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I, Vita del Basile — Opere italiane

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I, Vita del Basile — Opere italiane
Introduzione Introduzione - II
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I.

Vita del Basile. — Opere italiane.


È incerto l’anno della nascita del Basile; meno incerto, quantunque anche controverso, il luogo, dove nacque. Ma le più probabili congetture menano a conchiudere che egli dovè nascere a Napoli, e forse nel villaggio di Posilipo, intorno al 1575, poco più, poco meno1.

È ignoto il nome di suo padre; sua madre si chiamava Cornelia Daniele, Egli ebbe varii fratelli e sorelle. I fratelli si chiamarono Lelio, Francesco, e un altro, forse, Giuseppe; le sorelle, Vittoria, Margherita, e la famosa Adriana, la bella Adriana. Del suo parentado sappiamo anche che era suo cugino, per parte di madre, il padre Alfonso Daniele, dell’ordine agostiniano2.

Poco sappiamo della sua fanciullezza. Sembra che fosse compagno di scuola di Giulio Cesare Cortese; perchè questi, in un luogo di un suo poema, lo nomina, dicendolo:

                                        chillo,
Che la fortuna amico me facette
Da che jeva a la scola, peccerillo3!

[p. xii modifica]Il Basile, poi, in una sua favola marittima, fa dire a un marinaro Nifeo, che adombra senza dubbio lui stesso:

Nè tanto i miei primi anni
Spesi in apprender l’arti
Di sagace nocchiere, e come e quando
Debbian le navi altere uscir dal porto,
O star legate in più sicuro lido,
Quando (sic), poi ch’io fui giunto
Nel mezzo del camin di nostra vita,
Nuovo spirto m’accese
A miglior studio; e, benchè augel palustre
Io mi conobbi, pur tentai di pormi
Coi più bei cigni al paro......4

Certo, a nessuno verrà in mente di pensare che il Basile, da giovanetto, avesse studiato l’arte marinaresca. La prima parte di questo brano è da riferirsi evidentemente al personaggio di Nifeo. Resta la seconda: gli studi di poesia, e le alte speranze, che, giovane, gli riempivano il petto.

Ma il Basile, povero di fortuna, non era in grado di coltivar tranquillamente gli studi prediletti. Per lui la Musa era, sì, la Dea celeste dei poeti, ma doveva essere anche la brava vacca da provvederlo di burro, secondo il noto epigramma dello Schiller! Delle lotte, ch’ebbe a sostenere nella sua giovinezza, ci resta il documento, se non la notizia precisa, in varii luoghi delle sue opere:

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Ma, quando io più credea
Ch’avvalorarmi in conquistar gli allori
Dovesse la mia patria, io vidi allora
Chi più amarmi dovea pormi in non cale:
Dura condizion di nostra etade,
Che di suoi figli stessi
L’alte virtù la propia madre abborre5!

E altrove parla «delle tempeste, che nei primi anni della sua giovinezza gli mosse ingiuriosa fortuna»6.

La patria non proteggeva, anzi perseguitava colle armi dell’invidia, i figli, che le avrebbero fatto onore; e il giovane Basile lasciò Napoli:

Ond’io fuggir disposi
L’ingrate rive, e gir cercando altrove
La mia fortuna7.

S’era sulla fine del secolo. Una delle sorelle del Basile, l’Andriana o Adriana, aveva sposato da poco un gentiluomo calabrese, chiamato Muzio Barone; e la sua fama di grande cantatrice era ancora latente. Le altre due sorelle erano ancora quasi fanciulle. Di uno dei suoi fratelli sappiamo che era dottore in legge.8 L’amico Giulio Cesare Cortese nel 1600 andava a riempire a Trani l’ufficio di assessore, concessogli dal Conte di Lemos9.

[p. xiv modifica]Il Basile, dunque, partì; e saranno stati forse sentimenti studiati dal vero, sulla sua propria esperienza, quelli ch’egli mette in bocca a un personaggio di un suo cunto, costretto, come lui, a lasciar Napoli. Cienzo sale sul suo cavallo, s’avvia fuori la città, e, passata Porta Capuana, si volge indietro, malinconico, dicendo: «Tienete, ca te lasso, bello Napole mio! Chi sa se v’aggio da vedere chiù, mautune de zuccaro e mura de pastareale?, dove le prete so de manna ncuorpo, li trave de cannamele, le porte e finestre de pizze sfogliate!»

E la sua fantasia passa a rassegna i luoghi più ricchi e deliziosi e voluttuosi di Napoli, e Porto, e Pendino, e Piazza Larga, e Piazza dell’Olmo, e la Loggia di Genova, e i Lanzieri, e Forcella, e la regione dei Celsi, e il Pertuso, e il Lavinaro, e il Mercato, e la bella Chiaia10!

Lasciata Napoli, andò girando per quasi tutte le città d’Italia:

Quante cittadi gloriose e belle
Sembran nel ciel d’Esperia ardenti stelle!11

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Ma, in che qualità facesse questi viaggi, non è chiaro. Finalmente, capitò a Venezia:

La Reina del mar, Vergine invitta,
Di cui cantò talhor mia rozza cetra.

Della quale, infatti, cantò più volte enfaticamente le lodi, e nel Cunto de li cunti, nominandola per incidente, si accalora, e la dice: «Schiecco de la Talia, recietto de vertoluse, livro maggiore de le maraveglie dell’arte e de la natura!» 12.

