi gli spassi del famoso carneval di Venezia. Al principe Mattia scriveva egli il 2 di marzo da Modena, che, lasciata Vienna da un mese e mezzo, le feste del carnevale di Venezia e quelle di Mantova lo avevano insino allora intrattenuto, ed accennava poscia al desiderio che aveva di visitare più tardi esso principe Mattia a Firenze. In Modena trovò che nella famiglia estense certa discordia ferveva allora, della quale alcuni cenni ci porgono due lettere di lui. In una del 7 di marzo, diretta al cardinal Rinaldo fratello del duca e ad Alfonso principe ereditario, dava conto di una visita da lui fatta al principe Borso d’Este già per noi nominato, il quale era a quel tempo al Finale, tenendosi lontano dalla corte, contro il parere della quale aveva sposato, dopo molto contrasto, Ippolita figlia naturale di suo fratello Luigi . Faceva conoscere Raimondo in quella lettera il colloquio avuto con Borso, che lamentava le mortificazioni patite da cinque anni senza lagnarsi, asserendo che l’astenersi dall’intervenire a corte, da non altro procedeva, se non da rispetto pel duca, secondo si espresse: ma che ben s’era egli mosso quando eravi stato occasione di seguitare in guerra il suo sovrano. Facil cosa, del rimanente, l’errare per cagion d’amore; ma non reputava di aver errato, e confidava che, calmati nel duca i primi moti dell’animo “avrebbe trattato lui e chi gli apparteneva (cioè la moglie) nel modo proprio della sua bontà”. Invitava poi esso Raimondo a porre l’opera sua per la riunione degli animi e pel ben comune della casa d’Este. All’effetto prodotto dalla lettera di Borso ed agli espedienti che certo il Montecuccoli avrà tentato per tor di mezzo cotali dissidii, io stimo s’abbia ad ascrivere l’invito che allora ricevette Borso, di prender parte a quella giostra della quale siamo per tener parola, dove combatté a fronte del giovane primogenito del duca. A questo allude altra lettera di Raimondo al cardinal d’Este, ov’è detto che “il principe Alfonso inviterà a campo aperto il principe Borso, che accetterà l’invito, sperando trovarvi le convenienze delle sue soddisfazioni”.
Mentre era in Modena Raimondo, vi pervenne l’annunzio del passaggio degli arciduchi del Tirolo, Ferdinando, Carlo, Francesco, Sigismondo ed Anna Medici, avviati per la Toscana. In ventitré giorni riescì al duca di allestire, coll’opera del valente poeta Graziani e degli architetti Avanzini, Vigarani ed altri, quello spettacoloso torneo di cui or dicevamo, al quale più nobili modenesi presero parte, e tra essi il Montecuccoli che a questa giostra accennava nella lettera del 2 di marzo ora citata, come ad un progetto non ancora maturato. Convennero allora a Modena, oltre gli arciduchi, il duca e la duchessa di Mantova, e due principi di Toscana parenti loro; i quali con isvariati divertimenti per una settimana furono intertenuti , finché nell’ultimo giorno di lor dimora in Modena, che fu il 14 di aprile, ebbe luogo quella giostra che per la magnificenza, e per la valentia di chi la dispose, e de’ cavalieri che vi presero parte, destò l’ammirazione di quanti ne furono spettatori. Quella festa d’armi, che importò al duca il dispendio, non lieve per quell’età, di 14 mila e 300 doppie d’Italia, era intitolata: “La gara delle Stagioni”, e fu descritta dal Graziani, e di recente nella Strenna modenese dell’anno 1844 da Giuseppe Campori. Ma se quella rappresentazione cavalleresca rimase a lungo gradito ricordo in molti di coloro che ad essa intervennero, un caso sventurato che vi accadde, lasciar doveva incancellabile dolore nell’animo di Raimondo. E il caso fu questo. Giostrava egli, nella prova che si fece del torneo, con un carissimo amico suo, Giovanni Maria Molza che forse gli era parente ; e o fosse, come accader può, che un qualche impeto del cavallo non gli lasciasse indirizzar bene la lancia, o che il colpo non venisse a tempo riparato, come egli si aspettava, avvenne che così gravemente restasse ferito il Molza nella gola, che in pochi giorni ne morì. Che dolore e che smarrimento d’animo provasse in que’ momenti il Montecuccoli, non saprebbesi dire a parole: e con che poca volontà, non potendosene esimere, prendesse poi parte a quel torneo mentre era moribondo l’amico suo, è più agevole l’immaginarlo che lo scriverlo. Giostrò egli nella squadra dei zefiri che aveva a capo il duca, la quale affrontò quella d’Ippolito Bentivoglio, trovandosi contro Raimondo Vincenzo Scaruffi: le armi usate in quella giostra furono stocco, lancia, zagaglia e pistola. Molto fu l’abilità de’ giostratori commendata così dai principi, come da quanti e cittadini e forestieri a quella festa intervennero. Sarà poi a credere che con singolare compiacimento avranno gli arciduchi risguardato a quello de’ giostratori che, generale dell’imperatore, sapevano già lodato per senno e per valore. Ma poco poteva egli allora nella condizion d’animo in che si trovava, attendere a dimostrazione qualsiasi d’onore che fatta gli venisse, profonda essendo l’impressione lasciatagli dal doloroso avvenimento da noi raccontato. A questo per avventura si deve, se egli, che la poca libertà dalla condizion sua concessagli soleva usare per rivedere la patria, in questa una sola volta, e di sfuggita, avesse poscia a ritornare. Che se di ciò fare mostrò, come diremo, vivo desiderio nel 1654, certo è a supporre che a questo principalmente lo spronasse il dovere di obbedire alle istanze che per averlo seco alla guerra gli faceva allora il duca Francesco. Due volte lo vedremo tornare ancora in Italia; ma quantunque invitato a passare per Modena, se una volta accettò l’invito, sembra, come dicevamo, che breve tempo vi si trattenesse: la qual cosa parrebbe dare aspetto di maggiore verosimiglianza a questa congettura. Quando poi il volgere degli anni aveva infievolito il ricordo di quella funesta giornata, quelli tra i principi estensi coi quali in maggiori relazioni ebbe a trovarsi, erano mancati alla vita, ed egli, involto in gravissime guerre, e con crescente il peso degli anni, più non ebbe agio di uscire, se non per le imprese sue militari, dagli stati imperiali.
A Vienna intanto, secondo Nicolò Siri scriveva, era corsa voce, per opera forse degli emuli suoi, ché molti ei ne ebbe, foss’egli rimasto ferito giostrando, ed altri invece asserivano ciò essere avvenuto nel volersi interporre per dividere due combattenti. E’ probabile che, dopo il doloroso accidente occorsogli, Raimondo dovesse bramare di allontanarsi da Modena: non mi è noto però il giorno della sua partenza. Venti giorni dopo quello della giostra era egli a Genova, e di là passar doveva a Roma , come Giuseppe degli Oddi, agente in quest’ultima città del cardinal d’Este, c’informa con una sua lettera in data dell’8 di maggio. In questa, rispondendo al cardinale che commesso gli aveva di offerire a Raimondo, poi che giungesse a Roma, un appartamento nel suo palazzo, diceva averlo già preparato e provveduto delle cose necessarie per poter trattarlo nel modo più conveniente; ma temeva esser prevenuto dall’ambasciator veneto, amicissimo di lui, il quale volendolo presso di sé, aveva di tal maniera disposto le cose, da venire avvisato da Genova quando foss’egli per partirne. E accadde infatti che a lui presentatosi l’Oddi appena lo seppe in Roma, intese che già aveva accettato l’invito di quel diplomatico, né altro poté fare se non offerirsi ai servigi di lui. Scrisse egli poi delle belle accoglienze che dal suo ospitatore riceveva Raimondo, al quale molti nobili veneti ei presentò, intralasciando ancora, per onorarlo, di andare coll’ambasciator di Francia a Tivoli secondo gli aveva promesso. Il non aver il cardinal d’Este offerto al Montecuccoli il suo palazzo di Roma fin da quando si trovò in Modena, potrebbe dar luogo a congetturare che o improvvisa ed anticipata fosse la sua partenza dalla città, o improvvisa la determinazione di passare in Roma il tempo che forse proposto si era di dedicare al suo paese. A Vienna non era ancor giunto Montecuccoli il 1° di giugno, scrivendo di là il Siri che vi si aspettava; certi riscontri mostrano però che vi giunse in quel mese. Andò nel successivo al suo castello di Hohenegg per godervi la campagna, la libertà e il fresco, secondo egli stesso scriveva; e nell’agosto occupavasi in Vienna nel ricercare pel granduca di Toscana un ufficiale che lo servisse come capitano tenente nella sua guardia delle corazze. Propose egli tra gli altri un Naccarelli, soldato di buon conto che da vent’anni militava tra gl’imperiali; ma inteso poi che si desiderava tedesco, mandò a Firenze un Hacirsbach, sergente maggiore austriaco . Di un conte Serristori, che con molto plauso serviva sotto le insegne imperiali, dava egli ragguaglio al principe Mattia il 14 di settembre da Hohenegg, ove era allora ritornato. Più tardi scriveva dei trattati preliminari che tenevansi in Praga per incoronare re dei romani il figlio dell’imperatore, alla qual solennità assisté poi nella successiva primavera ad Augusta e a Ratisbona. Raimondo in cotal circostanza fu incaricato dall’imperatore di chiamare da Innsbruck un Atto Melani, musico del principe Mattia de’ Medici, e da questo raccomandato al Montecuccoli stesso, e che, secondo egli scrisse, fu con molto gusto udito da S. M. e da tutti, e ancora dalla corte di Monaco, allorché v’era con Raimondo l’imperatore. Gli si fecero regali, e si ringraziò il principe Mattia per avergli conceduto quel viaggio.
