Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/6

Capitolo VI. Fine della guerra dei tren'anni

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[p. 238 modifica]Capitolo VI

Fine della guerra dei trent’anni

Mentre trovavasi Raimondo in Modena, l’arciduca teneva dietro a Wrangel, il quale celermente procedeva verso gli stati ereditarii di casa d’Austria, che aveva in animo d’invadere se gli venisse fatto di trarre Turenna a secondarlo, non ostante le note gelosie del Mazzarino. Al Montecuccoli intanto, al suo giungere dall’Italia, veniva affidato il comando della Slesia con facoltà di fare ciò che meglio tornasse opportuno a salvezza di quella provincia e della Boemia, entrando nel qual regno gli sarebbero sottoposte anche le truppe che colà si trovavano. Il Priorato, nella Vita di Ferdinando III, c’informa che con Raimondo era quel colonnello Capaun da noi nominato, da cui non guari dopo fu presa la città d’Igla, e che la prima terra di Slesia dove entrambi presero stanza, nomavasi Brix sull’Oder, ossia Brieg, come la disse il Torresini. Era già nella Slesia il general svedese Wittemberg con cinque o sei mila cavalli, con fanterie e 13 cannoni, e buone posizioni vi avea preso, in quelle aspettando altre truppe colle quali doveva proceder verso il Danubio. Un piccolo esercito si venne tosto formando Raimondo coi due reggimenti di cavalli datigli dall’arciduca, e colle genti che trasse dalla Boemia, e lo passò in rassegna a Braunau, sui confini della Slesia e della [p. 239 modifica]Boemia. Vi si trovarono tre mila cavalli, come scrisse egli stesso, e quattrocento dragoni, numero non molto inferiore alla cavalleria degli svedesi, che poi lo vantaggiavano invece nel numero delle fanterie. Ma Raimondo aspettava altre truppe che dall’Austria erano in cammino per raggiungerlo, con che “spero in Dio, così scriveva, ch’egli (Wittemberg) troverà maggior opposizione che non si credeva”. Il 2 di giugno del 1646 annunziava il Torresini che, partito da Braunau alla volta di Brieg, era intento Raimondo a provvedere di uomini e di munizioni le piazze della Slesia minacciate da Wittemberg. Ma la fortezza di Wartemberg, verso la quale ei moveva, benché avesse certezza di essere soccorsa, aprì senza trar colpo le porte agli svedesi; onde il Montecuccoli espresse con queste parole il proprio disgusto: “Il comandante di Wartemberg mi ha tolto di mano la più bella occasione del mondo di fare un bel colpo, bisogna cercarne un’altra”. Dovette poi il Montecuccoli fermarsi a Brieg per attendervi occasione opportuna di attaccare il nemico, al qual fine aveva egli fatto costruire un ponte sull’Oder a Stein. Il Wittemberg però, riunite le genti sue in Glogau e nei dintorni di là dalla Bartsch in luoghi paludosi e fortificati, non mai accettò il combattimento, aspettando di aver sotto mano quelle truppe ancora che gli dovevano giunger dalla Pomerania. Al Montecuccoli non rimaneva pertanto che scorrere il paese per impedire i viveri ai nemici. In una di queste scorrerie, narra il Priorato, gli venne fatto di tagliar a pezzi 280 uomini di cavalleria, e, procedendo fin sotto Glogau, d’impadronirsi dei cavalli ch’erano al pascolo. Le devastazioni fatte posero allora a dura prova gli svedesi, molti de’ quali, narra l’autor medesimo, perirono di fame, ed altri fuggirono in Polonia ove si dava opera a far leve. Mentre queste cose accadevano, facevasi correr voce in Vienna (come al duca di Modena scriveva il Torresini), che avesse il Wittemberg battuto un colonnello del Montecuccoli, di nome Tabac, che era a capo di mille cavalli, e cui dicevano rimasto prigioniero. Aggiungevasi, che per questo il Montecuccoli aveva dovuto abbandonare la Slesia; ma tutto ciò, sette giorni appresso, dal diplomatico [p. 240 modifica]stesso era smentito, soggiungendo che stimavasi anzi fosse “per fare colà qualche buon colpo contro Wittemberg”. Quant’è al Tabac, non era desso certamente prigioniero nel dicembre di quell’anno, essendoché lo spedisse allora Raimondo all’imperatore per sollecitare l’invio di altri soldati, invano attesi insino allora. Nemici ed emuli potenti aveva Raimondo (e ne ebbe fin che visse) tra i generali cesarei, e da loro probabilmente fu sparsa quella notizia che dicemmo aver trovato qualche credito a Vienna. Che punto abbattuto fosse l’animo del valente modenese, l’abbiamo dal Torresini, il quale ce lo mostra occupato a cercar modo di trarre a battaglia gli svedesi, chiusisi, come dicevamo, in Glogau. E buona impresa gli riescì di compiere il 15 di luglio, allorché, secondato, come scrive Priorato, dal general Pompei che campeggiava da quelle parti, dopo 13 giorni d’assedio, ridusse in poter suo la fortezza di Frankenstein, della quale valevansi gli svedesi per le comunicazioni fra la Slesia superiore e l’inferiore: e con ciò chiuse egli ancora al nemico la strada per entrare nell’Austria a soccorrervi Korneuburg, che venne perciò in mano degl’imperiali. Dell’assedio di Frankenstein ci piace dare un cenno colle parole stesse del Montecuccoli. Il 10 di luglio di là scriveva: “Qui la notte seguente alli 6 del mese, arrivati con gli approcci sopra la controscarpa, dassimo un assalto generale a tutte le fortificazioni di fuori colla fanteria e cavalleria comandata a piede, e coll’aiuto di Dio l’espugnassimo tutte felicemente. Adesso si procede colle gallerie per attaccarsi alle mura del castello, le quali sono così grosse, che non si può far breccia, e però si va per la via delle mine e de’ fornelli, e ne speriamo in breve la resa”. E con lettera del 15 di luglio annunziava che la resa era avvenuta, facendone uscire la guarnigione senz’armi e bagaglio, ritenendosi quelli che già avevano servito nell’esercito cesareo, e gli altri mandando a Glogau: cento erano i primi, e trentasei dovevano esser gli altri, avendosi dal Priorato che di centotrentasei uomini si componeva il presidio del forte. In questo molte provvigioni da bocca e 100 cavalli si ritrovarono. Invano avea cercato Wittemberg di distogliere Raimondo da quell’as[p. 241 modifica]sedio, inviando in Moravia due mila cavalli, ché non mosse egli verso di loro, fin che Frankenstein non fu in suo potere. Allora soltanto mandò egli gente in Moravia: ma ciò non fu approvato dall’imperatore, o piuttosto (come da altra lettera di Montecuccoli apparisce) contromandò esso l’ordine dato, e fece richiamare da Raimondo quelle truppe in Slesia. Altre terre venne poscia conquistando quel generale, e allorché Wittemberg, passato l’Oder, attaccò Nemeslau sui confini della Polonia, gli fu sopra improvviso con due mila cavalli scelti il Montecuccoli, giunto colà per vie non battute e quasi impraticabili di mezzo a boschi, e costrinse il nemico a ritirarsi, abbandonando ai vincitori, come trofeo di vittoria, l’artiglieria e il bagaglio. Pensò allora il Wittemberg d’impadronirsi di Troppau per assedio, e a quella volta con buon nerbo di truppe s’avviava; ma inteso che Montecuccoli, al quale erasi unito il general Pompei, si preparava a contrastargli il passo, in più secura stanza, scostandosi di là, si ritrasse. L’autore dell’opera già citata sulle azioni egregie di soldati italiani che questi fatti ci racconta, aggiunge che gli svedesi, vedendosi impedita sempre da lui ogni cosa ch’essi meditassero di fare, in queste parole prorompessero: “Convien dire che cotesto Italiano se l’intenda con quale spirito familiare, poiché egli prevede ogni nostro disegno”. Questo ch’essi dicevano spirito familiare, non altro era invece se non la sua costante oculatezza, un buon servigio di esplorazioni, e poi la sagacia nel trovare gli spedienti opportuni, e l’ardimento nel mandarli ad effetto. Mentre queste cose accadevano, venne in animo all’imperatore di farsi coronare in Praga; e al Montecuccoli, che a vegliare acciò non venisse egli colà fatto segno a qualche atto ostile ai nemici, aveva raccolte, secondo scriveva da Schönau il 31 di luglio, le sue truppe verso le montagne, sottrasse allora, o a pompa o a difesa che fosse, 1500 cavalli: con che, diceva il Torresini, gli veniva tolto di procedere ad altre imprese.