In Venezia si dovette arrolar soldato. Egli stesso ci ha descritto l’arrolamento, e la vita militare di quel tempo. S’inalbera un’insegna, batte il tamburo; gli arrolatori mettono in mostra, sparse sopra un bancherottolo, un pugno di lampanti monete d’oro. E il povero illuso va di corsa ad iscriversi:

Tirato pe la canna
Da quatto jettarielle,
Spase ncoppa na banca!

Ed ecco si veste di nuovo, si mette la spada a lato, sguazza per le taverne e pei postriboli. Un amico gli domanda: Dove si va? Ed egli risponde allegro: Alla guerra, alla guerra13!

Arrolatosi soldato ai servigi della Serenissima, Giambattista passò nell’isola di Candia, o di Creta che voglia dirsi. Questa andata a Candia è il primo lieto ricordo [p. xvi modifica] della sua vita. «Quivi, — dic’egli, parlando di se stesso — , quasi in tranquillo porto ricoverossi»14.

Candia era allora il posto avanzato di Venezia contro i Turchi: l’antemurale della cristianità. Contava circa 176,000 abitanti, ed era divisa nelle quattro provincie di Candia, Sitia, Retimo e Canea. Ne aveva riordinata l’amministrazione nel 1574 Jacopo Foscarini, che vi era stato mandato con poteri straordinarii. La milizia era fornita, parte dai signori feudali, e parte dalle leve tra paesani; nella città di Candia, che era stata fortificata con grandi spese, i Veneziani mantenevano da 2000 uomini di presidio, con un governatore, che non era veneziano, «ma persona straniera, ed esperimentato soldato».

Vi era nell’isola una florida colonia di Veneziani delle migliori famiglie, venutevi, in varii tempi, della Dominante15.

E il Basile fu accolto benignamente dalle principali di questo famiglie, dai signori Malipieri, Mocenigo, Morosini, Pisani, Sagredi, e specialmente dai Cornaro, che era allora la più ragguardevole di tutte in Candia16. Il suo umor bellicoso non era, a quanto sembra, grandissimo, e, con tuono lamentoso, egli racconta che in Candia:

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                    di canne invece e di tridenti
Oprai di Marte il ferro; ed io, ch’avezzo
Era a viver ne l’acque,
Vissi lunga stagion tra fiamme e foco
Di folgori terrestri.

Ma saranno stati esercizi militari e non battaglie; perchè allora, — fra gli ultimi anni del cinquecento e i primi del seicento — , Venezia non ebbe altra guerra combattuta se non quella contro gli Uscocchi, che aveva il suo campo d’azione lungi da Candia. A ogni modo quei disagi, — continua il Basile:

Dolci mi feo parer uno de’ più chiari
Lumi, c’ornar giamai di Creta il lido,
De la virtù cadente e fuggitiva
Dolce asilo e sostegno, ond’io per sempre
Devoto gli sacrai l’opre e la vita!

Intende Andrea Cornaro, ch’era letterato e poeta, e tale da far buona lega col nostro povero poeta, diventato soldato di ventura. Il Cornaro aveva istituito in Candia un’accademia detta degli Stravaganti: la quale aveva per impresa un cane fuor di strada, col motto: Et per invia! Il Basile ne fece parte col nome del Pigro Stravagante17. [p. xviii modifica]

E, dal grande animo del Cornaro «riconobbe....... non men vivi i segni di generoso affetto, che chiari essempi d’immortal valore». E in un’ode volle lodare «sì gloriosa radunanza di felicissimi ingegni», cioè l’accademia degli Stravaganti:

Fuor del comun sentiero,
Emuli de le Muse, eccelsi spirti,
Poggian sovra più altero
Permesso, adombro di bei lauri e mirti,
E danno al Ditteo lido
Famoso il nome e glorioso il lido.18

E, in una madrigale, loda anche la Historia Candeana, del Cornaro, e, in un altro, il fratello di lui, Vincenzo, accademico Stravagante19. E chiaramente indicava il genere di protezione, col quale il Cornaro incoraggiava i poeti, in questi versi del Teagene:

Un Cornar fia di Creta al nobil regno
Novello Giove, a giovar solo intento;
Per doti di natura ed alto ingegno
Di quanto gira il sol chiaro ornamento;
Sarà di mille cigni alto sostegno
Mentre di cigno formerà il concento;
E n’un medesmo tempo avran da lui
Gloria i suoi carmi, ed oro i versi altrui20.

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Un altro dei suoi ricordi cretesi c’è conservato in un suo madrigale. Conobbe in Candia «una bellissima Hebrea». Ed a costei, che, certamente, gli toccò il cuore, egli si volgeva con sentimento al tempo stesso di amore e di pietà cristiana, esortandola a farsi battezzare:

Entra nel sacro Fonte,
Leggiadra Donna, ed uscirai più bella,
Come sorge dal mar lucida stella;
Così fia l’alma eguale
A la beltà del viso,
E gareggiar potrai col Paradiso21!

Il Basile era certo in Candia dopo il 1604; e di qui si comincia a poter stabilire qualche data sicura nella sua vita. Tra le sue odi c’è n’ha una, da lui composta per gratitudine dei molti favori, che aveva ricevuti dall’arcivescovo di Candia, Luigi Grimani.22 Ora il Grimani non fu eletto arcivescovo di Candia se non nel 160423.