Dopo le feste di che dicevamo, andò Raimondo a Praga, e là sappiamo aver dato opera a trovare persona adatta a tener ragguagliato il duca di Modena con lettere settimanali degli avvenimenti di più importanza che occorressero: modo con che si suppliva allora alla mancanza di diarii politici. E il medesimo ebbe a fare nel precedente anno pel principe Mattia, al quale chiedeva in cambio gli Avvisi di Roma, giornale manoscritto che principi e diplomatici e uomini di stato di là facevansi mandare, e del quale si hanno copie negli archivi. Ci fanno difetto per l’anno 1653 le solite notizie circa Raimondo, comunicate ai principe estensi dai diplomatici che tenevano a Vienna. In una lettera che Raimondo indirizzava al cardinal d’Este, trovo che, tra l’altre cose, gli dicesse non competerli il titolo di eccellenza ch’esso soleva dargli.
Memorabile a Raimondo Montecuccoli fu l’anno 1654 per le relazioni ch’egli ebbe colla celebre Cristina, regina di Svezia. Congetturammo più addietro, che forse una corrispondenza epistolare avesse già avuto luogo fra la regina e Raimondo, e dicemmo che a lui comunicò essa il suo disegno di rinunziare al trono: alle quali cose sembra alludere lo stesso Raimondo nella lettera che stiamo per citare, ove dice “della bontà che gli usa la regina”, prima cioè che di persona la conoscesse. Fu dunque in quest’anno che gli venne fatto di mandar pago il suo desiderio di vedere quella singolar donna, e insieme con lei intertenersi, per meglio considerarne le doti dell’animo, e le molteplici cognizioni con pazienti studi acquistate.
Con lettere del 5 e del 7 di gennaio 1654 al principe Mattia e al duca di Modena, Raimondo scriveva da Berlino trovarsi per alcuni affari in quella città, donde passerebbe in Svezia, “per approfittare della bontà che gli usa la regina” secondo all’estense diceva, e poi in Danimarca. E perché non si prefiggeva, come a Mattia significava, di vedere in que’ paesi se non i porti di mare, le armate navali e le corti, sperava che, usando diligenza nel viaggio, potrebbe dopo due mesi restituirsi alla corte imperiale. Gli affari che aveva esso a Berlino risguardavano, come in una successiva lettera aggiunse, “certe pretensioni che doveva trattare con quell’elettore”, le quali l’avevan fatto partire d’improvviso a quella volta. Andò poscia da prima in Danimarca, come appare da una lettera che dalla capitale di quel regno indirizzava il 24 di gennaio al principe Mattia, nella quale diceva aver già veduto quanto di più raro colà si trovava. A quel re si presentò per un incarico che dato gli aveva Mattia circa “li quartieri nello Siefft di Brema”; con che non so a qual cosa alludesse; affermava essere stato accolto benissimo, e ricolmo di favori: e annunziava prossima la sua partenza per la Svezia, dove lo accompagnò, secondo vedremo aver egli scritto, il conte Enea Caprara. Dal Priorato e da altri storici si ha che, non come privato, ma andasse egli in Svezia come inviato imperiale “per ratificare, dice il primo di quegli scrittori, la buona corrispondenza e insieme la franchigia di un reciproco commertio” coll’impero. E non solo per questo era mandato colà, ma per ben altro! Daniele Wisther, addetto alla legazione inglese a Stokolm, in una lettera del 18 di febbraio 1654 scriveva, essere più che probabile cercasse l’imperatore d’iniziar pratiche di matrimonio tra Ferdinando suo figlio, al quale aveva Cristina consentito nel precedente anno che si desse il titolo di re dei romani, e la regina stessa; il qual re poco di poi nell’età di 21 anno fu dal vaiuolo tratto a morte. E sperava l’imperatore, che lei tentasse l’ambizione di diventare un giorno imperatrice. Il Lecomtes, che nel 1762 pubblicò a Stokolm una biografia di lei, aggiunge, essere stato Raimondo incaricato di procurar di ottenere il consenso di lei per quel matrimonio prima di proporlo al senato. Ma ritornando alla lettera del Wisther, troviamo che, dopo avere affermato favorisse il Pimentell quel progetto, come devoto ch’egli era a casa d’Austria, e voglioso di contrastare l’influenza francese alla corte; proseguiva dicendo: “E’ venuto qui da poco tempo un conte Montecuccoli italiano, che ha un comando nelle truppe dell’imperatore, e il quale è in favore della sua corte, per mandar innanzi, come si crede, questo affare con più vigore, ma con istruzioni segrete affinché non venisse l’affare a conoscenza del consiglio prima che fosse le buone intenzioni di S. M. per questa offerta confermate, l’imperatore sperando per mezzo di questa alleanza (se si fa) di ricuperare quanto ha perduto nelle ultime guerre di Germania. Questo conte è ricevuto con tutte le dimostrazioni esterne di rispetto, il che fa credere abbia la regina un gusto particolare per questo affare. Ieri gli dette un ballo per divertirlo, e lo fece cavaliere del nuovo ordine dell’amarante . Non avrei fatto menzione di ciò, se non fosse stato per far giudicare con più fondamento ciò ch’essa pensa di questo affare, pel favore ch’ella usa a chi è inviato per questo”. Diceva poi il Wisther, non credere che Cristina agisse da senno, ma cercasse solo conoscere ciò che pensassero il consiglio e la fazione palatina. E’ certo infatti che non inclinò mai né a quello né ad altro partito di nozze. Afferma Chanut, che essa, a chi le parlava di quelle proposte dell’impeimperatore, rispondeva che il partito era bello, ma che «rien ne pouvoit la charmer jusque là.» Che se non troncò tosto quelle pratiche, non aveva però avuto mai in animo di accettare quell’offerta, che più tardi essa chiamò ridicola, senza che se ne sappia vedere il perchè. Del rimanente, fin che fosse rimasta in Svezia, non le avrebbe permesso mai il senato di sposare cattolici. Ed aveva ella stessa dichiarato a quel tempo al principe Carlo Gustavo, figlio di una sorella del re Gustavo Adolfo, seco allevato fino dall’infanzia ed il solo che sinceramente lei abbia amato, che non altri che lui avrebbe ella sposato, se mai fosse giunta a superar la grande avversione che aveva pel matrimonio. La quale crede il diplomatico francese ora citato, che inspirata le fosse dai favoriti ch’ell’ebbe, e certamente poi da uno di essi, Magnus de la Gardie; il che afferma Chanut avergli ella stessa confessato, soggiungendo tanto essere allora avversa a maritarsi, che più presto avrebbe eletto la morte. Nè le onorevoli accoglienze ch’ebbe da lei il Montecuccoli, saranno da attribuire a codeste trattative, secondo parve al Wisther, ma piuttosto al grado che copriva di ambasciatore imperiale, alle qualità egregie di lui, e all’esser egli insin d’allora in istima di valente capitano, ed anche all’amicizia che aveva per lui il Pimentell, secondo opina l’Arckenholtz; il quale aggiunge, nessun ministro estero alla corte di Cristina aver goduto di tanto favore presso di lei, come questi due. E nel senso medesimo si espresse il Priorato che scrisse: essere egli stato accolto «con termini benigni, dichiarandosi ella molt’obbligata alla bontà di Cesare, dell’honore che gli (sic) faceva. Rispose alla lettera coi dovuti concetti, e rimandò questo cavaliere a Vienna colmo di contentezza». Di questa e dell’ammirazion sua per quella regal donna fanno testimonianza le lettere sue, ov’è detto: «che della regia aveva fatto un ateneo, e che poteva dirsi per tutti i capi un miracolo della Natura.» E invero i rari pregi pe’ quali andò celebrato quella famosa regina, posero nell’ombra i torti ch’ella pur ebbe, e che non poterono gli storici dissimulare.
Dalle cose insino ad ora discorse traggo argomento a tare che non fosse nel vero il Boreel, ministro olandese in Francia, il quale in una sua lettera ricordata dall’Arckenholtz, parlando dell’offerta dall’imperatore fatta a Cristina, a quella vorrebbe attribuir il consenso da lei dato all’elezione del figlio di lui a re dei romani. Fu questo consenso, dice egli, ottenuto per opera di Pimentell e di Montecuccoli, il che se è vero pel primo, non lo è per l’altro, cui nessun documento ci prova andato in Svezia nel 1653. Parmi evidente, che il Boreel abbia posto in relazione tra loro due avvenimenti che si succedettero indipendenti l’uno dall’altro. Poté nondimeno aver chiesto Raimondo, nel precedente anno, per lettera il consentimento della regina all’elezione di Ferdinando.