Avevano intanto gli svedesi devastata la Baviera in modo che, per difetto d’ogni cosa, non vi potevan più vivere essi medesimi, e furono astretti perciò a levarsi di là. Presero il [p. 242 modifica]luogo loro gl’imperiali guidati dall’arciduca Leopoldo, che altri duemila cavalli levò allora dal piccolo esercito del Montecuccoli: ma neppur essi, per la cagione medesima, durar vi poterono a lungo. L’elettore di Baviera, che nella permanenza di quegli alleati ne’ suoi dominii trovava una garanzia contro un ritorno offensivo degli svedesi, della risoluzione presa dall’arciduca amaramente si dolse con lui stesso, giungendo persino a dirgli che null’altro sapeva egli fare, se non finire di rovinarlo. Di questo procedere dell’elettore adontatosi Leopoldo, fece proposito di non più voler combattere in Germania, e all’imperatore chiese facoltà di poter accettare il governo de’ Paesi Bassi, offertogli col comando delle truppe spagnole in quelle parti dal re di Spagna, il quale non altrimenti sperava poter quetare le discordie tra’ suoi generali, che ricusavano obbedienza al Piccolomini, lor comandante supremo. Indicò l’arciduca il Galasso, come il più opportuno per succedergli nel comando dell’esercito; ma la gelosia de’ ministri imperiali, secondo si esprime il Priorato, fece che gli venisse sostituito il Lobkowitz. Io stimo per altro, che prendesse errore il Priorato, riferendo come avvenuto ciò che sarà stato solamente proposto, perché il comando dell’esercito allora fu preso veramente dal Galasso, benché a mal termine ridotto dal male della pietra, dal quale fu tratto in breve al sepolcro; e lo stesso Priorato, nella Vita ch’ei scrisse di quel rinomato capitano, dice appunto che da Trento sua patria, ove pensava godere il riposo dovuto alle lunghe sue fatiche, fu chiamato alla suprema direzione delle truppe imperiali. E in altro luogo trovo invece notato che, non da Trento, ma da Vienna, non ben ancora risanato dalle febbri, partisse il Galasso pel campo. Continuò l’arciduca nondimeno per qualche tempo ancora ad esercitare l’officio di generale supremo. Durante i trattati che dicemmo, egli trovavasi a Vezlar, non senza speranza di potere con fortuna affrontar Wrangel che gli era presso: quand’ecco, il 10 di agosto, venire a congiungersi agli svedesi il Turenna così a lungo da essi aspettato; il quale, avendo ordine di andare in Fiandra, di proprio moto, [p. 243 modifica]conosciuto il bisogno di Wrangel, s’era voltato verso la Germania. Mutata per tal guisa la condizione delle cose, e mancategli ancora le truppe bavare, dal principe loro richiamate presso di sé ad istanza de’ ministri francesi, ogni suo disegno venne frustrato. Di Raimondo, per lettere del 31 di luglio e del 5 di agosto, sappiamo che era sotto Lehnausen, castello in capo ad una roccia guardato da cento uomini, dal quale aveva deviate le acque, sperando ancora che i calori della stagione gusterebbero quelle che la guarnigione aveva in serbo entro 30 botti. Per questo modo, o per altro, si rese il castello a discrezione il 5 di settembre, come si ha da una lettera di lui conservata nell’archivio mediceo; lo dette egli in guardia ad un colonnello Semeda, e passò poscia a Naumburg, donde vegliava su quella recente conquista e sull’assedio di Friedland, alla direzione del quale aveva posto il colonnello Strassoldo. Erano in quel frattempo incominciate le grandi evoluzioni delle forze riunite di Svezia e di Francia, che miravano allora a costringere alla neutralità la Baviera, colla quale erano corsi trattati non potuti poi condurre a termine. Mentre al Wittemberg giungevano sei reggimenti di rinforzo ch’egli andò ad incontrare di là dall’Oder, quelli che l’imperatore aveva promessi a Montecuccoli, venivano invece avviati verso la Baviera: e già dicemmo che duemila cavalli gli erano stati tolti, sicché appena tremila uomini gli rimasero per resistere alle accresciute forze del nemico. Radunato lo scarso numero de’ suoi sotto Frieberg, stette Raimondo alcune tempo aspettando i provvedimenti che fosse per prendere l’imperatore se non voleva perdere la Slesia, e forse la Boemia, che veniva intanto dal Wittemberg corsa e devastata senza posta. Ma ecco che, in luogo de’ sussidii sperati, un ordine improvviso dell’arciduca lo invita a raggiungerlo colla sua gente, meditando esso di dar battaglia a Wrangel. S’avviò egli dunque per la Boemia, e il Torresini avvertiva il passaggio di lui per Praga il 29 di settembre, seguito da quattro reggimenti di [p. 244 modifica]cavalleria, che, varcando il Danubio a Straubing in Baviera, conduceva all’arciduca, allora nel Palatinato. Durante questa sua marcia, scriveva Raimondo al principe di Toscana, essere intenzione dell’arciduca di passare il Danubio a Straubing e dar battaglia al nemico, che già aveva occupato Rhain e faceva gran progressi in Baviera, come ne farebbe Wittemberg in Slesia, ora che non troverebbe più opposizione: soggiungeva però che, se si potesse battere l’esercito principale, le altre partite si aggiusterebbero facilmente. Ma l’arciduca aveva agito di suo capo chiamando le truppe di Slesia; ond’è che l’imperatore all’intender questo abbandono di una sua provincia ad intera discrezion del nemico, montò in furore, ed una veemente lettera piena di rimproveri spedì all’arciduca, e un ordine al Montecuccoli di ritornar tosto in Slesia. Non volle l’arciduca obbedire al comando imperiale, ed ingiunse al Montecuccoli di non muoversi, scrivendo egli intanto all’imperatore, voler dare entro quindici giorni una battaglia, e non poter fidare pel buon successo della medesima se non sul Montecuccoli, di poca utilità reputando l’opera degli altri generali. Ma nuovi rimproveri gli giunsero dall’imperatore, coll’iterata ingiunzione di lasciar partire il Montecuccoli, al quale alcuni reggimenti manderebbe egli poiché fosse arrivato in Slesia; ogni resistenza diveniva dunque impossibile. Rifece pertanto Raimondo la via per la quale era venuto. Il 12 di ottobre era a Koenigsaal in Boemia, raccogliendo qua e colà alcuni drappelli di soldati da unire ai suoi. Ma poiché nella Slesia, secondo scrisse il Gazzotti, le cose degl’imperiali erano per la sua assenza venute in basso, e v’era altresì stato battuto il Pompei, come si ha ancora da lettera di Raimondo, il quale tuttavia non nomina il comandante di tre reggimenti che dice essere stati allora sconfitti; se egli vi volle entrare, gli fu mestieri affrontare la cavalleria contro di lui mandata dal Wittemberg, il quale, acciò con più celerità procedesse, aveva lasciato l’artiglieria e i fanti a Dobruska. Poté nondimeno il Montecuccoli aver sotto mano gente bastevole per sostare, come fece, a Tabor, ove il dì 17 riunì tutti i suoi soldati, per attender colà il rinforzo [p. 245 modifica]tante volte promessogli di nuove truppe. Queste però non mai giungendo, non altri scontri per allora ebbero luogo, se non qualche lieve scaramuccia fra la cavalleria, di cui si ha notizia nel carteggio del Torresini; ed intanto il Wittemberg, poiché vide non poter smuovere di là il Montecuccoli, badava, più che ad altro, a finire di devastare la Boemia e la Moravia. Ma allora l’esercito di Raimondo, secondo scriveva egli stesso il 24 di novembre da Braunale (Braunau) al principe di Toscana, gli fu alle spalle mentre era accampato intorno ad Olmütz, donde intendeva passare nella Slesia superiore, e lo fece sloggiare di là. E perché tendeva Wittemberg ad assalire Troppau, lo prevenne Montecuccoli, colà introducendo 300 soldati, ed altri diceva di aver condotti a rinforzare Wigste e Gratz. Tentò ancora di sorprendere alcuni reggimenti svedesi nella Slesia inferiore, ma trovò che già erano di là partiti, né gli venne fatto di raggiungerli, ed essi poterono unirsi alle genti di Wittemberg, non perdendo che una parte del bagaglio e alcuni prigionieri. Continuò poi Montecuccoli a tener dietro al nemico, non tornando a Braunau se non quando lo vide fuori della Boemia e della Moravia: così egli nella lettera ora citata. Il 10 di dicembre Wittemberg era nella Slesia, ove trovò che il Montecuccoli aveva ben munite le fortezze che ancora vi possedevano gl’imperiali, e s’era posto co’ suoi a Braunau in posizione favorevole per osservare gli andamenti di lui, e per aver facili le comunicazioni colla Boemia e coll’Ungheria, se mai da quelle parti fossero per arrivare nuove truppe imperiali . Quantunque poi non giungessero queste neppur allora, e la condizione in che si trovava, dovesse parer così grave da far correr di nuovo la voce a Praga, secondo di là scriveva Alfonso Montecuccoli, che avesse dovuto ritirarsi dinanzi a preponderanti forze nemiche; osò egli attaccare un corpo di mille cavalli svedesi, e lo sconfisse, seguitandolo poi lungamente nella fuga. Al tempo mede[p. 246 modifica]simo, secondo aveva disposto, altro manipolo de’ suoi si azzuffava con 450 cavalieri nemici, 250 de’ quali dovettero rendersi prigionieri. Fu questo per quell’anno 1646 l’ultimo fatto d’arme di quella campagna, con mirabile ardimento sostenuta dal Montecuccoli contro uno de’ migliori generali svedesi, che disponeva di forze molto superiori alle sue. Non poté impedire i gravi danni ai quali quelle provincie, corse dal nemico, dovettero allora sottostare, privo com’era di un sufficiente nerbo di truppe; ma coll’avere così a lungo, più che colle armi, per sforzo d’ingegno, contrastato il campo agli svedesi, ed inseguitili ancora in altre provincie dell’impero, come più gravi sciagure a questo evitò, così egli meritò che gli venisse ascritto a non piccola gloria. Non è solamente col riportare segnalate vittorie, dovute quasi sempre alla fortuna di chi possiede eserciti grossi, che un generale si rende benemerito del paese al quale dedicò la sua spada; ma col destreggiarsi altresì, se le forze gli facciano difetto, affine d’impedire disastri, dai meno esperti reputati inevitabili. Il non disperar poi di conseguire con mezzi inefficaci il fine a cui si mira, non lasciandosi da qualsivoglia ostacolo sgomentare, è virtù di animi della forte tempra di quello del Montecuccoli. Né a lui va neanche negata la lode di avere in circostanze difficili più volte offerto battaglia al nemico, che mai non osò accettarla. De’ campeggiamenti suoi di quell’anno, e de’ vantaggi che da questi derivarono alle cose dell’impero, sembra che lo stesso Raimondo si compiacesse, avendone fatto special menzione ne’ suoi Aforismi, ove si legge: “Io nel 1646 tenni nella Slesia a bada gli svedesi retti dal generale Wittemberg, mentre il conte Buchaim, generale cesareo, ricuperò le piazze occupate dagli svezzesi nell’Austria e nella Moravia”. Chi pensi poi alle continue marcie alle quali astrinse il generale le scarse sue truppe per supplir qua e colà alla mancanza di difensori, e agli strattagemmi ai quali ebbe egli a ricorrere ogni tratto per passare senza incontrar danni a traverso paesi occupati in gran parte dal nemico, farà stima per avventura che il Montecuccoli, già provato in tante altre circostanze difficilissime, avrà allora anche [p. 247 modifica]da quelle tratto ammaestramenti ulteriori per diventare, come in effetto riuscì, quel capitano così avveduto e sapiente che dal Turenna medesimo non fu mai potuto vincere. Venute a termine in questo frattempo le pratiche per la nomina del suo successore, partiva per la Fiandra l’arciduca Leopoldo, lasciando al Galasso la cura dell’esercito imperiale . Mentre ai fatti d’arme, de’ quali insino ad ora tenemmo parola, prendeva parte il generale Raimondo, nuove cagioni di guerra s’andavano preparando nella patria sua. Più addietro già toccammo di ciò e delle istanze fatte dal duca Francesco perch’egli prendesse stabile dimora in Modena, e il senno e la spada adoperasse in servigio della casa d’Este. Astretto poi il duca, come dicevamo, a consentire all’imperatore che restare ei potesse insino al termine della guerra in Germania, non aveva però perduta la speranza di poterlo avere al bisogno presso di sé. Allorquando infatti gli parve prossimo il momento di prendere una risoluzione a lungo maturata, alla quale lo incitavano le memorie ancora della passata guerra che nessun vantaggio