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tico affetto: della qual cosa ci porgono amplissima testimonianza le commissioni confidenziali che a quel tempo gli furono affidate. Così quando nel marzo del successivo anno 1655 il Caracena procedeva a quell’atto inconsulto d’invadere gli stati estensi, che dovette poi con vergogna abbandonare, a Raimondo venne dato incarico di partecipare all’imperatore quanto era accaduto, e di presentargli a tal uopo una lettera che a sigillo levato gli si mandava, acciò anch’egli potesse prenderne conoscenza. Curerebbe venisse disapprovato dall’imperatore il procedere del Caracena, mentre lo farebbe persuaso della sincerità delle azioni del duca rivolte alla propria sicurezza e alla pubblica quiete “per quanto, come il duca soggiungeva, ci venga permesso dall’altrui malignità”. La narrazione dello accaduto fu più tardi privatamente mandata all’imperatore, e di essa è copia nell’archivio di stato, ed è creduta scrittura del ministro Graziani: volle poi anche il duca che in forma più estesa venisse data alle stampe . Dell’esemplare che ne fu mandato all’imperatore, scriveva Raimondo: “L’imperatore ha il manifesto di V. A. sulla tavola del suo gabinetto: l’ambasciatore di Spagna vi contradice in molti punti”.
Continuava poi dicendo delle pratiche che allora faceva il duca, forse non per mezzo di esso Raimondo, ma valendosi di un colonnello Pardi, il quale sappiamo da lui incaricato di coscriver soldati, per avere al suo servigio 2500 fanti, che il principe Roberto, fratello del palatino del Reno, gli avrebbe condotti a Modena: al quale sarà stato probabilmente negata la facoltà di venire in Italia, ove tuttavia giunsero senza lui le leve tedesche. Ebbe poi Raimondo a smentire la voce che gli spagnoli mandavano in giro per metter il duca in sospetto de’ suoi vicini, ora accusandolo di progetti ostili ai veneti, ed ora di discordie col papa. Circa a queste comunicazioni che dal duca riceveva, era egli solito, nel dar conto di quanto in obbedienza agli ordini suoi aveva eseguito, aggiungere considerazioni sul-