Neppure credo s’abbia a prestar fede ad un signor Pique, in quel tempo ministro della Francia a Stokolm, ed avverso, come il suo governo, all’imperatore, quando nel narrare il fatto, realmente avvenuto poco innanzi che Cristina abbandonasse il trono svedese, dell’ostile procedere per ordine di lei del generale Königsmark contro Brema perché aveva mandato un deputato alla dieta dell’impero germanico, contro ciò che il trattato di Vestfalia disponeva; lo attribuisce ai consigli del Pimentell e del Montecuccoli, come se mirassero con ciò a somministrar pretesti all’imperatore per ricuperare le perdute provincie. Il Boreel or nominato asseriva invece, avere l’imperatore fatto dire a Cristina, che egli non s’opporrebbe se ella s’impadronisse di Brema. E si noti che qui di nuovo si trae in campo il Montecuccoli per un fatto accaduto quando non era presso Cristina; il che basterebbe a sparger dubbi sulla verità del medesimo, al quale non mostra neanche di prestar fede il diligente Arckenholtz. Del rimanente, questa controversia di Brema venne più tardi amichevolmente sopita dal re Carlo Gustavo. Raimondo riferì al suo principe naturale, quanto operò per distogliere Cristina dal proposito di scendere dal trono, e come tutto tornasse indarno, essendoché la lasciasse deliberata ad abdicare forse nel giugno, come appunto avvenne. “Convien sospendere, così egli, ogni giudizio su questa risoluzione”. In quella lettera veniva poscia lodando di gentilezza, di esperienza e di valore nelle armi il principe Carlo Gustavo ch’ella si era eletto a successore, e del quale non tardò poi a trovarsi a fronte egli stesso in Polonia. Della Svezia diceva essere uno stato che si fondava sulla milizia, della quale pertanto si aveva gran cura, così di quella di terra come di quella di mare; notava poi, le entrate sue principali ritrarsi dalle miniere di ferro e di rame, dalla pece e dalle gabelle del traffico. E il duca di Modena, in risposta, con lui si congratulava, vedendo che dovunque il valor suo veniva grandemente pregiato.
Mentre trovavasi Raimondo a Stokolm, nuove e più ferme dichiarazioni della sua determinata volontà di abdicare faceva Cristina al senato, di ciò dando conto al suo confidente Chanut, ministro allora della Francia in Olanda. Questi nel gennaio, come a lungo aveva fatto precedentemente, tentò un’ultima volta di dissuaderla da quella risoluzione; ed essa a lui con una lunga lettera rispose, nella quale si trovano queste parole: “Il rimanente degli uomini non sa le mie ragioni e il mio umore, perché io non mi sono mai dichiarata ad altri che a voi, e ad un altro amico che ha l’anima grande e bella abbastanza, per giudicare come voi”. E questo io supposi già ch’esser potesse Raimondo, che da più tempo vedemmo essere stato a parte del suo segreto. Non parmi infatti che ella potesse alludere al Pimentell, confidentissimo suo, che solo nel 1652 aveva assunto quell’ambasceria, durante la quale cooperò anche alla conversione di lei al cattolicismo ; e meno poi al La Gardie dal quale si era clamorosamente staccata nel dicembre del 1653, laddove la lettera della regina è del 28 di febbraio del 1654: e neppure all’Oxenstierna, col quale non era dessa allora in buoni termini, e che avversò ad oltranza quel progetto di lei. Il palatino Carlo Gustavo, a cui qualcuno riferir potrebbe quel passo, io stimo che da men tempo del Montecuccoli fosse conscio della determinazione della cugina sua, la quale di altri termini per fermo si sarebbe valsa, se di lui avesse inteso parlare. Rimane pertanto in me, sino a prova contraria, la persuasione che fosse Raimondo l’amico del quale la regina faceva parola. Quant’è per altro a ciò ch’essa diceva di essersi solo con que’ due dichiarata, sarà probabilmente da intendere nel senso delle prime manifestazioni confidenziali, e delle altre di persistere nel suo proposito, anche dopo che da esso il senato aveva una volta cercato di rimuoverla, non che dei motivi che a ciò fare la consigliavano, come è detto nella lettera ora citata. Intorno poi alle ragioni di diversa natura che trassero Cristina a quel magnanimo abbandono del trono, oltre quella da lei addotta al papa di voler convertirsi alla religione cattolica, sono a vedersi l’Arckenholtz, il Gejier e gli altri scrittori che di ciò tengono parola. Convocò Cristina per l’11 di febbraio in Upsal i senatori del regno, ai quali dichiarò doversi radunare gli stati generali, volendo ad essi significare la ferma sua volontà di deporre lo scettro, dalla quale oramai non si rimoverebbe, come aveva già fatto, tre anni innanzi, quando ne diede ad essi la prima comunicazione. Aveva Raimondo accompagnato la regina ad Upsal, e il dì precedente (10 di febbraio 1654) di là scriveva al principe Mattia: “Sono qui fra le cose più mirabili dell’universo, trovandomi alla Corte della Maestà di questa Regina, che è veramente un prodigio della natura. Né ci mancano le nuove, poiché si trovano qui ministri di tutti i gran Principi del mondo, fuori che di quelli d’Italia ec.”. E sarà stata invero cosa straordinaria quella ragunata di tanti illustri personaggi intorno ad una giovane regina, per vederla fa getto di quegli onori tanto ambiti da altri, e preparasi ad andare esule volontaria fuori della sua patria. Due lettere, oltre quella or ora citata, scriveva Raimondo da Upsal al principe Mattia, e queste non tornerà discaro al lettore che qui da me vengano per intero riprodotte.
Ser.mo Principe, mio Sig.re Padron Col.mo
Do humilmente parte a V. A. Ser.ma come la Maestà della Regina di Svezia ha preso risoluzione di rinunziare la corona al signor Principe Palatino, e che l’ha notificata alli Senatori di questo regno, li quali essendo qui convocati insieme, hanno riverentissimamente supplicato la Maestà Sua a voler far loro grazia di desistere da tale determinazione; ma essa ha loro risposto che ella ci era totalmente risoluta, e che però badassero solo a far le disposizioni necessarie. La cagione che porta Sua Maestà a ciò fare, si può attribuire al suo genio transcendente et al suo spirito sovrumano, che trapassando il senso e l’intelligenza comune, è superiore alle cose ordinarie del mondo. Per motivo del bene pubblico s’adduce che, non volendo la Regina intendere di matrimonio, e vedendo che il Palatino non può ora ammogliarsi con quei vantaggi che egli potrà fare essendo Re, ella conosce il Regno correre a questo modo rischio di rimanere senza certo successore, e però esposto all’Elezione, che suole bene spesso implicare gli stati in guerre civili.
Io spero di ritornarmene in breve alla Corte Cesarea, avendo io già, alcuni giorni sono, supplicato humilissimamente Sua Maestà per averne la permissione, sebbene la di lei clemenza e bontà va trattenendomi d’un giorno in un altro con infinità di grazie. Et a V. A. Ser.ma riverentemente m’inchino.
Di Upsal li 27 febbraio 1654.
Di V. A. Ser.ma Umiliss.mo devotiss.mo servit.re R. C. Montecuccoli
Ser.mo Principe, mio Sig.re Padron Col.mo
La Maestà di questa Regina persiste nell’opinione di risegnare la corona, non ostante le supplicazioni in contrario degli uffiziali del Regno; et ella fu pochi giorni sono a sette leghe di qua (nel qual viaggio io ebbi l’onore di servirle) ad abboccarsi et a notificare la sua intenzione al signor Principe Palatino, che sarà il successore e per lo quale effetto la Dieta degli Stati è intimata qui il primo di maggio prossimo futuro. In suggetto di questa abdicazione ha la Maestà Sua scritto a Monsieur de Canut, che è stato qui lungo tempo ambasciatore di Francia, e che ora è ambasciatore in Olanda, una lettera, copia della quale viene qui annessa, che spira una grandezza d’animo molto superiore alle cose ordinarie del mondo . Io sto di giorno in giorno per partire di qua di ritorno in Alemagna, carico d’onori, di grazie e di regali dall’infinita clemenza di questa Maestà, sì com’è anche il signore C.e Enea Caprara, il quale m’ha favorito di venir qua con esso meco. Quest’inviato di Spagna D. Antonio Piementel, compitissimo Cavagliere, ha ricevuto ordine di ritornarsene, e sta egli ancora per partire alla fine di questo mese. E con tal fine a V. S. Ser.ma mi inchino.
Di Upsal li 13 marzo 1654.
Di V. A. Ser.ma Umiliss.mo devotiss.mo servit.re R. C. Montecuccoli
Non allora, ma solamente il 6 di giugno ebbe luogo la solenne trasmissione dell’autorità reale al principe Carlo Gustavo, del quale precedentemente scriveva Raimondo, che sperava sarebbe per riescire ben accetto al popolo e al senato, “perché oltre alla virtù militare della quale è dotato, egli ha anche quella d’essere molto famigliare e popolare a buon bevitore, qualità che giovano assai ne’ climi settentrionali”.