Ed era certo anche in Candia il 1607. Sulla fine del 1606, per la famosa lotta tra Paolo V e i Veneziani, [p. xx modifica]tutto pareva minacciar guerra. Filippo III dava ordine al Conte di Fuentes di raccogliere un esercito ai confini, per tenerlo pronto all’invasione, se Venezia non cedeva. Ma la Repubblica cominciò gli armamenti. Si raccolse una gran flotta, e, di questa, il 14 gennaio 1607, fu fatto generale Giovanni Bembo, Procuratore di S. Marco, che, sulla metà di febbraio, entrò in ufficio24.

Enrico IV si adoprava, intanto, a mettere pace tra il papa e i Veneziani, desideroso che questi rivolgessero le loro armi contro gli Spagnuoli.

Il Basile si trovava nel bel mezzo di queste minacce di guerre: «Era sossopra l’Italia, — egli scrive — , nè d’altro che d’ira e di morte si ragionava, mentre l’intrepido Leone empiea di tremendi rugiti l’Adria e il Tirreno». Ed egli, «dentro alle tempeste dell’armi, dall’Impetuosa Fortuna sospinto, si ritrovava». E, «premendoli nel vivo del cuore, che tante armate schiere la tranquillità dell’Europa rendessero torbida ed inquieta», il nostro guerriero poeta, e più poeta che guerriero, scrive un’ode per persuadere l’una e l’altra parte «a sospendere l’ire»:

Sian dolci Paci l’Ire,
Gli Odi Pietà, celeste Ardor gli Sdegni,
Puro affetto l’ardire,
Ed humiltà ne l’alterezza regni!
Sian l’armi caducei, Plettri le squille.
E ne l’horror di Morte Amor sfaville25.

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Ma, nonostanti queste efficaci esortazioni, Giovanni Bembo seguitava nei suoi apparecchi militari. E, sulla fine dell’aprile, si recò a Corfù, dove voleva raccogliere il nerbo della sua flotta. A Corfù gli giunsero venti navi da Candia, delle quali quattordici armate a spese dei nobili Veneti e Candioti26.

Su queste navi dovette essere imbarcato anche il nostro Basile. La flotta riunita navigò lungo le coste dell’Epiro, percorse il mar Jonio per varii mesi, e rese sicura tutta quella zona ai sudditi della Repubblica27.

Il Basile scrive: «Meraviglioso fu egli a vedere con qual alto avvedimento e somma prudenza l’Eccellentissimo signor Giovanni Bembo, sovrano Argonauta e Generalissimo della veneta Armata, guidò amplia classe di maritimi legni; sicchè non fu alcuno in essi che non si recasse a singolar ventura l’essere al sommo impero sottoposto di sì glorioso duce». Egli stesso sperimentò più volte da lui un «incomparabile dimostramento di benignità»; e, per gratitudine, — magro ricambio! — , gli consacrò una delle solite odi28.

Ma sopravvenne l’autunno; gli Spagnuoli e i Turchi pigliavano i quartieri d’inverno, e Giovanni Bembo tornò a Venezia. Il Senato rese grazie ai comandanti candioti dell’opera egregiamente prestata, e dell’amore mostrato verso la Repubblica.29 [p. xxii modifica]Non sappiamo se il Basile, dopo aver preso parte a questa dimostrazione guerresca, tornasse a Creta. Certo, se vi tornò, non vi rimase:

                    Dopo avermi, dico,
Avezzato a soffrir l’aspre fatiche
De l’armi in sen de la nodrice amata
Del Regnator d'Olimpo,
Per cercar miglior sorte,
                               ne scorsi
Mille famose rive.

E, risalendo verso l’Italia, prima di tutto, andò a Sparta:

Onde la bella Greca
Portò l’incendio a le troiane mura.

E poi, girò pel promontorio Tenaro (capo Matapan):

onde discese
Al cieco abisso il domator dei mostri.

E poi, nella Messenia:

Al lido, onde si parte
L’innamorato Alfeo, seguendo l’orme
De l’amata Aretusa.

E poi, nell’Arcadia e nell’Elide:

Ove ne corre il fiume, onde s’accrebbe
A la Copia tesor, glorie ad Alcide.

E poi ad Itaca, la reggia

Del saggio ingannator de le Sirene.

[p. xxiii modifica]E a Corfù, d' Alcinoo gli orti. E ancora:

          mill’altre i’ vidi illustri rive,
E per ciascuna fei gran tempo albergo,
Cangiar credendo stato,
Nè mai cangiai fortuna.30

Finalmente, nel 1608 era di ritorno a Napoli,

               così vecchio, infermo,
Là ’ndi già mossi più robusto il piede!31

Parole, che non bisogna prendere alla lettera, pel tuono d’esagerazione lamentosa, che ha tutto questo brano autobiografico:

Chi provato ha gli affanni
Di lungo navigar, di lunghi errori,
Più si può dir felice
Quando ei può riposar nel patrio lido32!

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A Napoli il nostro Giambattista tornò quasi come un forestiero:

Nè meraviglia fia se conosciuto
Per cittadia non son, mentre mi rende
Lungo peregrinar tanto diverso
D'habito e di costumi.....

Dopo sì lunga assenza, egli trovò molte cose cangiate, molte cose nuove. Nella sua famiglia, era sorta una celebrità: sua sorella, l’Adriana, s’era rivelata eccellente cantatrice, e aveva acquistato gran fama, ed era attorniata da una schiera d’ammiratori, che ne lodavano l’arte del canto, la bellezza, la somma onestà33.