gli aveva recato, e le rinnovate sue dissensioni con Roma, avendo egli preso colla Francia le parti de’ Barberini già nimicissimi suoi, contro il nuovo papa che li avversava; non dubitò di fare altre istanze acciò fosse lasciato Raimondo ritornare in patria. Occorrendogli adunque di spedire il conte Alfonso Montecuccoli, del quale dicemmo più addietro, a rappresentarlo al congresso di Münster ove si doveva trattar della pace generale, e dove sperava che alcuna deliberazione in pro suo s’avesse a fare (come al detto conte fu in effetto promesso allora dall’imperatore), gli dette speciale incarico di chiedere il congedo per Raimondo, dopo che con lui si fosse abboccato. Pertanto, il 24 di dicembre 1646, il Torresini scriveva al duca che glielo aveva raccomandato, essere il conte Alfonso, senza toccar Vienna, andato a Praga, ove sperava trovare Raimondo: ma giunto colà il 10 di dicembre, mentre Raimondo [p. 248 modifica]era a fronte degli svedesi, il conte Colloredo, del quale era ospite, non gli permise di proseguire il cammino, troppo mal sicure, per cagione degli sbandati delle truppe, essendo allora le strade. Se non che portaglisi poi occasione di unirsi ad un corpo di soldati, raggiunse egli Raimondo a Freiberg ove a quel tempo alloggiava. “L’ho trovato (così scriveva al duca), in ottima salute, desiderosissimo di tornare ai servigi del suo sovrano e ai riposi della patria”. Di questo non gli fu pertanto necessario di insistere presso di lui, tanto più che proponeva egli medesimo di partir tosto senza attendere la patente di generale di cavalleria che credeva prossima a giungergli, ma che tuttavia non gli pervenne, come diremo, se non più tardi. Per mandare ad effetto questo desiderio suo, incaricava allora quel parente suo di rappresentare all’imperatore, come, trovandosi ormai in età crescente (secondo si esprimeva), gli facea mestieri tornare in patria “a gettar qualche stabile fondamento alle sue cose, dal qual sortirebbero servitori della casa imperiale”: con che alludeva ad un futuro suo matrimonio. Insistesse pertanto acciò gli fosse conceduto di obbedire alla chiamata del principe suo naturale; s’adoprerebbe intanto egli medesimo per ottenere, valendosi di persone confidenti sue, il congedo richiesto. Ne’ discorsi confidenziali con Alfonso, Raimondo lo mise in cognizione dei dispiaceri che gli emuli suoi non si stancavano di procurargli, il generale Buchaim tra gli altri, che aspirava a surrogarlo nel comando che allora esercitava. Lo stesso Colloredo, presso il quale aveva Alfonso dimorato, gli si faceva contro, e aveva negato a lui e alle sue truppe i quartieri d’inverno in Boemia. Con lui s’intratteneva altresì del suo progetto di non differire più oltre a metter casa del proprio, prendendo moglie. Una memoria a tal uopo gli lasciò, nella quale le intenzioni sue a questo riguardo veniva esponendo. In questa a lui dava incarico, se riescito gli fosse di procurargli il congedo, di ricercargli “qualche partito di matrimonio in una casa grande, cospicua e conosciuta fuori del ducato di Modena”; colle quali parole non viene ben chiarito, se intendeva che la sposa non dovea esser modenese, ovvero [p. 249 modifica]che la famiglia di lei fosse conosciuta anche fuori dello stato estense, alcune essendovene che adempir potevano a questa condizione. La mancanza di una virgola tra le qualità richieste nel casato, e le parole che seguono, sembrerebbero escludere la prima supposizione che avemmo a fare. Dichiarava poscia Raimondo che se non gli venisse fatto di levarsi dal servigio imperiale, si vedrebbe astretto a cercar moglie in Germania: nel qual caso leverebbe dal monastero di San Geminiano i denari, gli argenti e le gioie che ivi da sua sorella erano con altre cose tenute in deposito. Nel gennaio del 1647 spediva ad Alfonso, che allora trovavasi a Vienna, una sua supplica all’imperatore, e un’altra per l’arciduca Leopoldo, e lettere per gli amici suoi Leslie e Swarzenberg, in molta grazia dell’imperatore il primo, come Alfonso scriveva al duca, e dell’arciduca Leopoldo il secondo; e allo stesso Alfonso raccomandava allora che non ristesse dall’adoperarsi per ottenergli il congedo, giacché a tale scopo aveva egli intrapreso un così lungo viaggio. Nella supplica all’imperatore veniva Raimondo significando: fargli istanza e comandamento il duca di Modena di passare in Italia al servigio di lui con quegli onori ed emolumenti che il suo parente Alfonso a lui dichiarerebbe; a tener l’invito di quel principe astringerlo l’obbligo suo naturale verso il medesimo, e a ciò consigliarlo altresì la circostanza della tregua posta allora al combattere, la quale per i trattati iniziati poteva in breve mutarsi in pace. Chiedeva pertanto di lasciare il servigio attuale nell’esercito imperiale, o almeno, se questo gli venisse negato, un congedo durabile insino al quetarsi delle turbolenze che le armi forestiere minacciavano d’ogni parte all’Italia. All’arciduca, col quale in più stretta relazione si trovava, aggiungeva che molto in grado sarebbegli tornato se, innanzi alla partenza sua, gli avesse mandato quella patente di generale di cavalleria che aveva mostrato intenzione di concedergli. Al Leslie confidentemente diceva, voler levarsi di Germania “per la volubilità e l’incostanza di queste guerre e fortune”, e ancora per provvedere alle cose sue. Servendo il duca di Modena, soggiungeva, non tornerebbe all’imperatore [p. 250 modifica]inutile interamente l’opera sua. Ma tutto fu indarno; ed il conte Alfonso s’avvide che assai difficile impresa aveva alle mani, come tosto il principe Gonzaga, allora in Vienna, informandolo delle disastrose condizioni delle cose dell’impero a quel tempo, gli dichiarò che non poteva l’imperatore privarsi di un così riputato generale qual era il Montecuccoli. E invero l’elettore di Baviera, unico alleato rimasto all’imperatore, cui insino allora aveva fornito il maggior nucleo di soldati e alquanti de’ migliori generali, stanco di dover sostenere il peso più grave della guerra, ed avendo ancora ad ogni tratto i nemici a guastargli il territorio, quando per negligenza dell’arciduca Leopoldo i francesi trovarono aperta la via per invadergli un’altra volta lo stato, s’indusse ad acconciarsi con loro mercé il trattato di Ulm sottoscritto nel novembre del 1646, accettando i duri patti che Turenna gl’impose, e promettendo serbarsi neutrale. Lunghe pertanto e da continui ostacoli intralciate furono le pratiche delle quali era incaricato il conte Alfonso; che finalmente, non potendo meglio, s’industriò perché fosse almeno mandato Raimondo in officio di ambasciatore al duca di Modena, per le vertenze ch’erano allora tra esso e il papa, a toglier le quali l’imperatore pareva inclinato ad offerirsi mediatore. L’arciduca, per affezione al Montecuccoli, consigliò invero che si facesse pago il desiderio di lui, e lo stesso per diversa cagione facevano gl’invidi della gloria sua; ma d’altro lato l’imperatore e gli spagnoli, potenti alla sua corte, ben conoscendo il danno che dalla mancanza di un così esperto capitano sarebbe derivato all’esercito, non volevano si parlasse di concedergli il chiesto congedo definitivo. Aggiungasi che i ministri di Spagna, secondo scriveva da Madrid il conte Andrea Montecuccoli, feudatario di Renno, colà inviato dal duca di Modena, gravi sospetti nudrivano che stesse quest’ultimo trattando, come in effetto accadeva, di passare al partito di Francia: e di questi sospetti partecipavano ancora i ministri imperiali; ond’è che dovevano impedire che a lui s’unisse il Montecuccoli. Non mancarono anzi di lamentarsi di questi progetti del duca i ministri imperiali col conte Alfonso; e, a stornarli, facevano prof[p. 251 modifica]ferte di dare il protettorato dell’impero in Roma al cardinal d’Este, e titolo e officio di viceré di Lombardia al duca se lo chiedesse: non volendo, dicevano, mandare un diploma, del quale avrebbe potuto egli valersi per ottenere dalla Francia condizioni più larghe. Di codesta asserzione si mostrò offeso il conte Alfonso, il quale dichiarò che il suo principe non mai sarebbe stato nemico all’imperatore: il che per altro non escludeva ch’esser lo potesse dell’altro ramo della famiglia imperiale che dominava nella Spagna. Alcuni degli amici stessi di Raimondo, poiché tra le ragioni da lui addotte per ritornare in patria intesero esser quella di ammogliarsi, si astennero dal fare offici in favor suo pel desiderio che in loro sorse di dargli moglie in Vienna, acciò avesse a prendere colà stabile residenza. Ma perché non cessava egli d’insistere per ottenere licenza di abbandonare il servigio imperiale, gli venne significato che la richiesta sarebbe stata posta in discussione, appena venisse a Vienna l’arciduca Leopoldo. L’esito poi de’ parlamenti che su di ciò ebbero luogo, checché in pro suo facesse il conte Alfonso riescì, com’era da attendersi, contrario al voto d’entrambi, non essendoci conceduto a Raimondo neppure il congedo per soli due mesi, come aveva il conte Alfonso finito per chiedere. Era stata la decisione ultima rimessa nel Galasso; il quale, ridotto in cattiva condizione dal male della pietra che in breve lo trasse al sepolcro , dichiarò pernicioso il congedo che si concedesse a Raimondo cui egli intendeva chiamare presso di sé. Deluso tornò adunque il conte Alfonso in Italia, non altro dai diversi negoziati intrapresi in Germania avendo tratto, se non la speranza di qualche buon officio dell’imperatore in favor del duca a Roma e ad Utrecht, e inoltre l’arrolamento di un certo numero di soldati, ai quali altri mille unir si dovevano promessi da Raimondo, che impedito dal soddisfare al debito di suddito leale, voleva almeno in qualche guisa rendersi utile [p. 252 modifica]alla patria sua che stava per entrare in guerra. Per le paghe di questi ultimi il conte Alfonso, in sul partire da Vienna, lasciò mille scudi al Torresini . Se grave riesciva a Raimondo il veder troncata la via al compimento del desiderio suo di ritornare stabilmente in Italia, non può negarsi che alla ripulsa ch’egli ebbe, non sia dovuta la gloria singolare alla quale ei salì nelle successive guerre. Furono veramente quelle contro i turchi e i francesi, dov’ei tenne il supremo comando, che così alto levarono il nome di lui, da oscurare quello de’ generali che l’avevano preceduto nella direzione delle truppe imperiali. Se Raimondo fosse ritornato in Italia allora che così vivo ne mostrava il desiderio, e coll’intenzione di non più allontanarsene, cospicua parte avrebbe preso senz’altro alle guerra nelle quali fu involto in sin che visse il duca Francesco I d’Este. Ma questo principe che non poteva mettere in campo se non scarse soldatesche proprie, benché decorato del titolo di generale supremo delle truppe straniere che formavano il nerbo degli eserciti combattenti in Italia, non poteva nelle fazioni di guerra procedere ad arbitrio suo, dovendo dipender dalle voglie de’ più potenti di lui. Accadde in effetto che il più delle volte i progetti suoi trovassero ostacolo nella corte e ne’ ministeri del suo alleato, e persino ne’ generali stranieri a lui sottoposti. Avrebbe pertanto Raimondo quelle contrarietà medesime incontrate che maggior messe di gloria gl’impedirono di raccogliere nella guerra di Castro. Può supporsi altresì che a lui, da più anni soldato dell’imperatore, il mutarsi in sostenitore dei disegni della Francia, ostili alla casa d’Austria, non dovesse riescire né agevole, né gradito. Spento poi colla morte di Francesco I il genio guerriero degli Estensi, che non doveva se non nel secolo successivo dare qualche lampo di luce per opera del duca Francesco III, sarebbe forse cessata la vita guerresca di Raimondo che, già onorato de’ gradi più elevati e con fama [p. 253 modifica]di valentissimo uomo di guerra, avrebbe forse trascorsi nella pace domestica, dolce invero ma senza gloria, i molti anni che ancora gli rimanevano a vivere. Rimasto egli invece in Germania, benché mai non gli venisse meno il contrasto degli emuli, poté finalmente con opera instancabile di senno e di valore conseguire quella fama, in che dura oggi ancora il suo nome.