All’atto memorando dell’abdicazione di Cristina non assisté Raimondo, né alla partenza di lei dalla Svezia, essendoché circa la metà del marzo prendesse egli congedo da lei che gli regalò il suo ritratto contornato di diamanti, secondo narra l’Huissen, il qual donativo ella usava fare agli ambasciatori esteri, se crediamo al Priorato che lo scrisse nella biografia di lei. Di questo ritratto gemmato è menzione nel testamento di Raimondo, che dispose facesse parte di un fidecommesso da lui istituito, acciò restasse sempre nella sua famiglia. Se non fu dato al Montecuccoli di trovarsi presente all’abdicazione di Cristina, curò almeno che anche in Italia quello straordinario avvenimento fosse plaudito ed ammirato. Era a quel tempo alla corte di Modena, in officio di segretario di stato, il conte Girolamo Graziani da noi poc’anzi nominato, uomo d’ingegno non comune, che col suo poema in 26 canti intitolato: Il conquisto di Granata, da lui nel 1650 dedicato al duca Francesco I, che lo rimunerò di un’annua pensione di 200 scudi, era venuto in fama di valente poeta. A lui pertanto si rivolse Raimondo, chiedendo volesse con un suo canto celebrare il grand’atto che allora si compiva. E il Graziani, che in quell’anno medesimo vedeva ristamparsi il suo poema in Parigi, non pose tempo in mezzo a compiacerlo, né guari andò che gli mandava il poemetto: La Calisto, dichiarando nella lettera colla quale lo accompagnava, che ad istanza di lui lo aveva composto. Conseguì in parte Raimondo lo scopo che proposto si era, perché la fama di che godeva il Graziani, procacciò molti lettori a quel poemetto, stampato da prima in Parigi in quell’anno stesso dallo stampatore Courbet, poscia due volte in Modena e, come in una delle prefazioni si legge, anche in Brusselles, a Firenze e a Venezia. Non avendo però la posterità confermato il giudizio de’ contemporanei circa gli straordinarii meriti poetici del Graziani, e non trovando perciò le opere di lui chi ora imprenda a svolgerle, se Cristina non avesse saputo per altra guisa tramandare il suo nome alle età più lontane, male a questo avrebbero provveduto i versi del Graziani. Va poi notato che il poeta non si ristrinse a celebrare quella “gemma del polo” che faceva “sotto clima di ghiaccio ardere i cuori”, ma fece opportunamente menzione anche del padre di lei e de’ famosi suoi generali.
Ci rimane a dire di due Memorie sulle cose di Svezia che, copiate da un manoscritto in Venezia nel 1665, furono dall’Arckenholtz inserite in italiano nell’opera che ci lasciò sulla regina di Svezia, dicendo che vengono attribuite al Montecuccoli. Nella prima di queste lo scrittore dà conto della persona di lei, della sua corte, delle due fazioni che la tenevano divisa, e di quant’altro gli fu dato osservare sino alla sua partenza dalla corte, avvenuta l’ultimo di gennaio del 1654. Tratta la seconda dei motivi che indussero la regina a rinunziare al trono, che l’autore giudica con soverchia severità, attribuendoli all’impedimento che nella costituzione della Svezia aveva trovato alla sua autorità che avrebbe voluta dispotica, al malcontento destato nel pubblico per la nomina di molti senatori, i più mediocri od inetti, mercé il voto de’ quali sperava indebolire l’autorità grande dell’Oxenstierna meritatamente goduta in Svezia, al trovarsi come isolata, non avendo posto confidenza che in tre persone, e finalmente alla malevolenza della quale fu fatta segno. Ma apparterranno a Raimondo codeste scritture? Io stimo vi sia luogo a grandemente dubitarne, quantunque m’avvegga che a quasi tutte le obbiezioni che alla mente si affacciano, troverebbersi ragioni da contrapporre. Così a chi dicesse che lo stile delle due Memorie non è quello delle opere di lui, si opporrebbe che una relazione fatta ai ministri di Vienna, come la riferisce lo storico svedese Gejier , comporta uno stile diverso da quello che usa chi scrive pel pubblico, la qual cosa ancora può dirsi rispetto alle sue lettere confidenziali. Gli errori e gli scambi di parole (scoscese per scozzese, Adolpho, Viena ec.) che al Montecuccoli non sarebbero occorsi, s’attribuiranno al copista inesperto della lingua italiana. Per quanto poi l’ammirazione di Raimondo per Cristina, che talvolta tiene dell’entusiasmo, faccia contrasto col pacato e talora severo giudicio recato intorno a lei dall’autore delle Memorie, saravvi chi cercherà, soffisticando, di chiarirlo colla differenza che fra una lettera intercede e il rapporto di un diplomatico al suo governo. Ma il Montecuccoli ammesso alla confidenza di Cristina, e a parte delle vere cagioni che lei inducevano ad abdicare, avrebbe mai, contrariamente a ciò che al principe toscano scriveva, indicato quelle sole che ad essa tornavano men decorose? E se non alla sua determinazione di farsi cattolica , ché in quel momento lo svelarla poteva portar pericolo, non avrebbe almeno accennato al suo desiderio di viver libera, alla poca propensione ad attendere al governo di uno stato, all’inclinazion sua agli studi, ai quali, come scrive l’Arckenholtz, le sorrideva di poter attender meglio e con più libertà nel dolce clima d’Italia, e a consimili ragioni ben note al Montecuccoli? Aggiungi, che l’autore di quelle Memorie afferma essere partito dalla corte di Svezia l’ultimo di gennaio, laddove Raimondo stette colla regina sino alla metà di marzo. Che se nella seconda memoria racconta lo scrittore, di essere stato anche ad Upsal, vien chiaro che non v’andò esso direttamente da Stokolm; invece Raimondo vi accompagnò la regina. I confronti che lo scrittore istituisce tra le corti di Stokolm e di Vienna, s’attaglierebbero bensì al Montecuccoli, ma del pari ad altri che d’entrambe avessero avuto cognizione. Checché ne sia, potrebbe ogni dubbiezza venir tolta di mezzo da chi negli archivi di Vienna rinvenisse l’originale di quelle Memorie, che essendo dirette ai ministri imperiali, è assai probabile che vi si trovino. Reduce dalla Svezia, Raimondo all’aprirsi del maggio era in Ratisbona, come si ritrae da una lettera che di là al duca di Modena indirizzava dandogli conto dei negoziati da lui ripresi circa l’acquisto del principato di Correggio, tanto bramato da Francesco I. Il 30 di maggio da Vienna scriveva del pomposo ingresso che in quella città aveva fatto il 24 l’imperatore, ricevendovi un donativo di 50.000 fiorini. Ito poi esso alle caccie, colse Raimondo il momento opportuno per rivedere il suo diletto Hohenegg. Il 5 di luglio da Vienna lamentava la morte, alla quale accennammo, del re de’ romani primogenito dell’imperatore, ammirando lo stoicismo di lui che, com’egli esprimevasi “supera la fortuna, e ricomincia a divertirsi alle solite caccie”. Poiché la regina Cristina ebbe deposta la corona, il timore l’assalse che il disegno da lei non manifestato al senato di convertirsi alla religione cattolica, venisse in pubblico prima della sua partenza; ond’è che ad evitare i pericoli che paventava, mentre le navi si apprestavano pel suo viaggio, con subitaneo mutamento d’idee nottetempo se ne partì vestita da uomo, da due sole persone accompagnata. Traversò la Danimarca e qualche paese della Germania, e al Montecuccoli, allora in Vienna, mandò sollecito invito acciò volesse raggiungerla ad Anversa, desiderando averlo a compagno nel viaggio che designava fare in Italia. Il primo di settembre veniva pertanto da Raimondo avvisato il principe Mattia della sua partenza per Brusselles, ove stimava dovesse allora trovarsi la regina, pensando poi di potere, dopo cinque o sei settimane, ritornare a Vienna. Ma erasi essa indugiata in Anversa, ed ivi alcun tempo rimase anch’egli con lei. Del suo soggiorno colà recano notizia due lettere di Raimondo al principe Mattia, la prima delle quali riportiamo per intero. Nell’altra è detto di molte dame e cavalieri, nonché degli ambasciatori di Francia e di Spagna, e dello svedese conte Todt, recatisi colà ad ossequiarla. Ecco ora quanto il 22 di settembre scriveva Raimondo da Anversa al principe toscano.
Ser.mo Principe, mio Sig.re Padron Col.mo
Mentre che in Brusselles si sta tutto immerso nelle turbolenze, per riparare col consiglio e colla mano all’esercito et alle cose necessarie all’esercito, e per rompere il disegno dei Francesi, il quale par essere di distruggere il paese e di levare il sostentamento per l’inverno; godo io qui l’honore di servire alla Ser.ma Regina di Svezia, dove i passeggi, le musiche, le commedie e le buone compagnie, che da tutte le parti concorrono qua a riverire questa gran Principessa, fanno rassomigliare questo luogo a una di quelle isole fortunate, che in mezzo ai flutti del mare adirato gode una placidissima tranquillità, o ad una di quelle altissime montagne che vede sotto di sé le nebbie e le nuvole, senza che il sereno della sua cima ne sia punto contaminato. Ma perché io non saprei godere alcuna ora di consolazione senza possedere l’onore delle grazie di V. A. Ser.ma, mando queste umilissime linee a rinfrescarle la memoria della mia divozione et a supplicarla riverentemente di credermi di V. A. Ser.ma
Di Anversa li 22 settembre 1654.