I coniugi Barone erano ai servigi del Principe di Stigliano, D. Luigi Carafa34. E la sorella illustre diventò la protettrice del povero ed oscuro poeta: la cantante stese le sue ali sul poeta. — Nel 1608 il Basile pubblicava a Napoli la prima sua opera, che si trovi alle stampe: Il pianto della Vergine, breve componimento in tre canti, sul genere delle Lagrime di S. Pietro del Tansillo35. E, [p. xxv modifica]innanzi al volumetto, era elogiato a gara da Andrea e Vincenzo Cornaro, da un Giovanni Aquila, da Giulio Cesare Cortese, accademico della Crusca, detto il Pastor Sebeto, da suo cognato Muzio Barone, detto il Partenio Ardente, e da varii altri36. E, in quello stesso anno, pubblicandosi il Tempio Eremitano di Ambrogio Staibano, egli, a sua volta, vi poneva innanzi un sonetto elogiativo37.

Il 18 ottobre 1608 si celebravano a Firenze le nozze di Cosimo dei Medici con Maria Maddalena d’Austria. Il Cortese, del quale son note la servitù e le buone relazioni colla corte di Toscana, e che allora, come sembra, era a Firenze, invitò il suo amico a scrivere nella raccolta, che si fece per l’occasione. E il Basile scrisse l’ode, che comincia:

Nel sen d’Esperia, Amore
Inesta a Serenissima Beltade
Alto Real Valore38. —

Deve mettersi forse intorno questo tempo un viaggio, che fece in Calabria, «trasportato dal desiderio di veder le pellegrine vestigia della Magna Grecia, come le meravigliose ruine dell’altra veduto avea»39.

E si recò certo a Cariati, dove assistette all’ingresso, che fece il Principe di Cariati, Don Carlo Spinelli, con [p. xxvi modifica]sua moglie, D.a Giovanna di Capua. Dal qual principe fu benignamente accolto, ed egli ne cantò le lodi, unendosi alla generale letizia dei sudditi:

               ’l suo Popol diletto
O quanti archi drizzò, quanti trofei,
Per cui passar gli eccelsi semidei40!

Qualche tempo dopo, D.a Giovanna partorì un figliuolo, e, per questa occasione, egli scrisse un’altra ode41. —

Checchè si pensi della data di questo viaggio, certo, ai principii dell’anno seguente, 1609, egli era di nuovo a Napoli, dove pubblicava un volumetto di Madriali et Ode, raccogliendovi quanto era venuto sparsamente scrivendo e stampando fin allora42. Il volumetto è dedicato alla sorella Adriana, ed è curioso il tuono della dedica: «Ecco, sorella amatissima, ch’io paleso al mondo sotto il vostro celebre nome questi miei poveri componimenti, i quali, [p. xxvii modifica]nati fra l’inquiete turbolenze della professione militare, hanno ben di mestiere che sien dal vostro favore rasserenati....».

E, con due odi, anch’egli si va a confondere tra la turba degli ammiratori della sorella, adoprando le stesse frasi laudative degli altri, proprio come se fosse un estraneo:

Di Sebeto a le sponde
Siede Ninfa canora, le cui note
Rendon tranquille l’onde,
Dan moto ai sassi, e fan le fere immote....

Con questo volumetto, che raccoglie tutta la produzione letteraria della sua giovinezza, si chiude la prima parte della sua vita letteraria; che non fu veramente troppo gloriosa. Il contenuto di tutte queste poesie è, quasi soltanto, l’adulazione, quella cieca, stupida adulazione del tempo! E la forma è delle peggiori: sono stentati madrigali, ovvero odi in monotoni versi settenarii e endecasillabi variamente aggruppati43 tutti contesti della brutta fraseologia allora corrente, e dei più sfatati luoghi comuni44. Tuttavia, queste odi e madrigali piacquero [p. xxviii modifica]e lo misero in mostra; e quella fama, che, giovane, non aveva potuto ottenere, l’ottenne, ora, quasi d’un subito.

Intanto, sua sorella Adriana, seguendo i suoi alti destini, era chiamata alla corte di Mantova. È ormai nota la passione musicale del Duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga, e la storia di tutte le sue smanie, e del suo armeggio per avere presso di sè l’Adriana45. Le trattative cominciarono sul principio del 1610. Nel far le sue condizioni, l’Adriana, dopo aver messa in prima linea, quella che, per suo decoro, doveva essere chiamata alla corte di Mantova con lettera della Duchessa Eleonora; soggiungeva, in secondo luogo, questa: che il duca «occupi in sua casa tanto Mutio Barone suo marito, quanto Giambattista, suo fratello, li quali sono persone dell’habilità che detto signor Paolo (l'agente che menava le trattative) farà relazione a S. A. e che procureranno per le persone loro di esser degni creati delli creati di S. A.»46. E, dopo vari ritardi e peripezie, nel maggio 1610, si mise in via verso [p. xxix modifica]Mantova un’intera carovana: «la signora Adriana con una sorella et cognata, e un suo figliuoletto, che sono quattro; il marito, con un fratello di lei et un creato che in tutto sono sette; viene ancora per accompagnarla sino a Mantova, e poi passarsene in Spagna, un altro suo fratello dottore con un creato»47. I due fratelli accennati erano Lelio e Francesco, e la sorella Vittoria o Tolla. — Partirono con pianto di molti, — come dice l’Agente ducale — , «e veramente io spero che S. A. resterà gustata, perchè tutti questi che vengono sono persone virtuose e buone, da guadagnarsi il pane, che mangeranno»48.