Non essendosi per allora potuti accordare i diplomatici che a Münster e ad Osnabruck trattavano per impor fine ad una guerra che, durata per così lungo corso d’anni, pareva diventata una condizione abituale d’una gran parte d’Europa, dovette Raimondo perdurare nell’ingrato compito di tenersi con scarse forze in guardia nella Slesia contro le imprese che tentar vi potessero gli svedesi. Da Braucina (Braunau? Brinitz?) scriveva egli l’ultimo giorno del 1646 ad Alfonso: “L’inimico pensava di farmi una burla, e d’attaccarmi nel quartiere di Freiberg, ma si è trovato ingannato, e dopo aver fatto un viaggio, come si suol dire, al Papa, è ritornato ad Olau colle pive nel sacco”. E in effetto prevenne il Montecuccoli l’assalto che dar gli voleva il Wittemberg a capo di otto mila uomini, ritirandosi, colla poca gente che aveva con lui, da Freiberg a Braucina, come egli chiama quella terra.

Avvisava il Torresini, all’aprirsi del nuovo anno 1647, come il Wittemberg, passando l’Oder, si fosse ridotto nuovamente in Boemia; e soggiungeva il Siri, che Montecuccoli, con celerissima marcia seguitandolo, si pose il 20 di gennaio tra Olau e il ponte pel quale era egli passato, e bruciò questo ed i mulini con segherie ch’erano sul fiume, recidendone anche i sostegni acciò non potessero venir ricostrutti; del qual fatto lasciò ricordo ne’ suoi Aforismi lo stesso Raimondo. Il Wittemberg pertanto, che aveva corso pericolo di venir sopraffatto da altro esercito imperiale, avea dovuto pel fiume, allora ghiacciato e da lui ricoperto di paglia, ripassare in Slesia, tenendosi sui confini per aver agio di scorrere or questa or quella provincia, essendogli sempre ai fianchi il vigile generale italiano. Fu una volta una zuffa tra loro, durata tre ore al passaggio di un bosco, volendo Wittemberg passare per di là nella contea di Glatz; il che non [p. 254 modifica]potendogli impedire il general cesareo, si ritrasse a Königsgratz, con buona ordinanza però, e senza patir molestie dal nemico. Assediò il Wittemberg anche una terra dal Torresini indicata col nome di Oppolia, che sarà senz’altro Oppeln, e prese il castello di Johansberg che invano un piccolo nucleo di soldati imperiali tentò riacquistare, il che neppure riescì, impedito dalle nevi, come narra il Priorato, allo stesso Montecuccoli unito al Pompei. Più fortunati questi due italiani nel soccorso che recarono all’assediata Troppau, perché al loro avvicinarsi stimò bene il Wittemberg di levare il campo. Dal Siri ci viene narrato altresì, come il 7 di febbraio del 1647 il Wittemberg tentò di sorprendere ne’ suoi quartieri il Montecuccoli, che invece lo assalì esso pel primo; se non che dopo un combattimento durato, al dire del Torresini, tre ore, vedendo Raimondo che colà tutto l’esercito svedese si veniva adunando, si ritrasse a Naschod, lasciando dietro di sé una retroguardia a tener a bada il nemico; sinché questo, dopo perduti trecento cavalli, si ritirò. Fu parimente Raimondo, continua il Siri, assalito da altri svedesi usciti da Olmütz; ma li batté, e crebbe di soldati le guarnigioni delle fortezze in quelle parti. Quando poi poté aver certezza che Boemia e Moravia erano già ben provvedute di gente di un altro corpo imperiale, il 20 di aprile di quell’anno 1647, diede alle sue truppe il riposo de’ quartieri d’inverno. Era continuata quella campagna dodici mesi, durante i quali colle scarse forze di che poteva disporre, non si lasciò dal nemico superare, e molte delle imprese da lui tentate mandò a male, due forti ruinò sopra i difensori loro, e tre altri impedì che fossero presi, mercé i soccorsi che loro condusse. Distraendo le forze nemiche, coprì le operazioni degli imperiali che stavano a quel tempo ricuperando una parte delle terre perdute. Le quali cose da lui operate con forze, come dicevamo, impari al bisogno, e la continua vigilanza per non trovarsi ridotto a mali passi da un nemico che, poderoso com’era, da più parti avrebbe potuto assalirlo, così la riputazione sua aumentarono, che l’opinion pubblica, come il Torresini scriveva, a lui e al Colloredo dava la palma su gli [p. 255 modifica]altri generali che, morto Galasso ed assente Piccolomini, militavano allora per l’impero. Lo stesso Menzel che tra gl’italiani al solo Montecuccoli rende giustizia intera, lasciò scritto, che ai vecchi eroi degli eserciti imperiali, tra i quali almeno questa volta annovera Galasso e Piccolomini tanto da lui altrove vilipesi, si preparava un successore nel giovane Montecuccoli, che allora appunto si era bene diportato in Slesia. E qui riferiremo due fatti da quello storico riportati in nota, che sono da aggiungere a quelli da noi narrati: l’essersi cioè Raimondo impadronito del castello di Fürstenstein cogliendo l’occasione di una sortita della guarnigione per far prede, e l’aver battuto in aperta campagna il presidio di Münsterberg, uscitone allo scopo medesimo. Ai generali che dicevamo nominati dal Torresini come i migliori, si aggiunse non guari appresso Jean de Werth. A lui, con violazione di una promessa fatta a Raimondo per ritenerlo nell’esercito imperiale, fu nel luglio del 1647 conceduto quel grado di generale di cavalleria che al nostro italiano spettava: e con che amarezza dell’animo suo è agevole l’immaginare, tanto più se si pensi che l’onore compartito al De Werth era premio a un tradimento. Infatti egli, generale dell’elettore di Baviera, per istigazione dell’imperatore, e confortato da amplissime assoluzioni mandategli dai gesuiti, s’era posto a capo di una trama di ufficiali bavari, per la quale avrebbero dovuto le truppe, abbandonando l’elettore che volea serbarsi neutrale, passare al campo imperiale: e questa trama fu poi sventata dagli stessi soldati. Confiscò allora l’elettore i beni del fuggitivo generale, quelli cioè che la sua spada gli aveva provveduto, essendoché fosse egli nato, come dicemmo già, d’un povero contadino vallone; e confiscò altresì quelli del general Spork, che fu pur esso in origine un contadino della Vestfalia, e che finì col procacciarsi, se il vero scrisse il conte Magalotti ministro di Toscana a Vienna, una rendita annua di 50.000 fiorini. Grossi premii furono banditi a chi li arrestasse e li ponesse in poter dell’elettore, che probabilmente ad essi serbava la sorte toccata a Wallenstein. Se non che non tardò poi guari egli stesso, siccome avremo a dire, a venir meno ai patti della tregua convenuta coi francesi. [p. 256 modifica]

Ma se grave sarà riescito al nostro italiano il torto ricevuto, egli “come cavaliere prudentissimo”, per usar le parole del Torresini, “dissimulava il disgusto”: a mitigare il quale venne poi alcuni mesi più tardi una nuova promessa, della quale diremo più oltre. A dimostrare come al vero si apponesse il Torresini nel giudicio che dicevamo aver egli recato, sul modo onde in quella circostanza si contenne il Montecuccoli, amiamo riprodurre la narrazione di questo fatto ch’ei medesimo mandò in una lettera sua del 22 di luglio 1647 al principe Mattia de’ Medici: “...Vostra Altezza Serenissima avrà similmente inteso, come Sua Maestà avea fatto rappresentare alli Reggimenti di cavalleria di Baviera il giuramento che aveano prestato all’Imperio, e per conseguenza alla Maestà dell’Imperatore che n’era capo, e che però dovessino venire a congiungersi all’Armi Imperiali, e Jovan de Wert s’era offerto di condurli, et erano di già in marcia, ma non so come, si ripentirono poi dopo, e si sollevarono, onde detto Johan de Wert e lo Sporck si salvarono soli, e vennero qua, dove Sua Maestà per riconoscenza del buon servigio che avevano avuto voglia di rendere, ha fatto quello Generale della Cavalleria, e questo Tenente Maresciallo”. In questa lettera non che scorgersi ombra di rancore, si ha dimostrazione di ossequio all’imperatore, del quale si cerca onestare il procedere mercé la suprema autorità sua nell’impero. Ma questa non potevasi estender sino a ribellare i soldati ai principi loro, che avevano diritto, perché mancava modo all’imperatore di aiutarli al bisogno, di rimaner neutrali, mentre poi tanti altri di loro avevano assunte le parti di Svezia e di Francia, avendo questa guerra allentati que’ legami che già tennero unita la confederazione alemanna.