Umiliss.mo devotiss.mo servitore R. C. Montecuccoli
La seconda lettera più sopra citata, non che un’altra di Raimondo, sono gli unici documenti da me veduti che ricordino la dimora di lui in Inghilterra, dove a lungo non si trattenne, avendosi una lettera sua scritta in Brusselles il 15 di novembre. Colà essendo stato da Cristina messo a parte della determinazion sua di rimanere qualche tempo ancora nel Belgio, e non volendo egli tardare più oltre, per le ragioni che esporremo, ad obbedire al cenno del suo sovrano che lo chiamava in Italia; fece disegno di andarvi da solo, chiedendone in Vienna l’assenso: il che se fatto non avesse di persona, diceva che per sicuro gli sarebbe stato negato. Pregava intanto per lettera il duca, acciò gli facesse scrivere dal marchese Massimiliano Montecuccoli, essere da urgenti affari di famiglia richiesta la sua presenza in patria: dal canto suo farebbe egli quanto umanamente fosse possibile per conseguire il suo scopo, e avviserebbe esso duca se avesse ad incontrare ostacoli. La lettera di Massimiliano gli sarà senza dubbio pervenuta; ma forse, pei romori di guerra in altra sua lettera accennati, la chiesta facoltà, e lo previde egli stesso, non gli venne concessa; e si rimase ancora dallo andare a Vienna. Il cinque di decembre scriveva da Brusselles, aver colà preceduto la regina per servirla nel solenne ingresso che designava fare in quella città, ed esprimeva la speranza che potesse ella offerirsi mediatrice di pace tra Francia e Spagna: ma quantunque una lettera di lei al Chanut faccia fede che quella pace molto fosse da lei desiderata, vediamo dalla medesima che nulla tentò per affrettarla. A Brusselles chiamò essa quel diplomatico francese, non per cosa alcuna che avesse a commettergli, ma per attestarli soltanto, dice il Voltaire, la continuazione dell’amicizia sua, della quale nuove ed ampie dimostrazioni in quella circostanza gli porse. In Brusselles fece poi privatamente professione di fede cattolica dinanzi al padre Guemes, domenicano, nel gabinetto dell’arciduca governatore, alla presenza di lui, di tre spagnoli e del Montecuccoli; il quale non guari dopo ripartì per Vienna, seco portando una lettera di Cristina all’imperatore, che è negli archivii viennesi, e della quale ebbi notizia dall’erudito diplomatico svedese, cavalier di Burenstam, che intende ora ad illustrare l’epoca famosa del soggiorno di quella regina nel Belgio. In quella lettera diceva, aver incaricato il conte Montecuccoli d’informarlo del cambiamento di religione che da gran tempo aveva meditato di fare . Codesto cambiamento non le impediva per altro di condurre colà una vita spensierata e mondana, di guisa che fu ritenuta per atea; mentre poi era in gran timore, non venisse la sua conversione conosciuta in Svezia, innanzi che con nuovi accordi si fosse assicurata la pensione che si era riserbata, come narra il cardinal Pallavicini. Ma ritornando al Montecuccoli, stimiamo non improbabile che, durante la dimora di lui nel Belgio, qualche accordo ei prendesse circa la stampa delle poesie italiane dell’arciduca Leopoldo sotto il nome accademico di Crescente; le quali insieme con alcune sue furono stampate a Brusselles un anno e mezzo di poi, cioè nel 1656.
Veniamo ora a tener parola delle ragioni che probabilmente inducevano Raimondo a voler intraprendere il viaggio di che dicevamo più sopra. Dopo che Francesco I, duca di Modena, era stato nel 1649 astretto a far pace colla Spagna abbandonando l’alleanza francese, non era mai vissuto in concordia coi ministri ch’erano al governo delle provincie possedute in Italia dagli spagnoli. L’una parte e l’altra lamentava infrazioni ai patti convenuti, e gli spagnoli non si lasciavano sfuggire occasione alcuna che loro si offerisse, per recar pregiudicio ai diritti e alle sostanza del duca. Ma nel 1652 l’impedita effettuazione per parte della corte di Madrid dell’investitura di Correggio, dal Montecuccoli e dal Parenti ormai concordata coll’imperatore, e la scoperta di un carteggio dal quale apparve che gli spagnoli miravano ad occupar per sorpresa la fortezza di Brescello, e quella fors’anche di Modena, della quale cercarono far levare il disegno; indussero il duca a meditare nel suo segreto il modo di vendicarsi, coll’aiuto di Francia, delle offese ricevute. Ma era da aspettare il tempo opportuno a cotesta vendetta; e intanto dava opera a preparativi di guerra , de’ quali avendogli arrogantemente chiesto ragione gli spagnoli, egli pacatamente rispose ciò fare a difesa propria, in riguardo delle voci che correvano, del passaggio di truppe francesi avviate a Napoli. Nella quale condizione di cose, che condur doveva alle ostilità che funestarono poi il successivo anno 1655, è naturale che il duca Francesco come i documenti ci provano, avesse a bramare di aver presso di sé lo sperimentato capitano, del quale tanto si era giovato nell’altra guerra di che dicemmo più addietro. E da ciò le reiterate istanze fatte da Raimondo, affine di poter partire per Modena. E invero nessuna ragione ci è nota, per la quale il Montecuccoli, che dopo pochi mesi dovea venire colla regina in Italia, avesse a fare due volte quel non breve viaggio, se non era per obbedire a un cenno del suo principe naturale. Forse, in sulle prime, il duca non entrò ne’ particolari del servigio che da lui richiedeva; ma che non tardasse poi guari ad aprirsi seco più chiaramente, ne abbiamo documento in una lettera di esso duca, della quale rimane nell’archivio estense la minuta, ove è da lamentare non sia indicato il giorno in cui fu scritta, ma che senza fallo è da riferire allo scorcio del 1654. Da questa si ritrae, che alcune espressioni di un’altra lettera di lui avevano fatto pensare a Raimondo, che si ponesse in dubbio la lealtà del suo procedere, ond’è che il duca si faceva allora a dileguargli quel sospetto, mostrandogli come non altro scopo con quelle parole avesse egli avuto, se non quello di agevolargli il modo di ottenere il permesso di ritornare in patria. Quant’è però alle disposizioni che aver potesse Raimondo di secondare in quella circostanza i desiderii del duca, non andremo errati se, come ci accadde altra volta di congetturare, stimeremo che accettar non potesse di far cosa spiacente al sovrano, nell’esercito del quale già da tanti anni ei serviva, e che a lui, se mai l’imperatore seguisse le parti di Spagna, riescisse molto grave di venir posto al bivio di dover brandir la spada contro l’uno o l’altro de’ principi coi quali da vincoli di diversa natura trovavasi congiunto. Io stimo pertanto che, se prontissimo si mostrò ad obbedire alla chiamata dell’Estense, ciò avvenne o perché da prima egli ignorasse il vero scopo della medesima, ovvero perché avesse in animo di prestarsi col consiglio, e non con l’opera propria, a servirlo. E fu, per avventura, affine di esimersi da più gravi impegni, che egli rappresentò al duca come dall’ingerenza qualsiasi ch’ei prendesse in quella guerra, sarebbero poste a sbaraglio le cose sue in Germania, per le quali poi esso duca avrebbe dovuto concedergli non lievi compensi. E questo io ritraggo dalla risposta che il duca gli fece, nella quale queste parole si leggono: “In ordine ai vantaggi cui accenna nella lettera sua, ripeto che restando fermo quello che altra volta promisi, in considerazione che V. S. lascia abbandonato cotesto suo feudo (Hohenegg) e che potesse perderlo, io permuterò il regalo del bene, di valore almeno di trenta mila fiorini, in uno che sarà equivalente al suddetto feudo, e in questo V. S. resti certa e si fidi del mio animo assai benefico, e tutto disposto alla sua soddisfazione”. Ma non amava per avventura il Montecuccoli lasciare il certo per l’incerto, e il congedo negatogli dall’imperatore gli sarà stato sufficiente scusa per esimersi dal prender parte a quella guerra, alla quale, del rimanente, altri della famiglia sua intervennero, come siamo per dire. L’impedimento incontrato da lui a secondare il desiderio del duca non gli fu imputato a colpa, né raffreddò l’antico affetto: della qual cosa ci porgono amplissima testimonianza le commissioni confidenziali che a quel tempo gli furono affidate. Così quando nel marzo del successivo anno 1655 il Caracena procedeva a quell’atto inconsulto d’invadere gli stati estensi, che dovette poi con vergogna abbandonare, a Raimondo venne dato incarico di partecipare all’imperatore quanto era accaduto, e di presentargli a tal uopo una lettera che a sigillo levato gli si mandava, acciò anch’egli potesse prenderne conoscenza. Curerebbe venisse disapprovato dall’imperatore il procedere del Caracena, mentre lo farebbe persuaso della sincerità delle azioni del duca rivolte alla propria sicurezza e alla pubblica quiete “per quanto, come il duca soggiungeva, ci venga permesso dall’altrui malignità”. La narrazione dello accaduto fu più tardi privatamente mandata all’imperatore, e di essa è copia nell’archivio di stato, ed è creduta scrittura del ministro Graziani: volle poi anche il duca che in forma più estesa venisse data alle stampe . Dell’esemplare che ne fu mandato all’imperatore, scriveva Raimondo: “L’imperatore ha il manifesto di V. A. sulla tavola del suo gabinetto: l’ambasciatore di Spagna vi contradice in molti punti”.