Giambattista, per allora, restò a Napoli. E fece eco ai molti, che s’erano adoperati a impedire la partenza dell’Adriana, e ai quali ora non restava se non piangere quella conquista, che Mantova prendeva su Napoli! Un suo epigramma, intitolato: Rapimento di Virgilio vendicato, dice:

Tolse al Mincio il Sebeto
Candido Augel Canoro,
Per cui crebbe a le stelle il verde alloro;
Toglie al Sebeto il Mincio
Leggiadra Cantatrice,
Ond’era il lido suo chiaro e felice:
Gloriosa vendetta al mondo sola,
Se perde un Cigno, una Sirena invola!49

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Egli si trovava allora ai servigi dal Principe di Stigliano, come, fin’allora, sua sorella e suo cognato. E, avendo avuto l’agio di scrivere una favola marittima, intitolata: Le avventurose disavventure50, nel luglio 1610, la dedicava al Principe di Stigliano, per gratitudine degli «infiniti beneficii riconosciuti dalla sua liberalissima e generosa mano», ribadendo in versi le lodi:

Tu sol fai che germogli
Già secco il Lauro a le Castalie rive;
Tu sol pietoso accogli
Le neglette dal mondo Aonie dive;
E sorgi (tal virtute in te s’infuse!),
Novello Febo, a ristorar le Muse51.

Nell’avvertenza dice lo stampatore: «Spero, graziosi lettori, darvi per l’avvenire maggior diletto con l’opre di questo autore, il quale quanto giornalmente si avanzi nella [p. xxxi modifica]Poesia, ben il potete conoscere con paragonare questi ad alcuni altri suoi primi parti, che, stampati forse contro sua voglia, si può dir nella fanciullezza, devono solo come presagio di questi, che hora vedete, essere riguardati, da quegli occhi però, che non sono da ignorantia nè da maligna invidia macchiati, e biecamente l’altrui fatiche non rimirano».

E lo stampatore, e l’autore per esso, ha ragione. — Le avventurose disavventure sono, a dir vero, una delle solite favole marittime del tempo, colle solite situazioni e il solito svolgimento: un rapimento dei Turchi, che serve a imbrogliare e confondere lo stato civile dei personaggi; degli innamoramenti, che, quasi tutti, han sbagliato il loro segno; una donna, che va pel mondo, vestita da uomo; e una serie di riconoscimenti finali e di matrimonii. E non vi mancano i soliti luoghi comuni: il pastore o il pescatore che non ama, tutto intento alla caccia alle reti; le lodi dell’età dell’oro; i lamenti contro i capricci e l’ingiustizia della fortuna; ecc. Ma, tuttavia, la favola è composta con una relativa semplicità e molta facilità; ed è scritta in versi fluidi e armoniosissimi: il che, in mancanza d’altro, è sempre qualcosa.

Ecco, come saggio, questo lamento della Ninfa Tirrhena:

Voi, che sembianza avete
De l’Idol mio crudele,
Che sì gelato ha il core,
Che non sente giammai fiamma d’amore;
Ruscelletti di neve,
Chè non date rimedio al mio gran foco?

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Ma voi, come il mio Glauco,
Sordi correte, e ne portate insieme
I miei lamenti e le vostre onde al mare!

Deh! riditeli almeno, acque amorose,
I fonti dei miei lumi,
Onde crescete e vi cangiate in fiumi!

Deh! riditeli almeno, aure pietose,
I miei sospiri ardenti.
Onde crescete e vi cangiate in venti52!


Giulio Cesare Cortese, il Pastor Sebeto, diventato accademico della Crusca, mise un suo epigramma innanzi all’opera dell’amico. E, coi due epigrammi che scrisse per l’Adriana, furono queste delle poche volte, nelle quali la sua Musa italiana si fece viva53. Altro amico, e lodatore del Basile, era Orazio Comite, poeta allora in buona fama54.

Nel 1611 Giambattista Manso, Marchese di Villa (l’amico di Torquato Tasso), istituiva nel chiostro di S.a Maria delle Grazie, presso S. Agnello, l’accademia degli Oziosi. Tra i primi accademici, riuniti, il giorno della inaugurazione, che fu il 3 maggio, era il Vicerè, Conte di Lemos, il Porta, il Capaccio, il De Pietri, il Zazzera, il P. Tomaso Carafa, e molti gran signori, come il Principe di Stigliano, il Principe della Riccia, il Principe di Cariati, il Principe di Tarsia, il Duca di Nocera, il Duca d’Acerenza, il Duca di Bovino. Tra i primi socii, eletti [p. xxxiii modifica]da questi fondatori, fu Giambattista Basile, il Pigro Stravagante55.

Nel febbraio seguente, 1612, celebrandosi nel Duomo l’esequie di Margherita d’Austria, Regina di Spagna, «comparve nel mezzo del Duomo il ricchissimo Mausoleo adorno di dottissime composizioni dell’Accademia degli Oziosi»56 . Il Basile contribuì con tre sonetti, due anagrammi, e un madrigale57.

Compose anche per questa occasione un’egloga lugubre.

E, anzi, di Egloghe amorose e lugubri pubblicò a Napoli nel 1612 una raccoltina, dedicandola a D. Marcello Filomarino 58.