Al tempo in cui, benché fosse ormai incominciata la primavera, dava Raimondo alcun riposo alle sue truppe, ritornava il conte Alfonso a Vienna per un ultimo tentativo di trovar modo di evitare al suo sovrano di entrare in guerra cogli spagnoli in Lombardia: e promise infatti l’imperatore che a ciò si sarebbe adoperato, e che se la cosa riescisse a bene, avrebbe ricevuto Francesco I il titolo di vicario imperiale in Italia. [p. 257 modifica]Ma quel progetto dalla malignità de’ ministri spagnoli di Milano venne fatto svanire; ond’è che non tardasse più oltre il duca di Modena ad accettare il comando in capo delle truppe francesi in Italia, coi patti che si posson legger nel Mercurio del Siri, fra i quali era quello di non avere a portare le armi contro l’imperatore. Non ho documento a provare che in tal circostanza il conte Alfonso rinnovasse la dimanda pel congedo di Raimondo, ma forse avrà trovato egli medesimo, dopo quanto era precedentemente accaduto, che inutile sarebbe tornato l’insistere sopra di ciò, E neppure mi è noto se in qualche luogo si abboccasse con lui, non essendosi la sua dimora in Germania protratta oltre un mese. Da Vienna il Torresini lo annunziava già partito in una sua lettera del 4 di maggio 1647, insieme con un marchese Malaspina, ed una buona scorta di servi a cavallo e ben armati “perché le insolenze de’ soldati rendevano mal sicuro il viaggio”. Non fu per altro a Vienna, secondo stimo, il generale Raimondo, quantunque ve lo chiamasse il Torresini; il quale reputava opportuno che di persona facesse istanza per conseguire il grado che dicemmo essergli stato promesso. Ma in altra sua lettera posteriore (del 25 di maggio) narrava, che allora Raimondo era stato chiamato in quella città per un consiglio di guerra presieduto dall’imperatore, dove far doveva relazione delle cose di Slesia e di Moravia, ed esporre al tempo medesimo l’opinion sua circa il modo con che s’avesse a condurre la nuova spedizione in quelle provincie. E questo fece egli a voce e per iscritto, specialmente insistendo acciò venisse colà rinforzato l’esercito, il che, come di consueto, gli venne promesso.

Più gravi ancora che per l’innanzi si facevano i pericoli in quelle parti, perché al Wittemberg, che andava ad unirsi a Wrangel, veniva sostituito nel comando delle truppe svedesi il Königsmark generale ancora più energico e di più grido. Il Montecuccoli poi, quantunque insistessero i ministri acciò senza indugio ritornasse in Slesia, non trovavasi in grado per allora di soddisfare a quel desiderio. Lasciando stare che, secondo scriveva il Torresini, “la poca applicazione e la gran confu[p. 258 modifica]sione” ch’era nell’aule ministeriali, lo facevano certo di avere a trovarsi colà con poco seguito, le fatiche durate nell’ultima e così lunga campagna gli avevano infievolita la salute, e gli era mestieri a quel tempo di attendere a risanarsi. Gli avvenne pertanto di dover rimanere in Vienna per farsi trar sangue, e di passare quindi a Baden, ove per venti giorni s’intrattenne ricevendo molto giovamento da quelle acque minerali. Di là richiamollo l’imperatore perché andasse ad incontrare a Praga le sue truppe provenienti dalla Slesia, e gliele conducesse a Pilsen, dove sotto il comando proprio radunava egli un esercito di venticinque mila uomini. Aveva designato l’imperatore di muovere con quella gente al soccorso di Egra; ma il vecchio general Slick, presidente allora del consiglio di guerra, ad evitare il danno che alle terre sue proprie sarebbe derivato dal passaggio dell’esercito, così lungo cammino gli prescrisse, che quando pur giunse presso Egra, quella piazza, quantunque dal colonnello Paradisi che la comandava fin che gli fu possibile con grande ardimento difesa, era già caduta il 17 di luglio in potere di Wrangel . Lasciò liberi quel generale gli ufficiali, e incorporò i soldati (18 compagnie di fanteria e di cavalleria) nell’esercito suo, come già poco innanzi aveva fatto di quelli di Sweinfurth da lui occupato. Cercò poscia l’imperatore, come si legge in una lettera di Montecuccoli, di trarre a battaglia il nemico, assalendo il castello di Falkenau a tre leghe da Egra; ma si mutava d’un tratto a quel tempo la condizione de’ guerreggianti. L’essersi il Turenna allontanato dall’esercito svedese per la consueta altalena del Mazzarino, il quale non volendo forti gli alleati suoi, li soccorreva se deboli, e li abbandonava se per vittorie o conquiste si afforzassero; e l’avere la Baviera, contro i patti convenuti, [p. 259 modifica]benché non ratificati ancora dal titubante elettore, mandato soldati agl’imperiali, costrinsero Wrangel a lasciare la Boemia, per ricongiungersi al Turenna andato nel Lussemburg . Ma innanzi di venire a questo partito aveva egli tentato un audace colpo di mano, che in diversa guisa nelle scritture di quel tempo vien raccontato. Dirò da prima di quel fatto ricavandone i particolari da una lettera del Torresini, e riferirò poscia una diversa spiegazione di quell’avvenimento portaci dal Priorato.

Trovandosi, scrive il diplomatico nostro, l’esercito imperiale di fronte al nemico a una lega da Egra (che era. come dicemmo, occupata dagli svedesi) la mattina del 28 di luglio 1647, il general Wrangel mandò un’eletta mano de’ meglio armati e de’ più animosi ufficiali del suo esercito, cinquecento di numero, ad assalire il quartiere dell’imperatore per farlo prigioniero. Trovarono addormentata la prima sentinella avanzata, il che porse loro occasione di proceder oltre inosservati; ma datosi finalmente l’allarme, accorse con mille cavalli il Montecuccoli, e duecento di quegli ufficiali rimasero uccisi, altrettanti prigionieri, riescendo gli altri cento a porsi in salvo colla fuga. Sarà stato tra questi ultimi quell’Helm Wrangel, cugino del generale, che il Siri ed altri dicono fosse a capo di quell’impresa, e che poco dipoi rimase ucciso a Triebel. Racconta invece nella sua Scena di uomini illustri il Priorato, come il campo imperiale fu assalito da seimila cavalli svedesi, e che accorso a briglia sciolta sul luogo il tenente maresciallo Pompei, comandante l’ala destra e il campo imperiale, li batté, e cinquecento di loro fece prigionieri. Ma l’autore medesimo in altr’opera sua (Historia delle guerre di Ferdinando II e III) della ripulsa degli svedesi fa primo autore un colonnello Lavenstein, e dice che essi, mentre in così pericoloso frangente si vedevano di fronte anche i soldati imperiali, si diedero a far prede fin sotto il castello ov’era l’imperatore [p. 260 modifica](cosa invero da non credere così facilmente), e così lasciaron tempo al Pompei di scagliarsi sopra di loro. Eran poi intorno a quel castello, secondo ei narra, accampati dragoni e croati, e colà era andato l’imperatore a passare la notte senza che ciò ad alcuno fosse noto: il qual racconto è pieno d’inverosimiglianze. A noi converrà più presto attenerci a quanto scrisse il Torresini che aveva modo di attingere a fonte ufficiale: il quale, se fosse stato indotto in errore, non avrebbe mancato di rettificare in seguito quanto aveva narrato. Ben può darsi nondimeno che avesse parte in quella fazione il Pompei altresì. Ad essa, tra gli storici tedeschi a me noti, accenna solo e con brevi parole il Menzel, dicendo scampato l’imperatore fuggendo quasi nudo. Non guari andò poi che agli svedesi restituirono gl’imperiali la visita che a loro avevano fatta, come saremo per dire.

Non ostante questo parziale vantaggio ottenuto, assai confusamente procedevano le cose tra gl’imperiali, menomati da diserzioni e da malattie che molte vittime fecero tra loro: e fu solo il poderoso rinforzo che ad essi portò l’esercito bavaro, e l’allontanarsi di Turenna e poscia di Wrangel, che posero riparo ad una condizione di cose che stava per divenire intollerabile. Con infelice consiglio l’imperatore, dopo la morte di Galasso, aveva dato il comando delle truppe all’Holzapel, più conosciuto sotto il nome di Pietro Milander (o Melandro), uomo invecchiato bensì nelle guerre, ma che era lungi dal possedere la sapienza militare del Montecuccoli. Dopo aver combattuto contro l’imperatore nelle truppe assiane, aveva disertato quelle bandiere passando al nemico: e fu allora singolar fatto il veder lui, protestante, a capo di quelle armi che, secondo l’intenzione dell’imperatore, dovevano essere adoperate ad estirpare dalla Germania il protestantismo. E la diversità della religione alienò al capo i suoi sottoposti, secondo scrisse lo storico Gazzotti. E ciò affermava anche il Basnage nella sua Storia delle Provincie unite, aggiungendo, questa essere stata la cagione che, per cercar di togliere i dissidii, indusse l’imperatore ad andare egli stesso colle truppe ad Egra. [p. 261 modifica]

Dopo due mesi di poco fruttuosi campeggiamenti, l’esercito imperiale si era ritirato da Egra; allorquando al nuovo generale venne fatto di compiere una buona impresa il 22 di agosto, approfittando della circostanza che trovavasi allora l’esercito nemico spartito in due campi non prossimi tra loro. Fu questa la battaglia di Triebel in Boemia, la quale, mercé il valore di Montecuccoli e di Jean de Werth, finì colla vittoria delle armi imperiali. E noi diremo di questo fatto d’arme, valendoci della relazione mandata al duca di Modena dal Torresini, che si estende a molte cose particolari non accennate nelle sue storie dal Siri, e che fu ricavata dal dispaccio ufficiale venuto da Pilsen, secondo da lui fu avvertito. Narra egli adunque, che il 22 di agosto (1647) allo spuntar del giorno, essendo sortita dalle trincee la maggior parte della cavalleria imperiale, comandanti dell’ala destra Jean de Werth e della sinistra Montecuccoli, i due corpi, protetti dai boschi, si avanzarono fino ad un tiro di moschetto dal campo nemico. Uscirono allora contro di essi sedici squadroni di cavalli svedesi. Finsero gl’imperiali di ritirarsi, e per tale stratagemma trassero il nemico che li inseguiva, fin presso al luogo occupato dalle fanterie, a capo delle quali era Milander. Ne sorte un’accanita zuffa, che, durata tre ore, finì colla ritirata degli svedesi, mille de’ loro essendo rimasti uccisi, mille feriti e duecento prigionieri: tredici stendardi (20 dice Siri) rimasero trofeo de’ vincitori. Di questi restarono trecento sul campo, col colonnello del reggimento di corazze del Montecuccoli (o il tenente colonnello secondo scrisse Torresini), che il Siri aggiunge fosse un conte Ghisl. Tra i feriti era il colonnello Piccolomini, nipote pur esso del rinomato generale. Mille e cinquecento uomini disse il Siri aver perduto gli svedesi con molti ufficiali; e tra questi quell’Helm Wrangel, del quale poc’anzi dicevamo. Divide egli questa battaglia in due fazioni, nella seconda delle quali Milander e Jean de Werth avrebbero assalita la cavalleria nemica quando questa, credendo ogni cosa terminata, aveva dissellati i cavalli: e ciò sembra dal Montecuccoli confermarsi dove, parlando negli Aforismi delle sorprese da farsi al nemico, dice doversi scegliere le ore più opportune al[p. 262 modifica]l’uopo, la sera o sul mezzogiorno, “quando la gente è a foraggio”; e reca questo esempio: “Sul meriggio assaltarono gli imperiali il campo svedese a Tribol in Boemia l’anno 1647 con felicissimo successo”. Mandò poi egli stesso una relazione di quella battaglia al principe De’ Medici, la quale non è a mia cognizione che sia giunta fino a noi, e che nel seguente brano della lettera che l’accompagnava, si trova compendiata: “Alli 22 s’entrò improvvisamente con 4 mila cavalli dentro al suo campo, e se gli tagliarono a pezzi da 1500 huomini”. Il giorno precedente erano stati tolti al nemico quattro piccoli pezzi di cannone, come nella lettera stessa si legge.