Continuava poi dicendo delle pratiche che allora faceva il duca, forse non per mezzo di esso Raimondo, ma valendosi di un colonnello Pardi, il quale sappiamo da lui incaricato di coscriver soldati, per avere al suo servigio 2500 fanti, che il principe Roberto, fratello del palatino del Reno, gli avrebbe condotti a Modena: al quale sarà stato probabilmente negata la facoltà di venire in Italia, ove tuttavia giunsero senza lui le leve tedesche. Ebbe poi Raimondo a smentire la voce che gli spagnoli mandavano in giro per metter il duca in sospetto de’ suoi vicini, ora accusandolo di progetti ostili ai veneti, ed ora di discordie col papa. Circa a queste comunicazioni che dal duca riceveva, era egli solito, nel dar conto di quanto in obbedienza agli ordini suoi aveva eseguito, aggiungere considerazioni sull’andamento di quella guerra; e in una delle sue lettere si legge: “Veggo che la buona fortuna la quale è figlia della prudenza e del valore, e che si dà in premio di chi vigila, non può non accompagnare tutte le eroiche azioni di V. A., e me ne rallegro devotissimamente”. Veniva altresì incaricato Raimondo di dar parte all’imperatore dell’alleanza del duca con la Francia, resagli necessaria dalla prepotenza degli spagnoli, alleanza che non gli faceva del rimanente dimenticare l’ossequio ch’ei doveva alla corte cesarea, secondo si esprimeva. Ma nella risposta sua, del 6 di maggio, consigliò il Montecuccoli di non far parola all’imperatore della lega con la Francia, “perché non essendosi parlato a tempo debito né dell’armamento dello stato ducale, né della prima invasione, non potrà che fare cattiva impressione l’innoltrare ora una giustificazione”. Notava inoltre che la scrittura fatta pubblicare da esso duca era già nelle mani di tutti, ed ancora, come dicevamo, in quelle dell’imperatore. E così per avventura scriveva Raimondo, conscio com’era che in mala parte aveva preso quest’ultimo l’alleanza del duca colla Francia, circa la quale quella dimostrazione fece poi esso che a suo luogo esporremo. L’essere stato il Caracena biasimato dai ministri di Spagna, e levato poi anche d’Italia, non valse a fare che il duca di Modena si sciogliesse dalla lega con Francia, alla quale aveva acceduto anche la corte di Savoia. A mantenerlo in fede giovarono le istanze e le promesse dell’astuto cardinal Mazzarino, che così se n’era cattivato l’animo, da riuscire a superare la resistenza ch’ei gli oppose, ed indurlo a consentire che Alfonso, primogenito suo, sposasse Laura Mancini nipote di lui. Fu il matrimonio celebrato in Compiègne il 27 di maggio, e nel luglio scendevano truppe francesi in Italia, alle quali univansi le estensi, cresciute colle leve che dicemmo. Col duca andarono a quella guerra Giambattista ed Andrea Montecuccoli, il quale ultimo, essendo indicato come conte di Renno, sarà stato o il generale da noi altrove ricordato, o piuttosto un figlio di lui che aveva lo stesso suo nome. Di un Andrea, qual ch’egli fosse di loro, rimangonci alcune lettere che dan conto di quella guerra. Di essa, che in quell’anno 1655 non tornò propizia agli alleati, non è qui luogo di favellare, bastandomi accennare che vi restò non lievemente ferito il duca Francesco a quell’assedio di Pavia, nel quale preti, frati e popolo coadiuvarono i soldati, per non perdere l’onore di rimaner... spagnoli .
L’imperatore, che, avendo in affezione il Montecuccoli, soleva prenderlo a compagno ne’ viaggi che intraprendeva, seco a quel tempo lo condusse alla dieta ungherese in Presburg, come si ha da una lettera sua dell’11 di marzo. Più altre ce ne rimangono da lui scritte da quella città; in una delle quali, del 10 di giugno, diceva prevedere che i francesi sarebbero per fare il maggior sforzo delle armi loro in Italia, “dove piaccia a Dio che le cose riescano bene, e che l’Italia non vada tutta sottosopra”. E in Italia venne egli stesso, come siamo ora per dire. Da Linz il 17 di giugno scriveva al principe Mattia, essere di passaggio per quella città avviato a Brusselles; e colà lo chiamava la regina Cristina acciò egli, secondo dicevamo essere stato convenuto, l’accompagnasse in Italia. Se non che mutato poi avviso, lui solo spedì a Roma in officio di ambasciator suo al nuovo papa Alessandro VII (Flavio Chigi), per manifestagli il divisamento in che era venuta, di porsi a stanza in Roma, e per predisporre le cose pel solenne ingresso che far voleva in quella città, laddove da prima, secondo scrisse Raimondo, aveva essa divisato di entrarvi incognita, e di non fermarsi durante il viaggio. Erano colla morte d’Innocenzo X cessate le cagioni per le quali il nuovo papa, mentre era cardinale, avea cercato tenerla lontana di là, temendo, dice il cardinal Pallavicini, che a lei nuova convertita recasse scandalo il vedervi governato il papa dalla cognata sua (la Maidalchini). Dal medesimo Pallavicini, vissuto a quel tempo, abbiamo la curiosa notizia che, l’annunzio della determinazione di lei dato da Alessandro ai cardinali non riescisse ai più di loro gradita, e meno poi al popolo, il quale in quell’anno di carestia temeva che per le grandi somme occorrenti a festeggiarla, largo spenditore essendo quel papa, ne verrebbero accresciute le sue sofferenze. Ma questo dubbio vien rimosso dal Pallavicini, avvertendo che i 100.000 scudi destinati a que’ festeggiamenti, e il molto che per essi misero fuori cardinali a nobili, nonché il gran concorso de’ forestieri, tornarono in beneficio de’ meno abbienti. Partì Montecuccoli da Brusselles il 3 di luglio, e visitato il campo degli spagnoli a Cateau-Cambrésis comandato dall’antico suo generale l’arciduca Leopoldo, continuò sua via per l’Italia. Dal Diario mediceo del Verzoni, che si trova manoscritto nella biblioteca nazionale di Firenze, sotto il 26 di luglio del 1655 si legge: “Ricordo come questo giorno è arrivato in Firenze il signor conte Montecuccoli generale dell’artiglieria dell’imperatore, quale va a Roma per complire col Papa a nome della regina di Svezia. Fu levato e condotto a palazzo di S. A. e quindi spesato”. Qual via tenesse Raimondo per giungere a Firenze, non è chi lo dica, ma può congetturarsi che avrà evitato il territorio de’ belligeranti, passando per quello di Venezia e di Bologna. Nessun altro ricordo mi avvenne di ritrovare circa il soggiorno del generale in Roma (che fu brevissimo, avendosi una lettera sua da Vienna del 14 di agosto), se non questo: che a lui offerì il cardinal d’Este il proprio palazzo, ma che non poté egli accettare, e forse per ragion politica, essendo quel cardinale tutta cosa di Francia e nimicissimo degli spagnoli. Tornato Raimondo in Germania, non guari andò che presso la stessa regina un onorevole incarico gli affidasse l’imperatore, quello cioè di accompagnarla come rappresentante suo nel viaggio che, traversando la Germania, intraprendeva alla volta di Roma, dove, come dicevamo, l’aveva essa pregato di andare con lei. E fu atto notabile di ossequio verso Cristina, l’avere l’imperatore dato quell’incarico a Montecuccoli allora appunto che mettendo gli svedesi a repentaglio l’indipendenza della Polonia, stava esso rinnovando l’esercito per non esser colto alla sprovveduta. Lo stesso Montecuccoli, scrivendo al principe toscano che in breve sarebbero stati all’ordine forse ventimila fanti e otto o diecimila cavalli, lasciava presagire che se maggiormente si fossero turbate le cose, non avrebbe avuto il permesso di allontanarsi. Ma non essendosi presa per allora risoluzione nessuna, poté egli intraprendere quel viaggio.