Allo stesso D. Marcello Filomarino, lo stesso anno, dedicò un drammetto in cinque atti, la Venere addolorata, uno dei primi componimenti, se non il primo, scritto a Napoli, per musica; che, tuttavia, non si sa se fosse mai messo in musica e recitato59. [p. xxxiv modifica]

Le sue opere sono la fonte più abbondante di notizie sulla sua vita; e da esse ricaviamo quali fossero le sue varie relazioni ed amicizie. Così possiamo supporlo amico di Giovan Battista della Porta, pel quale scrisse un’ode, a proposito della tragedia il San Giorgio60.

Scrisse altre odi pel matrimonio di D. Giorgio de Mendoza con D.a Livia Sanseverino; pel nuovo Vicerè Conte di Lemos. Ed epigrammi o madrigali per dame e signori e letterati napoletani, come D. Tiberio Carafa, D.a Lucrezia de Vera, Aniello Palomba, Ettore Pignatelli, Ferrante Rovito, Ascanio di Colellis, i poeti spagnuoli Argensola, ecc.

E anche da Napoli, prendeva parte agli avvenimenti lieti o tristi, che succedevano alla Corte di Mantova presso la quale erano quasi tutti i suoi. Fra le sue poesie ci sono madrigali per D. Silvio Gonzaga, Marchese di Cavriana, figlio naturale del Duca Vincenzo, morto in quell’anno 161261; per Vincenzo, altro figlio del Duca; un’ode pel matrimonio di Cesare Gonzaga, figlio terzogenito di Ferrante, Conte e poi Duca di Guastalla, con Isabella Orsina, figlia di Paolo Giordano, Duca di Bracciano62; finalmente, un’egloga e un madrigale per la morte del Duca Vincenzo, accaduta, come è noto, il 18 febbraio 1612, e un’egloga per quella di Leonora Medici Gonzaga63. [p. xxxv modifica]

E sulla fine del 1612, Giambattista Basile lasciava anch’egli Napoli per Mantova.

I suoi parenti, alla corte dei Gonzaga, godevano di una straordinaria fortuna. Sua sorella Adriana, oltre molti altri doni e stipendi e onorificenze, aveva avuto il titolo di Baronessa, col feudo di Piancerreto nel Monferrato64 Il figliuolo di costei, il giovinetto Camillo, era stato insignito della croce di S. Maurizio e Lazzaro, onorificenza che il Duca di Mantova gl’impetrò da quel di Savoia. Lelio Basile fu «per lunga serie d’anni ai principali governi nello Stato di Mantova da quell’Altezze impiegato». Francesco fu poi Senatore65.

Quando giunse Giambattista, era moribondo, o era morto da poco, il nuovo Duca, Francesco, figliuolo e successore di Vincenzo, che, dopo pochi mesi di principato, si spense, a 26 anni, il 23 dicembre 1612. Successe il fratello di lui, il Cardinal Ferdinando.

Giambattista si recò a visitare la sorella nel suo feudo del Piancerreto. E racconta che qui vide, tra l’altro, «un [p. xxxvi modifica]piccolo sì, ma dilettevole giardino....., in cui tra le fresche ombre e le tenere erbette, sorgeva di limpid’acque marmoreo fonte, che faceva umido specchio ad un vaghissimo simulacro dell’ingannato Narciso, vestigio del raro ingegno dell’immortal Buonarroti e memoria della singolare liberalità del serenissimo signor Duca di Mantova verso di lei dimostrata»66. Egli trovò presso la sorella una nipotina, che non conosceva, una bambina nata l’anno prima a Mantova, che doveva essere la continuatrice della gloria dell’Adriana e chiamarsi poi col nome celebre di Leonora Baroni67.

Il nuovo Duca, Ferdinando, mostrò subito il suo favore al nostro poeta. Il 25 marzo 1613 ordinava che fosse annoverato «tra gli gentiluomini, famigliari et curiali nostri»68.

E il 6 aprile dello stesso anno, facendo uso del diritto, ch’era stato concesso dall’Imperatore Massimiliano II al Duca suo padre e suoi successori; considerato quanto il Basile valesse «in humanarum litterarum, philosophicis et Musarum studiis», lo nominava: «militem, sive equitum auratum ac sacri Lateranensis Palatii, aulaeque ac Imperialis Concistorii Comitem;..... aliorumque equitum auratorum et comitum Palatinorum numero et consortio ascribimus et aggregamus»69. [p. xxxvii modifica]Il Cortese pare che allora avesse per le mani il suo poema napoletano: Viaggio di Parnaso. E, in questo poema, consacra l’onorificenza ricevuta dall’amico; perchè immagina che, là, sul Parnaso, a un punto, egli si addormenti, e sogni:


Na femmena chiù lustra de l’argiento,
Che portava l’ascelle e no trommone,
Decenno: Chi fo maje da Battro a Tile
Famuso chiù del Cavalier Basile?


Da chisso ha schiacco matto ogne scrittore
O sia toscano, o grieco, o sia latino;
Chisto ha no stile che l’ha fatto nore,
Quanto lo sole fa luongo cammino:
Isso se fa la via co lo valore
A la grolia, e ne schiatta lo destino;
Ca mo è d’Apollo, commo frate, caro,
E le vo bene de le Muse apparo!70


E si sveglia, ed ha notizia dell’arrivo d’un ambasciatore da Mantova, che porta a Febo la novella, che la virtù del Basile:


Co granne nore suo l’ha fatto avere
Lo titolo de Conte e Cavaliere.