Stupende prove di valore fece in quella battaglia Raimondo, rovesciando, come scrisse Basnage, quanto gli si parava dinanzi. Ebb’egli un cavallo ucciso sotto di sé, e si trovò anche per più di un’ora con un solo drappello de’ suoi in mezzo ai nemici. Apertasi col ferro la via, e riunitosi all’ala sinistra dell’esercito, cercò entrare con essa nelle trincee del nemico; ma la profondità dei fossati pieni d’acqua gli fece ostacolo. Ampia testimonianza del valore in quella battaglia dimostrato dal Montecuccoli, secondo avvisa il Torresini, ebbero a fare quanti ad essa presero parte. Si ritrasse allora il Wrangel più addietro in luoghi muniti, come scrisse Priorato, col pensiero di prender poscia altra via per penetrare più addentro nella Boemia; gli tenne dietro Milander, ma poi si fermò a Raconitz. Il Siri racconta invece che fossero gl’imperiali quelli che si ritrassero.

Poco dopo la battaglia di Triebel reiterò Raimondo all’imperatore in Pilsen le istanze, perché gli fosse finalmente conceduto di andare in Italia: e questa volta l’asprezza del rifiuto ch’egli ebbe, fu almeno mitigato da una provvisione di ventimila fiorini sulle rendite della Stiria, e dalla promessa che l’accrescimento di grado al quale aveva diritto, non gli sarebbe ritardato a lungo; ed anzi tien parola il Priorato di un breve imperiale che lui nominava generale di cavalleria, questo però aggiungendo, che “non ne seguì la pubblica dichiarazione che l’anno 1648”. [p. 263 modifica]

A questa nuova richiesta di congedo porse motivo una lettera scritta il 23 di agosto e da lui allora ricevuta, per la quale il duca di Modena, con proposte di singolari onorificenze, lo chiamava presso di sé, dichiarando “che in caso di ripulsa resterà con poca soddisfazione trattandosi di una negativa impropria e non dovuta”. Ma il duca ebbe senz’altro ad accettare per buone le prove ch’ei gli porse, del desiderio suo di obbedire al comando ricevuto, e quelle degli sforzi da lui fatti per ottenere un congedo che sempre venivagli negato. Vediamo infatti non venuto meno nel principe l’antico affetto pel suddito insigne, dell’opera del quale continuò a valersi per quanto occorrer gli poteva in Germania. E’ nell’archivio di stato in Modena la minuta di una lettera senza data, ma certamente di quest’epoca, colla quale, per mezzo di un ministro, Raimondo veniva incaricato dal duca “di un negozio di cui non può essere più viva la premura, né più gelosa la confidenza”. Doveva cioè rappresentare all’imperatore, uno per uno, gli aggravii dai ministri spagnoli di Milano recati alla casa d’Este; come per opera di loro non avessero potuto condursi a termine quegli accordi de’ quali dicemmo trattasse a Vienna il conte Alfonso, e come da cotal cagione fosse di necessità derivato che l’animo di lui si alienasse dagli spagnoli, e per questo avesse ceduto alle istanze, e anche alle minaccie della Francia, accettando il comando delle truppe di quella nazione in Italia: avvertisse però Raimondo l’imperatore, che si era stipulato non mai avrebbe il duca portato le armi contro gli stati imperiali. Le quali ragioni sappiamo che a bastanza efficaci furono giudicate a Vienna, e tanto più che Raimondo fu altresì incaricato di far presente all’imperatore, quanto ad esso tornar dovesse più utile che le conquiste da farsi in Lombardia cadessero, anzi che in mano de’ francesi, in quelle dei duchi di Savoia e di Modena, fedeli alleati della casa imperiale.

Nel novembre fu dato a Raimondo l’altro onorevole incarico di partecipare all’imperatore il matrimonio del duca con Vittoria Farnese, sorella della defunta sua moglie. Era esso allora tornato in Modena dopo la prima spedizione fatta con [p. 264 modifica]truppe sue e di Francia su quel di Cremona; il conquisto della qual città non si poté condurre a compimento, sì per l’indisciplina de’ soldati, come ancora per la poca energia adoperatavi dai generali francesi, perché quell’impresa tornar doveva di utilità al solo duca di Modena, al quale in compenso delle spese incontrate sarebbe rimasta quella città. Nei piccoli fatti d’arme che resero difficile la ritirata, fu lievemente ferito in una gamba il conte Alfonso Montecuccoli, che dagli offici diplomatici era ritornato alla professione sua di soldato . E grave fu il pericolo da lui corso, essendogli stato ucciso al fianco il suo cornetta. Anche i Pegolotti, de’ quali fu parlato allorché dicemmo della guerra di Castro, vi perdettero uno di loro, che vi copriva il grado di sergente generale di battaglia. Trovavasi al campo anche il marchese G. Battista, primogenito del marchese Francesco già per noi nominato, con grado di capitano delle corazze; e a lui probabilmente va riferito un passo di una lettera di Francesco Carletti, che era uomo d’affari di monsignor Paolo Coccapani vescovo di Reggio. A nome di lui mandava il Carletti alla famiglia Coccapani in Modena una memoria che diceva: “Il marchese Montecuccoli e il conte F. si erano sfidati in duello. Ma non sono lasciati andare innanzi”. Anche i francesi del maresciallo Noailles toccarono una sconfitta a Bozzolo, ed il duca Francesco, che si fece largo co’ suoi soldati di mezzo a due corpi di spagnoli, a stento riuscì a proteggere la loro ritirata. Torna poi superfluo il notare a questo luogo che nuovi importabili aggravii recò anche questa guerra ai sudditi estensi. Delle rimostranze che per questo vennero fatte al duca dagli uomini di Montecuccolo, è documento nell’archivio di stato in Modena. E qui, prima di rifarci a dire del nostro gran capitano, non ci pare di dover tacere di un parente suo, venuto a morte in Sassuolo l’anno seguente a quello di cui ci occupiamo: intendo del cappuccino Antonio, figlio del conte Ferrante Montecuccoli [p. 265 modifica]feudatario di Polinago, e di Anna della linea de’ Montecuccoli dimorante in Ferrara; fratello esso di Massimiliano, maggiordomo della prima moglie del duca Francesco I. Di codesto frate scrisse la vita il P. Zaccaria Barberi (che nel 1667 la dedicò al generale Raimondo) lodandolo per austerità di vita e per facondia nel predicare ; ond’è che era stato assunto alla maggior dignità del suo ordine, e fu poi giudicato esser egli morto in concetto di santità. Due nipoti di lui che assistettero alla sua morte, fecero risoluzione subitanea di entrare nell’ordine monastico nel quale gran parte della sua vita aveva egli trascorsa. Di Francesco Montecuccoli, uno di loro, ci rimane la lettera al duca con cui scusavasi se, per vestir l’abito francescano non aveva atteso, come avrebbe dovuto trovandosi al servigio suo, il consenso di lui.

Dalla Boemia frattanto dava notizia Raimondo dei movimenti delle truppe, così degli imperiali come degli svedesi, cagionati dalla mancanza or dei viveri or dei foraggi; e diceva, che se stavano gli svedesi attendendo duemila cavalli che loro mandar doveva Königsmark, ben maggior rinforzo sarebbe venuto agli imperiali dalla congiunzione che speravano colle truppe bavare, e che loro avrebbe fatto facoltà di liberare da stranieri la Boemia. Questa congiunzione tuttavia non accadde se non un mese dopo che ebbe Raimondo scritta quella lettera, cioè il 21 di ottobre, compiuti che furono i preliminari di quegli accordi. Erano i bavari in numero di sette od ottomila. Si fece allora Raimondo a proporre, che colla cavalleria rapidamente si procedesse per impedire a Wrangel di riparare ai monti boemi. Plaudirono tutti all’opportuna proposta; ma allorquando si fu per metterla in atto, rimase in tronco, perché sorsero gare di precedenza tra Milander comandante degli imperiali, e Gronsfeld generale de’ bavari, e subito dopo le minaccie de’ ministri francesi contro questi ultimi se osassero procedere più oltre, sicché negarono poi di mettersi a quell’impresa. E qui nota lo Schiller, che i bavari ambivano d’imporsi agli imperiali e di tenerli a [p. 266 modifica]freno, al modo che usavano i francesi colle truppe di Svezia, perché essi bavari temevano che l’imperatore, divenuto troppo potente, non fosse per porre ostacolo alla pace ormai da tutti desiderata. Ad ogni modo, il Milander avrebbe dovuto tentar d’impedire agli svedesi, più deboli di lui e già battuti a Triebel, che raggiunger potessero i francesi nel Lussemburgo, come poi in effetto riuscirono con inestimabil danno degli imperiali; ma più opportuno sembrogli il dar corso ad un malvagio suo progetto che da tempo andava maturando: mostrarsi cioè nell’Assia, patria sua com’io credo, e per la quale aveva militato, a capo di un esercito imperiale, e metterla a ferro e a fuoco per vendicare non so che torti, che dalla langravia diceva aver ricevuti. E la cosa riescì da prima a norma de’ suoi desiderii. Richiese egli tosto colà, con minaccie di saccheggio, una contribuzione mensile di centomila fiorini , e, senz’altro attendere, mandò il Montecuccoli a dare, secondo il Priorato si esprime, un improvviso allarme a Cassel con tremila cavalli. E noi amiamo pensare che di mal animo avrà obbedito all’ordine che gli fu dato, di saccheggiare tre villaggi presso la città, e di abbruciare quello di Bettendorf. E ben poté egli prevedere, che le devastazioni commesse dal Milander e là e nella Franconia ove per disperato, mancandogli i viveri, ritrar si dovette, sarebbero tornate in danno delle stesse truppe imperiali, le quali infatti per poco non ebbero allora a perir di fame. Né poi ottenne Milander lo scopo che si proponeva di umiliare la langravia; la quale dagli storici alemanni e dal Siri ebbe lodi per l’eroismo di che diede prova durante la guerra dei trent’anni, e perché non mai si lasciò indurre ad accettare proposta alcuna da chi aveva disertato le sue bandiere, quelle neppure che a scampo della persona sua le venne facendo .