Era rimasta Cristina insino allora a Brusselles, donde scriveva al cardinal d’Este per rimettere nella grazia di lui e del duca suo fratello, Cesare ed Alessandro fratelli Hercolani, che scontato avevano nell’esiglio, come si legge nella sua lettera che è nell’archivio estense, “i loro trascorsi col defunto conte Grazi”. E al cardinal Barberini aveva scritto, acciò a quelle di lei unisse le istanze sue. Partiva poi essa da quella città il 5 di settembre, e le onoranze che in quel viaggio le furono rese, e le visite di principi e di ministri ch’ella ricevette, si ponno leggere nella biografia che di lei scrisse il Priorato, che più offici, anche diplomatici, per lei sostenne : noi ci restringeremo a dire, esser ella stata raggiunta dal Montecuccoli nel villaggio di Wisendorp (come scrive Priorato) mentre s’incamminava verso Oberhausen sul Weser ad una lega da Augusta. Con straordinario contento, dice il biografo, venne egli accolto dalla regina, che seco il volle nella propria carrozza. Nel villaggio or nominato di Oberhausen si trattenne poi Cristina, tutto il giorno seguente al suo arrivo colà. Aveva il Papa espresso il desiderio, che prima del suo entrare in Italia pubblicamente professasse la religione cattolica, già da lei, come dicemmo, segretamente abbracciata, e inviò a tal uopo ad Innsbruck il celebre letterato tedesco Luca Holstenio, canonico di san Pietro di Roma, che al pari di lei era stato protestante. E la solenne professione di fede ebbe luogo ad Innsbruck. A Trento entrò in forma solenne, cavalcando il principe vescovo a destra del Montecuccoli dinnanzi la sua lettiga; e colà, pranzando essa da sola, si assisero Raimondo e gli altri alla tavola di quel prelato. Onorata di belle accoglienze ovunque passava, ne’ luoghi ne’ quali ebbe a sostare, veniva sempre ossequiata dagli speciali ambasciatori de’ principi italiani . Splendide furono poi le onoranze che al suo ingresso nel ferrarese apprestar le fece il papa; sul confine ella venne incontrata da nunzi pontificii, dal legato di Ferrara che accolse nella sua carrozza, e dalle truppe. Delle feste che si fecero in Ferrara ne’ due giorni che vi dimorò, fanno menzione gli storici di quella città, donde indirizzava Raimondo il 23 di novembre una lettera all’imperatore; della quale ebbi copia per favore del già nominato diplomatico svedese di Burenstam che la trasse dagli archivii viennesi, e che col permesso di lui inserirò nell’appendice di quest’opera . In quella davagli avviso che il dì medesimo partiva per le poste, mandato dalla regina a recare al papa gli atti autentici della sua professione della fede cattolica : e il primo di decembre annunziava il Muzzarelli, da noi già ricordato, che egli era giunto in Roma, e che smontato all’osteria (diremmo locanda), ne era stato levato dall’ambasciatore di Spagna (il duca di Terranuova) in persona, il quale lo volle ospite nel suo palazzo. Il giorno medesimo ebbe egli, come scrisse al principe Mattia, una lunghissima e benignissima udienza dal papa, che mostrò fare grande stima della regina, e impaziente dicevasi di averla in Roma, prendendosi poi molta cura acciò da tutti venisse ben accolta. Il papa gli parlò ancora di ciò che intendeva fare per metter pace fra i principi cattolici; ma opinava Raimondo che, se si avverasse la lega tra l’Inghilterra e la Francia, ben altro che uffici e parole sarebbe per occorrere ad attraversare i disegni che avessero concepito que’ potentati: e noi vedremo infatti a suo tempo quali conseguenze portasse con sé una lega tra Francia e Inghilterra.
Aveva Raimondo al suo passaggio per Bologna presi con sé in officio di suoi segretari un prete de’ suoi feudi nel Frignano e un certo Caldani, il primo de’ quali fu dal Muzzarelli alloggiato nel palazzo del cardinale. Raimondo fu poi avvertito per mezzo del Caldani, essere dolente il Muzzarelli che il trovarsi il suo principe in guerra colla Spagna, gli togliesse di poterlo visitare nel palazzo ov’egli abitava: ma Raimondo facendogli dire che desiderava vederlo, lo invitò espressamente ad andare da lui; ed egli il più segretamente che poté, fu alle stanze di quell’illustre suo comprovinciale, essendoché fossero entrambi nativi del Frignano. Si fece poi tosto ad offerirgli il palazzo del cardinale; della quale offerta, benché accettare non la potesse, si disse riconoscente al cardinale stesso, e lamentando che l’aver dovuto servir la regina gli avesse tolto di ossequiarlo in Modena, diceva sperare che ciò far potrebbe al suo ritorno in Germania. Scrisse Muzzarelli, aver trovato il Montecuccoli “sempre giovane e fresco al suo solito”, e lo diceva trattato dall’ambasciator spagnolo “con molta apparenza, facendolo anche servire colla propria carrozza seguita da tre altre, con due staffieri, gentiluomini e paggi col baldacchino” . Sosteneva Raimondo dal canto suo con dignità l’officio che aveva di ambasciatore, e raro accadeva che nella casa ove alloggiava, desse egli la destra a persona alcuna. Si occupava in quel tempo dei preparativi pel solenne ingresso in Roma della regina, nella qual circostanza furono dal papa fatti chiedere al Muzzarelli gli arazzi del cardinal d’Este, che da lui vennero concessi, a condizione “che fossero collocati in luogo opportuno e degno”. Né piccolo pensiero dava a Raimondo l’apprestamento delle livree per la servitù, che voleva fossero magnifiche. Ed era questa, secondo le idee spagnolesche di quel tempo, cosa di tanta importanza, che Raimondo, quando non poté di persona sopravvedere il lavoro delle medesime, lo fece sospendere, siccome il Muzzarelli racconta. Partiva l’8 di decembre da Roma il Montecuccoli, accompagnato sino alla porta della città col solito corteggio che aveva avuto insino allora, “dopo aver compito, per usare le parole del Priorato, colla solita vivezza de’ suoi nobili e spiritosi talenti molto bene ed esattamente alle sue parti, lasciando il papa contentissimo del suo ministero”. Moveva egli incontro alla regina che, dopo trattenutasi altri due giorni in Bologna ove una rappresentazione cavalleresca le si offrì con una quintanata, alla quale prese parte anche il marchese Felice Montecuccoli, aveva continuato il suo viaggio sino a Camerino: e colà fu raggiunta da Raimondo. L’accompagnò esso a Foligno, ad Assisi, e la sera del 18 a Caprarola, palazzo del duca di Parma, dove fu a farle ossequio l’ambasciator di Spagna poc’anzi nominato: e passò poscia a Bracciano, feudo degli Orsini. E qui noterò, che più tempo innanzi aveva manifestato Cristina il desiderio di visitare durante il viaggio la villa d’Este a Tivoli, siccome una delle cose più singolari nelle vicinanze di Roma: ed abbiamo nella corrispondenza del conte Giulio Cesare Nigrelli col cardinal d’Este (lettera del 3 di ottobre di quell’anno), aver esso avvertito il Muzzarelli della probabilità che la regina (la quale non era ancora in Italia) amasse visitare quella villa, invitandolo per ciò a tenere in ordine le fontane e tutt’altro che colà fosse da vedere. Sembra poi che di tanto momento si giudicasse una cosa per sé così semplice, da doverne trattare col papa, al quale può darsi che qualche obbiezione avesse presentato l’ambasciatore di Spagna. Il Muzzarelli ebbe pertanto a scrivere al cardinal d’Este, che lo avviserebbe per tempo se risolvesse il papa l’andata di lei a Tivoli: la quale poi non ebbe luogo.
Ad Olgiata furono ad ossequiarla due cardinali mandati a lei dal papa, i quali l’accompagnarono a Roma, ov’ella entrò privatamente, trovando stipate di gente le strade che aveva a percorrere. Prima di passare a stanza nel palazzo Farnese destinato ad albergarla, dimorò essa colle persone del suo seguito in quello del Vaticano, secondo era stato convenuto tra il papa e Montecuccoli; e narra Priorato, che il mattino dopo il suo arrivo, assai per tempo, andò nel giardino dove Raimondo le mostrò le carrozze che il papa le donava, facendole ammirare le varie figure che l’adornavano, lavoro del Bernini; il quale, trovandosi allora colà, le disse: se alcuna cosa vi è di cattivo, è mia; al che replicò tosto la regina: dunque niente vi è del vostro. Essa che valentissima cavalcatrice era, montò poscia una chinea, dono pur essa del papa.