[p. xxxviii modifica]E seguono grandi feste per la lieta novella71. Ed è curiosa questa ottava sopra un ritratto del Duca Ferdinando, che si vedeva in una stanza di Parnaso:

Chisso nc’era dèpinto cossì bivo,
Che quase lo vedive freccecare;
Tenea la vorza fatta commo a crivo,
Che no nce potè rejere denare!
Da lo quale piglia oje sostiento e civo
La vertute, che stea già pe crepare;
Le vide appiede mille vertuluse,
Che le puoje nnuosso appennere le fuse.
Ed isso a chi dà sfuorge, a chi tornise,
E tutte fa partire conzolate;
Ora cammina mo s’autre paise,
Se truove tanta liberalitate72!

Il Basile fece a Mantova una specie d’edizione completa delle varie sue opere, il cui titolo complessivo è: Le Opere Poetiche di Giov. Battista Basile il Pigro, cioè Madriali, et Ode, prima e seconda parte, Venere Addolorata, favola tragica, Egloghe amorose e lugubri. Avventurose disavventure, favola maritima, Pianto della Vergine, poema sacro In Mantova, per Aurelio e Ludovico Osanni, fratelli stampatori ducali, MDCXIII.

Di questa raccolta la sola cosa nuova è la seconda parte dei Madriali et Ode, nella quale sono raccolte le varie piccole poesie, che abbiamo accennato, fatte dopo il 1609. E questa seconda parte è dedicata al Cardinal Ferdinando Gonzaga. [p. xxxix modifica]Qualche mese dopo, tornò a Napoli. E, appena tornato, scoppiava la guerra tra Mantova e il Piemonte, per le quistioni della successione dei Gonzaga. Carlo Emmanuele, non avendo potuto ottenere la tutela di Maria, unica figliuola lasciata dal defunto Duca Francesco, invadeva il Monferrato. E Giambattista Basile, da Napoli, scriveva al Duca Ferdinando, sospiroso di non poter prender parte alla guerra:

          Serenissimo Sig.re.

Già viene Lelio mio fratello a servire V. A. Ser.ma come l’impose. Io l’invidio et incolpo la mia indispositione che nell’oportunità della presente guerra mi toglie sì largo campo di sodisfare in parte a quel ch’io debbo, e di mostrar a pieno quanto io sia desideroso di spargere il proprio sangue in servigio della sua Ser.ma Casa, non è per ciò ch’io viva in pace, perchè da vari pensieri asseggiato son continuamente saettato dallo sdegno e dall’ira in veggendo quanto ingiustamente sia turbata la tranquillità de suoi Popoli; e la devotione et osservanza ch’io porto al suo S.mo nome fa ch’io riceva i suoi propi danni e con maggior affetto per non essere in me quella virtù sì Eroica di far poca stima degli avversi colpi della fortuna qual’è propia di V. A. Ella vince se stessa, io rimango oppresso e vinto dal dolore, nè altro va mitigando il mio dispiacere fuorchè il vedere le genti tutte pendere da felici avvenimenti di V. A. essendo ciascuno inclinato a desiderarle vittoria, ciascuno ad augurarle accrescimento di stato, come allo ’ncontro tutti biasimano l’ingratitudine del nemico, l’hospitio contaminato e la rotta fede. Non è luogo dove non si rimproveri le barbariche attioni, le tante spezie di crudeltà el dispregio delle cose sacre del contrario; laonde viene maggiormente a risplendere l’humanità, la bontà e la religione di V. A. la quale quasi chiaro Polo tiene converse le calamite degli animi a mirar et ad ammirarla. Io dall’una parte ciò vedendomi glorio [p. xl modifica]d'essermi dedicato a sì gran Principe, dall’altra mi rodo che altri solamente spinto dalla gloria del suo nome scopra sì gran desiderio di vederla superiore delle nemiche forze e vorrebbono esservi presenti, et io che l’opere gloriosissime di V. A. non solo per fama che per veduta etiandio ho ammirate, anzi in larga parte gli effetti della sua grandezza e generosità d’animo in me provate, me ne stia otioso e non corra e non voli a spender la propia vita, ch’ella sarebbe assai ben impiegata in servitù de V. A., ma non essendomi ciò conceduto per non trovarmi intiera salute, supplico V. A. ad appagarsi almeno di questa mia buona volontà degnandosi credere che io sarei non men pronto in adoperar la spada in offesa di suoi nemici, come sono apparecchiato in celebrar le sue Palme, e le sue Vittorie con la penna. E col fine priego N. S. Iddio conceda a V. Alt.a poi d’havere abbassato l’orgoglio nemico eterna pace. Di Napoli primo di giugno 1613.

Di V. A. S.ma e R.ma Humilliss. Ser.re
Gio. Battista Basile73.

E, qualche mese dopo, ringraziando pei nuovi favori fatti dal Duca a sua sorella Vittoria, finiva: «Priego N. S. Iddio che questa generosità grande alla nostra Vittoria dimostrata sia felicissimo augurio delle sue future vittorie»74.

Alla Vittoria si accompagnò l’altra sorella di Giambattista, la Margherita Basile, anche virtuosa di musica, che il Duca, nel 1615, ebbe desiderio di avere alla sua [p. xli modifica]Corte. E ne scriveva al fratello; e la Margherita andò difatti, e, dopo due mesi, fu dal Duca dotata e maritata75. Honny soit qui mal y pense!

Giambattista, nello stesso anno, era al governo della città di Montemarano, brutto paesello, poco lungi da Benevento, in provincia d’Avellino76. Montemarano, nei secoli XV e XVI, era appartenuto ai secoli Della Marra; ma nel 1610 era stato venduto dai creditori di Giovanni Della Marra a un Maurizio Tortello, e nel 1615 appunto, messo di nuovo in vendita e comprato da Fabrizio Guindaccio77.