Presero gl’imperiali la città di Marburg, ma non poterono [p. 267 modifica]averne il castello, secondo si ha da lettere di Raimondo, che annunziava ancora aver preso i quartieri prima sulle sponde del Meno, poi nel Palatinato.

Mentre in cotal guisa snervava Milander l’esercito suo, il Wrangel invece, come Raimondo scriveva, nel Luneburg e a Brunswick attendeva a rifornirsi di uomini, di viveri e di cavalli . E in quell’inverno medesimo del 1648 tornò alla riscossa contro Milander, costringendolo ad uscire in campagna con truppe ridotte nella condizione che dicemmo. Ond’è che, troppo debole per resistergli, si ritrasse Milander il meglio che poté al Danubio, e sulle sue sponde, senz’arte nessuna, allogò in uno e in altro paese le truppe. E perché neppure curò che si facesse buona guardia, improvvisi gli giunsero sopra, come siamo per dire, e francesi e svedesi e gli stessi soldati dell’Assia, anelanti alla vendetta delle devastazioni patite nella patria loro. Iterate istanze faceva in questo mentre il Wrangel a Turenna, acciò dalle sponde del Reno, ove s’intratteneva, venisse ad unirsi a lui; ma tornategli vane, gli subornò quel generale la cavalleria tedesca, stata già di Bernardo di Weimar: ond’è poi che il Mazzarino si vedesse costretto a comandare a Turenna di congiungere finalmente le sue truppe a quelle di lui. Insieme più città conquistarono, movendo poscia verso il Danubio in Baviera, come annunziò in una sua lettera Montecuccoli; il quale soggiungeva, aver perciò gl’imperiali passato essi quel fiume presso Ingolstad, per impedir poi al nemico il passaggio del fiume Lech, se da quella parte lo tentasse. Occupavansi i franco-svedesi nell’assedio di Wallenstein presso Nordlingen che loro si arrese, avendo fatto poscia un ponte sul Danubio a Donauwerth. Dicono gli storici che il Milander non si desse troppo pensiero di ciò che i nemici operassero, perché avendo ricevuto un rinforzo di 2000 uomini, si trovava ad aver forze pari a quelle del nemico ch’era di là dal Danubio. Ma se Milander sonnecchiava, Montecuccoli e Pompei, da quegli ac[p. 268 modifica]corti capitani che erano, vigilavano agli antiguardi, e pronti si trovarono a sostenere il primo urto de’ nemici. A Susmarshausen il 17 di maggio (1648) s’ingaggiò la battaglia. Narra Turenna, nelle sue Memorie, che la prima ad essere assalita fu la retroguardia di Montecuccoli che comandava un’ala degl’imperiali. A quella gente, incalzata dal crescente numero de’ cavalli francesi tornò impossibile, l’evitare il disordine. A sostenerla condusse altre truppe lo stesso Milander, e per alcun tempo poté trattener l’impeto de’ francesi; ma finalmente rimase egli ucciso o, come altri scrisse, mortalmente ferito, morendo poco di poi; ed è da credere che nessuno si dolesse dell’averlo perduto. Sogliono infatti i soldati ai capitani previdenti e che di loro tengono cura amorevole, affezionarsi, e dovunque li adducano seguitarlo volonterosi; ma prendono di corto in disistima chi dal nemico per manco di vigilanza si lasci sorprendere, e poco si curi della salute dei sottoposti. Aveva l’Holzapel, più conosciuto sotto il nome di Pietro Milander, militato da prima nelle truppe di Maurizio d’Orange, nelle venete poscia, e finalmente nelle assiane col grado supremo che mantenne ancora nelle imperiali. Lui morto, la cavalleria venne obbligata a riparare in un bosco, mentre che la fanteria era battuta dagli svedesi. Ecco ora come Raimondo stesso di quella battaglia dié conto al principe Mattia de’ Medici, alcun poco la gravità di quel disastro attenuando.

Humilissamente porto a V. A. S. come l’inimico, alli 16 di questo, passò con ogni diligenza il Danubio e s’avanzò con tutta la cavalleria e dragoni per vedere o di sorprenderci nei quartieri, o di farci qualche danno nella marcia e d’obbligarci con suo vantaggio a qualche attione capitale; e però alli 17 la mattina a buon hora, alle 7 hore, comparse a vista nostra con tutta la cavalleria e co’ dragoni, seguitandogli dietro a due leghe la sua fanteria. Toccò a me che ero nella retroguardia con 2500 cavalli, 800 moschettieri et 4 pezzetti d’artiglieria a sostener l’impeto del nemico, che con la superiorità del nu[p. 269 modifica]mero ci teneva attaccati da tutte le parti. Il combattimento fu fiero e bizarro e durò più di 6 hore continue, perché bisognò sempre combattendo ritirarsi due gran leghe sin’all’armata, la quale schierata sopra un posto avvantaggioso in battaglia aspettò di piè fermo l’inimico, il quale doppo che gli fu arrivata la sua fanteria, cominciò a far prova di sforzare i passi che ci erano posti dinanzi (il che però non gli poté riuscire); onde si ricominciò una zuffa gagliarda che durò sin alla sera. L’inimico perse da 5 in 600 huomini, e fra quei di considerazione il Landgravio vi restò ferito, et un capitano delle Guardie del Vrangel suo nipote morto. Dalla nostra parte la perdita è stata un poco maggiore, e fra gl’altri rimase morto il signor maresciallo Holzappel, et il colonnello Boccamaggiore è rimasto prigione e ferito, et molte carra sono rimaste addietro. Adesso le armate nostre passano il Leck appresso Augusta per formar qui il campo ed opporsi ai tentativi che potesse far l’inimico di volerlo passare. E qui a V. A. S. humilissimamente me le inchino. Dal Campo Imperiale di Fridperg il 20 maggio 1648. Di V. A. S. alla quale humilmente soggiungo che il signor cavaglier Martellini, sergente maggiore del reggimento di Baden, e che in quest’occasione era commandante meco, ha dato gran prova del suo valore .

HUMILISSIMO DIVOTISSIMO SERVITORE R. C. MONTECUCCOLI

Non fa speciale ricordo in questa lettera il Montecuccoli della resistenza opposta all’inseguimento de’ franco-svedesi, che minacciavano l’ultima rovina agli imperiali; ma fu quello un fatto di guerra celebrato assai nelle storie di quel tempo , e che fece risuonar alto i nomi del Montecuccoli e del duca Ulrico [p. 270 modifica]di Würtemberg che ne furono gli eroi. E noi ne parleremo, nella prima parte del racconto seguitando il Basnage nella sua storia delle Provincie unite, e il Gazzotti in quella delle guerre d’Europa, e riferendo nella seconda parte quanto da essi e da altri storici si ritrae. Al momento adunque della morte del Milander, trovavasi il Montecuccoli colla gente sua separato dal rimanente dell’esercito imperiale, e andò allora entro un piccolo bosco che fece energicamente difendere dalla scarsa sua fanteria, ed egli medesimo, per meglio incorarla, smontò da cavallo, e si pose in prima fila. Ma avendo finalmente il Turenna fatto circondare da tutte le parti quel boschetto, rimessosi in sella, ordinò alla fanteria cercasse pervenire come meglio potesse a Landsberg, ed egli a capo di pochi dragoni, facendosi largo colla spada alla mano a traverso la cavalleria francese, incolume raggiunse l’antiguardia. Questa, comandata da Gronsfeld, stava fortificando il terreno di là dal ruscello Schmuter, del quale aveva tagliato il ponte, abbandonando dall’altra parte i carri e i feriti. Impedì per un’intera giornata Ulrico di Würtemberg il passo di quel ruscello ai nemici, fulminato dalle artiglierie che sotto gli uccisero sette cavalli, e fecero strage di gran parte della sua gente. E con ciò dette agio al Montecuccoli di raccogliere fuggiaschi e sbandati, e di rannodare le schiere, e ritrarsi poi, incessantemente combattendo contro francesi e svedesi; con scarsa perdita di uomini, a portata del cannone d’Augusta, salvando per tal modo l’esercito che, sotto gli ordini del già nominato generale dei bavari, lo precedeva nella ritirata . Furono ammirati Turenna e Wrangel, dice il Basnage, per la rapidità delle mosse del primo, e il valore del secondo; ma Montecuccoli vi riportò quasi tanta gloria come se avesse vinto. Segue poi dicendo, che Turenna meditava di assalire gl’imperiali presso Augusta, ma dovendo passare il Lech, ove che si presentasse trovava sempre il Montecuccoli, che l’obbligò a discendere dietro il fiume sino ad Obersdorf, seguitandolo gl’imperiali dall’altra sponda. Troppo però essendo deboli [p. 271 modifica]questi, si raccolsero di là dall’Inn, che i francesi non poterono guadare; e là fermaronsi attendendo l’arrivo del capo a loro destinato, che era il general Piccolomini, del quale intanto tenne le veci il Montecuccoli. Raimondo, per la perizia e pel valore mostrati in que’ mirabili fatti, non poteva ricevere elogio più grande e più autorevole di quello che Turenna, del quale, come scrisse Voltaire, in sin d’allora si mostrava degno di stare a fronte , ebbe a fargli, scrivendo nelle sue Memorie che si hanno alle stampe: “ou ne peut pas se mieuz comporter qu’il faisait dans cette retraite”. Da una memoria d’un ufficiale francese il Ramsay riprodusse nella sua storia un passo, nel quale molto si esalta l’intrepidezza del Montecuccoli e del duca di Würtemberg, che non fu scossa né per la morte del generale supremo, né per le gravi perdite subite allora dagli imperiali, né per le difficoltà somme che la ritirata dovea presentare. Delle cose operate da Raimondo in quella giornata, molto ebbe ad encomiarlo anche il duca di Baviera, secondo narra il Wagner nella sua storia dell’imperatore Leopoldo . A queste imprese probabilmente (se non a precedenti promesse) si deve la sua elezione a generale di cavalleria, ch’egli il 30 di giugno 1648 annunziava al principe Mattia de’ Medici da Linz; dov’era andato forse alle nozze dell’imperatore che allora colà ebbero luogo, o piuttosto a chiedere quel rinforzo di truppe di cui è parola in altra lettera sua del 10 di luglio, nella quale diceva prossima la sua partenza da Linz.