Non mancò neppur questa volta il Muzzarelli di offerirsi ad ospitare il Montecuccoli: ma sembra che le grandi dimostrazioni di onore a lui fatte dall’ambasciatore di una potenza nemica alla casa d’Este, facessero reputare al cardinale non opportuna in tal momento quell’offerta, perché ad una sua lettera rispondendo il Muzzarelli, scusavasi dicendo che fatta non l’avrebbe, se non fosse stato certo che il generale, venuto in tanta intrinsichezza cogli spagnoli, non avrebbe potuto accettarla. E aggiungeva che il difetto di più cose negli appartamenti di quel palazzo avrebbe bastato, se non avesse avuto certezza di un cortese rifiuto, a sconsigliarlo dall’offerirli ad un personaggio così cospicuo. Raimondo però, a non far mostra d’inurbanità a chi lo favoriva, allorché prese stanza, come diremo, nel palazzo Farnese insieme col prete frignanese, col Caldani, con un Barozzi e col Tagliavini, modenesi entrambi del suo seguito , pose due cavalli suoi nelle scuderie del cardinale , e designava ancora valersi di una carrozza di lui per le visite di congedo, il che poi non fece; minuti particolari codesti che ci mostrano il diplomatico, astretto per un lato a seguitare la politica del governo al quale serviva, e che d’altra parte andava cercando modo di non porsi in iscrezio col suo sovrano naturale, ch’egli del rimanente, aveva in affezione e in istima. Prese parte Raimondo in questo frattempo all’ingresso trionfale che Cristina, tre giorni dopo esservi giunta in incognito, fece in Roma, e che dagli scrittori contemporanei fu detto essere stato spettacolo meraviglioso. Passò poscia ad abitare nel palazzo Farnese, ove ebbe stanza, come dicevamo, anche il Montecuccoli, che scriveva essere stato quel palazzo “mirabilmente adornato dal signor duca di Parma (al quale apparteneva) di tappezzerie, di pitture, di statue e d’ogni altro genere di cose”, benché, se il vero scrisse Muzzarelli, non vi trovasse tutte quelle comodità che credeva. Colla narrazione dell’ingresso solenne di Cristina in Roma, e delle feste carnevalesche che a quello tenner dietro, il Priorato, colà giunto cogli ambasciatori veneti, pose termine alle memorie che di quella celebre donna ci lasciò per le stampe; la quale opera dal carteggio del Muzzarelli impariamo essere stata riveduta e corretta dal segretario Gualenghi modenese, ch’era a quel tempo in Roma per affari del cardinal d’Este. E’ da credere che a lungo si sarà quello storico intertenuto con Raimondo, già suo commilitone e del quale fu biografo, da lui raccogliendo materiali per le sue opere. Qualche pratica fece a quel tempo per entrare al servigio della casa d’Este, presso la quale l’avo suo aveva esercitato l’ufficio di maggiordomo, secondo trovo scritto. Ma quantunque egli fosse caldamente raccomandato al duca dal Muzzarelli, che vantava la perizia di lui nello scrivere storie e nel disegno di architettura militare e di fortificazioni, la cosa non ebbe effetto, e solo gli fu dato comodità di attendere nel palazzo del cardinale ad un lavoro che aveva per le mani (forse la biografia di Cristina); terminato il quale, prefiggevasi di andare a Modena a riverire il duca e ad offerirsi per leve di soldati “avendo amicizie in tutte le parti del mondo”. Partì infatti per quella città nel giugno del seguente anno, secondo il Muzzarelli scriveva, dicendolo molto disgustato della corte apostolica.
Ed ora poiché toccammo di questo antico commilitone di Raimondo, di un altro di essi dobbiamo ricordare la morte in quest’anno medesimo (1655) accaduta; intendo dire del Borri, che venuto in Italia, come a suo luogo avvisammo, per la guerra che si disse di Castro, si era posto quindi al servigio dei veneti: e fu sotto la direzione di lui che Tenedo venne occupata. In un combattimento sul mare co’ barbareschi rimase poi esso così gravemente ferito in una coscia, che tradotto a Corfù, ivi venne a morte.
Ma ritornando al soggiorno del Montecuccoli in Roma, ci vien veduto da una lettera che il 25 di decembre scriveva di colà al cardinal d’Este monsignor Azzo Ariosti che vi aveva officio di avvocato della corte estense, essergli stato da Raimondo promesso di presentarlo alla regina Cristina, alla quale consegnar doveva una lettera di esso cardinale. E narrava infatti in una successiva, come fosse stato da lui introdotto nel palazzo Farnese ad insaputa degli spagnoli, vigilanti sempre acciò non le si accostasse chi a loro fosse ostile. Seguiva poscia dicendo, che del colloquio suo colla regina gli renderebbe conto il generale che ne fu testimonio, essendosi deliberato di passare per Modena, allorché avrebbe fatto ritorno in Germania. E prima, in obbedienza agli urgenti inviti dell’imperatore che lo chiamavano a Vienna, senza dubbio per gli affari della Polonia dei quali non tarderemo a tener parola, aveva egli, secondo il Muzzarelli scriveva, pensato di prendere la via più breve, quella cioè di Ancona e Venezia, anche perché, come quel diplomatico soggiungeva, “nelle congiunture che corrono” per le ostilità cioè colla Spagna, così avrebbe evitato di passare per Modena; ma opportuno poscia avrà reputato, per far atto d’ossequio alla casa d’Este, di mutar proposito. La lettera del Muzzarelli che concorda con quella del 25 di decembre 1655 scritta, come or dicevamo, dall’Ariosti, è in data dell’8 di gennaio 1655, senza dubbio per un equivoco, facile del rimanente ad accadere a chi scrive al principio dell’anno coll’abitudine di segnare nelle lettere quello poco prima terminato: se pure, il che non è da credere, non fece uso il Muzzarelli del computo che allora usavano i fiorentini, incominciando l’anno col 25 di marzo. Portava Raimondo all’imperatore una lettera di Cristina, scritta, com’ella diceva, ad istanza di lui, e della quale ebbi conoscenza per gentilezza del già encomiato diplomatico signore di Burenstam che la vide negli archivii di Vienna tra le carte di Svezia (Svecica). Sarà poi a credere che la regina, la quale era generosissima, non l’avrà lasciato partire senza qualche preziosa testimonianza del gradimento suo pei servigi che reso le aveva; benché un qualche senso di amarezza provar dovesse nell’animo al pensiero che un cavaliere a lei tanto ossequente, non per altro veniva forse richiamato dall’imperatore, se non per mandarlo a combattere contro il cugino suo, e gli antichi suoi sudditi.
Nel diario del Verzoni, per noi citato, sotto la data che corrisponde al 10 di gennaio 1656, si legge: “Ricordo come in questo giorno è arrivato a Firenze il signor conte Montecuccoli che veniva da Roma e per le poste se ne andava in Germania, chiamato dall’Imperatore, del quale è generale d’artiglieria”. Ma ciò contrasta col seguente brano di lettera del Montecuccoli al principe Mattia, scritta da Roma il 7 di gennaio di quell’anno: “Io aveva sperato di passare a Firenze per aver l’onore d’inchinarmi a V. A. Ser.a e ricevere li suoi benignissimi comandamenti per Germania, ma le lettere ch’io ricevei ieri sera di Vienna mi sollecitano con ogni premura ad accellerare il mio ritorno, onde mi conviene pigliar la strada diritta per Venezia e per Carinthia”; e seguita dicendo fissata la sua partenza per il giorno dopo, essendosi già licenziato dal papa e dalla regina, che lasciava contentissima del soggiorno di Roma, ove trovava ogni soddisfazione immaginabile. Converrà dunque pensare che o fosse il cronista tratto in errore, ovvero che durante il viaggio mutasse avviso il Montecuccoli. La lettera che citammo del Muzzarelli, essendo posteriore di un giorno a quella con la quale si scusava Raimondo col principe toscano per non poter passar da Firenze, sembra non lasciar dubbio che partisse egli da Roma durando nel proposito di soffermasi in Modena. Del soggiorno di lui nella qual città, che sarà stato di breve durata, e che fu l’ultimo ch’ei vi fece, io non son riuscito ad avere notizia di sorta.
Non vi avrà egli trovato il duca Francesco, andato allora a Parigi a render conto dell’esito non molto fortunato della passata campagna. Di là ritornò esso a Modena solamente il 20 di febbraio di quell’anno (1656) con grado di generalissimo delle armi francesi in Italia, che invero sotto il governo di lui incominciarono presto a veder mutata in meglio la loro fortuna. Si sarà pertanto contentato il Montecuccoli di ossequiare il cardinale che reggeva allora le cose del ducato, e di rivedere alla sfuggita i parenti, e prender forse contezza de’ suoi feudi, i quali per le continue guerre erano senza più ridotti in mala condizione. Non ho speciali ragguagli circa le terre che, come dicemmo, aveva ereditato dal cugino Girolamo; ma quant’è a Montecuccolo, più volte si trova menzione degli aggravii che sostener dovette. E dicevamo poc’anzi, come i pochi uomini rimasti a casa delle milizie di quel feudo, li volesse il duca a guardia di qualche piazza con poca satisfazion loro e del feudatario; il quale, stretto da tanti vincoli alla casa d’Austria, di mal animo tollerar doveva che gente sua fosse adoperata contro i parenti e gli alleati dell’imperatore. E qui, poiché siamo su questo argomento de’ feudi, ci piace terminare questo capitolo riportando la nota di quelli posseduti a quel tempo (nel 1655) dalla famiglia Montecuccoli nelle montagne modenesi, che ricaviamo da una carta dell’archivio estense:
Generale Raimondo: Montecuccolo, Sassorosso, Burgone;
Figli del marchese Francesco:
Marchese Giovan Battista: Guiglia, Ciano, Montalbano, Monterastello;
Marchese Sebastiano: Montetortore, Montalbano (insieme con Giovan Battista);
Conte Giustiniano: Ranocchio, San Martino;
Conte Alfonso: Montecenere, Olina, Camatta;
Conte Andrea: Montespecchio;
Conti Ferrante-Francesco ed Ernesto: Montese, Monteforte, Salto Riva;
Marchese Massimiliano: Polinago, Susano, Pigneto, Prignano e Vaglio.
Così la carta che trascriviamo, dove non troviamo poi ricordati gli altri figli del marchese Francesco, Felice cioè e Silvio, che forse allora non erano in possesso dei feudi ad essi spettanti.
Del primo di essi diremo sotto l’anno 1664 come fosse investito di alcuni feudi: successe il secondo a Ferrante in quello di Sassostorno, dimenticato nell’imperfetto documento ora citato. Non trovasi poi menzione di Renno, ch’era del conte Andrea.