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il potere dell’imperatore in Germania maggiormente si erano adoperati, influendo sui principali membri della dieta, e specialmente sull’elettore di Baviera, presso del quale fu a tal uopo mandato un tal Bervaux, gesuita. Sciolti a norma de’ nuovi patti i principi elettori dalla soggezione all’imperatore, liberi di far leghe cogli stranieri, purché non a danno di lui, non a torto poté scrivere allora il nunzio veneto al senato: “L’autorità dell’imperatore è abolita nell’impero”. Lo sfasciarsi di questo vetusto edificio, del quale invero dopo i casi dell’ultima guerra più non rimaneva che l’esterna apparenza, fece dire al Menzel: doversi reputare che le miserie di quella guerra vennero, se possibil’era, superate dalle vergogne della pace. Ma questa, perché necessaria, tornò opportuna, benché non fosse universale. Dopo la cessazione delle ostilità, Raimondo era restato coll’esercito in Boemia, e abbiamo una lettera che il 27 di dicembre indirizzava al duca di Modena da Praga . Colà si occupava egli nel definire coi commissarii svedesi l’indennità dovuta pel mantenimento delle truppe di quella nazione insino all’eseguimento dei patti della pace non ancora convenuti, nella Boemia, in Slesia e in Moravia, e che fu poi stabilita in 42.000 fiorini mensili, secondo egli stesso l’otto di gennaio del 1649 scriveva al principe Mattia di Toscana. Chiamato dal Piccolomini a Budweiss, perché nel frattempo quel generale aveva dovuto andare a Vienna, colà lo raggiunse. La parte presa dal Piccolomini nelle trattazioni diplomatiche e militari che condussero poi alla pace conclusa nel 1650, fu l’ultimo de’ tanti servigi da lui resi alla casa d’Austria e all’impero germanico, dalla dieta del quale veniva allora rimunerato col titolo di principe dell’impero. Ma cotesto atto di gratitudine sarebbe venuto dall’imperatore secondo scrisse Montecuccoli, che aggiungeva avere in cotal circostanza gli stati (provinciali) dell’Austria fatto dono al Piccolomini di una casa franca (esente da imposizioni) in Vienna. Congiuntosi egli l’anno seguente (1651) in matrimonio con Maria Benigna, figlia di quel