Ma se l’ardimento di que’ due capitani scampò allora, come [p. 272 modifica]dicevamo, da una compiuta rovina gl’imperiali, non erano questi tuttavia in condizione di opporsi al rapido avanzarsi de’ franco-svedesi, che occuparono la Baviera, ed in punizione della violata tregua, dopo che l’elettore si fu rifugiato a Salisburgo, interamente la devastarono. E i vincitori sarebbero passati senza più nella bassa Austria dove i villici, sollevatisi di nuovo, li attendevano, se, come alcuni dissero, sterminate pioggie non avesser loro impedito di varcare il fiume Inn. Di queste pioggie non fa però menzione se non più tardi l’autore dell’opera più volte citata delle Azioni egregie di generali e di soldati italiani, il quale di questo impedito passaggio dell’Inn ai franco-svedesi dà merito al Piccolomini che virilmente ogni tentativo loro ributtò, come si legge anche in una lettera di Raimondo. Era accorso il Piccolomini dalla Fiandra per prendere il comando dello sgominato esercito imperiale, mentre gli avversarii erano vittime alla lor volta delle devastazioni che avevano arrecate, e mancavano di viveri; alla quale iattura essendosi poi aggiunto il pericolo di venire assaliti dallo stesso Piccolomini che avea valicato il Danubio a Passau, decise Turenna, secondo scrive egli stesso, di ritirarsi nell’alto Palatinato. In quel tempo al Montecuccoli mandato da Piccolomini alla corte imperiale per ottenere nuove truppe, riusciva di condurgli, secondo nel 13 volume del suo Mercurio racconta il Siri, alcune compagnie di rinforzo, 14 cannoni, cavalli, viveri per trenta giorni, e le paghe per mezzo mese. E perché anche l’elettore di Baviera si pose allora a riordinare le genti sue ridotte a mal partito, il Piccolomini che in quella circostanza fe’ prova di singolare energia, trovandosi allora, come Montecuccoli scrisse, a capo di ventimila uomini, non si peritò di proporre nuova impresa contro il nemico, assalendolo da tergo e di fianco. Ma quel divisamento gli venne guastato, prima dall’opposizione dell’elettore, e poscia dal Königsmark; il quale, voltatosi con improvvisa mossa verso la Boemia vi aveva occupato, aiutandolo un Odowalski tenente colonnello imperiale riformato, una parte della capitale di quel regno, la città piccola cioè, dove immense prede di guerra ei vi fece. Tra queste annovera il Menzel la galleria di [p. 273 modifica]quadri raccolta da Rodolfo imperatore; e ve n’erano alcuni del Correggio, dai quali la giovinetta Cristina di Svezia, per bizzarria, fece tagliar le teste per inchiodarle sopra tappeti. Duecento cinquanta di quei quadri passarono, al dire di Winckelmann, alla galleria del duca d’Orléans . Il Piccolomini disegnò tosto di ricuperare quella porzione di Praga levandosi dalla Baviera; ma perché giusta cagion di lamento ne avrebbe avuto quell’elettore, non volle l’imperatore consentire che di là per allora ei si partisse; ond’è che continuasse quel generale a combattere i nemici che gli stavano a fronte. Pensò da prima di circuire il campo loro ch’era a Dingelfinden, per aver libero poscia un buon polso de’ suoi soldati da mandare in Boemia. Fatto a tal uopo riconoscere il luogo dal Montecuccoli che aveva il comando de’ cavalli, procedé l’esercito imperiale a Meiningen: dette poscia l’assalto ad un fortino fatto erigere da Wrangel; e conquistatolo dopo un combattimento durato tre ore e tagliandovi a pezzi, come Raimondo scrive, 200 francesi, costrinse gli alleati a rinchiudersi nel campo loro: il che, secondo alcuni, era appunto il suo scopo. Montecuccoli afferma per altro che s’intendeva sforzarli a venire a battaglia ch’essi non accettarono, benché entro il lor campo fossero penetrati gl’imperiali. Debole però ed inesperta essendo la cavalleria della quale poteva il Piccolomini disporre, e forte invece e veterana quella dell’avversario, non poté impedir quel generale che frequenti sortite dal campo loro facessero i collegati, e che riportassero parziali vantaggi nelle scaramuccie che allora vi furono. Il 17 di agosto, deciso a trarli finalmente a battaglia, dispose Piccolomini che il Montecuccoli sulla destra e Jean de Werth sulla sinistra attaccassero tutti i corpi di guardia del campo, seguitandoli egli colle altre sue truppe . [p. 274 modifica]Ma quantunque il nemico vedesse da que’ due generali sbaragliati i suoi antiguardi, non volle uscire dalle trincee. Altra volta abbandonò Piccolomini i proprii quartieri, nascondendo le genti sue in un bosco; ma l’esercito nemico non uscì, mandando soltanto un buon polso di soldati ad occupare i trinceramenti lasciati sguerniti dagli imperiali, che poi, uccidendone i nuovi difensori, li rioccuparono, allorché furono certi non volere i nemici commettersi in battaglia. Mosse allora Piccolomini verso Lindau per impedire ad essi i viveri che di là traevano; e fu buon divisamento il suo, perché dovettero i franco-svedesi abbandonare il campo loro, e ritrarsi, inseguiti sempre dagli imperiali, dove più agevole tornasse il provvedersi di quanto ad essi occorreva. Nell’ottobre, racconta il Siri, ebbe ordine Piccolomini di spedire duemila uomini verso Praga; ed egli, trattenuta la lettera imperiale che di ciò faceva avvisato l’elettore di Baviera sempre in timore di vedersi abbandonato dagli alleati suoi, in luogo di 2000, diresse a quella volta 2800 uomini, e per evitare ostacoli per parte dell’elettore, marciò al tempo medesimo contro il nemico. Eragli pervenuta notizia che allora Wrangel coi più confidenti capitani suoi trovavasi a caccia in un’isola presso Monaco, e sperò che gli si offerisse occasione di farlo prigioniero. Sulla strada che era alla destra del fiume, mandò pertanto colla cavalleria il Montecuccoli, e dall’altra sponda Jean de Werth, ponendo il grosso dell’esercito sotto il generale Rauchemberg. Diversi manipoli di svedesi qua e colà vegliavano a guardia del lor generale, e tutti furono battuti e spinti ad impacciarsi in un terreno paludoso: riescì nondimeno al Wrangel di porsi con sollecita fuga in sicuro, non senza però che gli venisse fatto prigioniero, non un nipote suo, come altri scrisse, ma un suo fratello, secondo si ha da una lettera del Montecuccoli, e come ben disse anche il Mailàth; tre colonnelli caddero altresì in potere degli imperiali. Lo storico or nominato e il Menzel narrano poi, che in vendetta del pericolo in che era incorso, più terre della Baviera (venti disse Menzel) venissero da Wrangel devastate. A questo, o meglio a qualche altro combattimento avvenuto in quel tempo, si allude negli Aforismi, ove tenendosi pa[p. 275 modifica]rola dello spingere un esercito contro un corpo debole, si legge: “Così furono battuti alcuni reggimenti svedesi presso Daskau in Baviera l’anno 1648” (lib. I, cap. VI). Di questa ben riescita sorpresa scriveva Raimondo il 12 di ottobre al principe Mattia, che i nemici erano in numero di oltre mille, e che furono presi prigionieri seicento di loro con molti ufficiali, e conquistati altresì quattro stendardi. E da questo fatto derivò, a giudicio di lui, l’improvvisa partenza degli svedesi avvenuta nella notte seguente, loro tenendo dietro gl’imperiali così affrettatamente, che non ebber tempo di respirare, per usar le parole del Montecuccoli stesso. Molti della retroguardia caddero pertanto in mano loro. Finalmente colle truppe stanche e sminuite di numero, Wrangel e Turenna, poco prima vittoriosi e baldi, passarono il Lech e il Danubio, sgombrando la Baviera, ove loro non rimase se non il forte di Rhain, come dalla lettera ora citata di Raimondo, che la scrisse dal campo imperiale a Rosenmark, ci vien riferito.

Tolto per tal modo di pena l’elettore di Baviera, ebbe agio Piccolomini di prendere la via della Boemia, ove già era accorso Buchaim in aiuto di altri due valorosi generali italiani, Colloredo e Conti; i quali con molto vigore combattendo, e col fare eseguire il Conti, peritissimo di queste cose, sempre nuove fortificazioni in luogo di quelle che il cannone nemico e le mine atterravano, avevano impedito al Königsmark l’acquisto di quella parte di Praga ch’era rimasta agli imperiali. Buchaim nonpertanto, in una sortita ch’ei fece con seicento cavalli, restò con altri ufficiali prigioniero del nemico.

Codesti fatti di Praga, che recarono a generali italiani nuova gloria, valsero a tor di mezzo i dissidii diplomatici che avevano intralciato insino allora il corso de’ negoziati per la pace memorabile che fu detta di Vestfalia, e ne accelerarono la conclusione ch’ebbe luogo il 24 di ottobre di quell’anno 1648 a Münster. Del qual evento fortunato ricevé notizia Piccolomini il 27 di quel mese, allorquando, come scrisse Raimondo al principe toscano da noi nominato, plenipotenziarii cesarei vennero al campo di lui a far cessare le ostilità, non tardando poi guari [p. 276 modifica]a stipularsi la tregua. Così finiva una guerra durata trent’anni con tanto spargimento di sangue e con ruina così grande d’intere provincie, da farla reputare una delle maggiori calamità che avesse nelle sue pagine a registrare la storia. Grande scuola nondimeno fu questo lungo seguito di battaglie, e campo di gloria per molti illustri guerrieri, tra i quali i due Montecuccoli. Perdeva l’imperatore la Lusazia che dovette ceder alla Sassonia, e una parte dell’Alsazia, provincia dell’impero germanico, ove a più riprese aveva combattuto Raimondo, e dove in conflitto era morto Ernesto. Frustrava poi questa pace le molte speranze concepite dal duca di Modena pel quale s’adoperava in Münster Alfonso Montecuccoli, e tra l’altre quella di reggere, con titolo di viceré, i possessi italiani della casa d’Austria.

Al cessare di questa guerra si apriva un altro periodo della vita politica e militare di Raimondo Montecuccoli, e questo ci sforzeremo di chiarire nella seconda parte di questa storia.