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pure all’Oxenstierna, col quale non era dessa allora in buoni termini, e che avversò ad oltranza quel progetto di lei. Il palatino Carlo Gustavo, a cui qualcuno riferir potrebbe quel passo, io stimo che da men tempo del Montecuccoli fosse conscio della determinazione della cugina sua, la quale di altri termini per fermo si sarebbe valsa, se di lui avesse inteso parlare. Rimane pertanto in me, sino a prova contraria, la persuasione che fosse Raimondo l’amico del quale la regina faceva parola. Quant’è per altro a ciò ch’essa diceva di essersi solo con que’ due dichiarata, sarà probabilmente da intendere nel senso delle prime manifestazioni confidenziali, e delle altre di persistere nel suo proposito, anche dopo che da esso il senato aveva una volta cercato di rimuoverla, non che dei motivi che a ciò fare la consigliavano, come è detto nella lettera ora citata. Intorno poi alle ragioni di diversa natura che trassero Cristina a quel magnanimo abbandono del trono, oltre quella da lei addotta al papa di voler convertirsi alla religione cattolica, sono a vedersi l’Arckenholtz, il Gejier e gli altri scrittori che di ciò tengono parola. Convocò Cristina per l’11 di febbraio in Upsal i senatori del regno, ai quali dichiarò doversi radunare gli stati generali, volendo ad essi significare la ferma sua volontà di deporre lo scettro, dalla quale oramai non si rimoverebbe, come aveva già fatto, tre anni innanzi, quando ne diede ad essi la prima comunicazione. Aveva Raimondo accompagnato la regina ad Upsal, e il dì precedente (10 di febbraio 1654) di là scriveva al principe Mattia: “Sono qui fra le cose più mirabili dell’universo, trovandomi alla Corte della Maestà di questa Regina, che è veramente un prodigio della natura. Né ci mancano le nuove, poiché si trovano qui ministri di tutti i gran Principi del mondo, fuori che di quelli d’Italia ec.”. E sarà stata invero cosa straordinaria quella ragunata di tanti illustri personaggi intorno ad una giovane regina, per vederla fa getto di quegli onori tanto ambiti da altri, e preparasi ad andare esule volontaria fuori della sua patria. Due lettere, oltre quella or ora citata, scriveva Raimondo