Nel luglio 1615, morì a Napoli, nel convento di S. Domenico, Fra Tomaso Carafa, figlio del Marchese d’Ansi, gran predicatore e valente letterato, una delle colonne dell’Accademia degli Oziosi. Il Basile concorse alle splendide onoranze funebri, che gli si fecero, con un’ode78.

E, nei due o tre anni seguenti, egli fu occupato, non, fortunatamente, in composizioni poetiche, ma in lavori grammaticali e in fatiche d’editore. A lui si deve un’edizione delle Rime del Bembo (1616-7), e del Casa (1617), [p. xlii modifica]e un volume di Osservazioni intorno alle Rime del Bembo e del Casa79.

Le Osservazioni non sono altro che una sorta di vocabolario delle voci e frasi usate dal Bembo e dal Casa, ognuna delle quali è largamente esemplificata. — Ma prodotto più importante di queste fatiche critiche del Basile furono le Rime di Galeazzo di Tarsia, poeta tanto notevole, e tanto poco fortunato, che egli fu il primo a divulgare per le stampe80. Benché, a dire il vero, al [p. xliii modifica]merito dell’intenzione e al beneficio fatto alla fama del poeta, non corrisponda il valore dell’edizione, ch’è scorrettissima, e senza punto critica81.

Il libro è dedicato da Zuncoli, colla data del 1 gennaio 1617, a Cecco di Loffredo, Marchese di Trevico, e Capitano d’uomini d’armi in regno. — Zancoli è una piccola terra in Principato Ultra, della quale erano appunto signori feudali i Loffredo. Il Basile si trovava, dunque, in Zuncoli il 1617, al seguito del Loffredo.

Al quale Loffredo, suo nuovo padrone, dedicava anche la terza parte dei suoi Madriali et Ode, che fu stampata a Napoli il 161782.

Ma dal Loffredo passò subito ad altro padrone, al nuovo Principe d’Avellino, Marino Caracciolo83. — Tale fu la sua vita, e tale la vita di tanti altri letterati d’allora: un passaggio di protettore in protettore, di padrone in padrone. [p. xliv modifica]E così anche si spiegano, e appaiono non puramente convenzionali le tante declamazioni contro le corti, che si leggono nelle sue opere. Sventurato!, — dic’egli — , chi:

pe na pezza vecchia
E per sorchiare vroda a no teniello
Co na panella sedeticcia e tosta,
Venne la libertà, che tanto costa!

Non c’è vita più misera e più carca d’affanni:

Mo se vede tenuto
Mparma de mano e mo puosto nzeffunno,
Mo caro a lo patrone, e mo nzavuorrio;
Mo pezzente, mo ricco;
Mo grasso e luongo, mo arronchiato e sicco!

Stenta e fatica quanto vuoi; ed ecco ti passa innanzi:

No boffone, na spia, no Ganemede,
No cuojero cotecone,
O puro, uno, che facce
Casa a doi porte, o n’ommo co doi facce!84

Tuttavia, il Principe d’Avellino, gran Cancelliero del Regno, e «il più gran signore che fusse in Regno», era «virtuoso et amatore dei virtuosi, a segno tale che sino il suo barbiere, Gio. Battista Bergazzano, fu poeta!» Aveva per moglie una D’Avalos, figliuola del Marchese di Pescara85. [p. xlv modifica]Il Basile ci ha lasciato memoria della lieta società, che, nelle serate d’inverno, s’accoglieva in casa Avellino.

«Passava l’Ecc.mo signor Principe d’Avellino in dilettevoli trattenimenti le notti del verno tra in liete giostre e in sontuosi tornei e in vaghe mascherate et in gioconde commedie et in piacevoli veglie, e in festosi balli». E «una sera, fra l’altre, che in quella nobilissima corte, — delle più illustri d’Italia sovrana emolatrice — , v’erano gran numero dei cavalieri e di Dame ragunate, mentre la più graziosa di quelle, secondo un proposto giuoco, era al tempio dell’Eternità, qui drizzato, condotta con sì peregrine maniere e con sì artificiosi modi formò l’imposto ballo, che, dopo averla a scorno del tempo in quella immortal magione collocata, quasi votiva tabella....devotamente vi sospese».... due odi del Basile86.

Fra l’altro, il Principe d’Avellino, in questo periodo del massimo fiorire della sua casa, pensò di crearsi addirittura una corte, a somiglianza delle sovrane. E si legge in una cronaca, ai principii di maggio 1618: «Si dice che il nuovo Principe di Avellino abbia fatto li cavalieri della chiave d’oro, con provvisione di cinquantadue ducati il mese. Il capo di quelli è il Cavalier Basile, con li Alabardieri»87.

Nel 1619 il Principe lo mandava come governatore feudale alla sua terra d’Avellino88. [p. xlvi modifica]E, da Avellino, dedicava al Principe il suo idillio: Aretusa89, ch’è una delle migliori cose, forse la migliore, che gli uscisse dalla penna, composta in un momento felice, un bel pezzo di storia mitologica, raccontato secondo gli ideali di un letterato seicentista, con tutti i ghirigori barocchi del tempo, ma con molta vena, molto brio, e facilità e melodia di verso. Fa pensare a certi bei dipinti mitologici della scuola bolognese, dei Caracci, o di Guido del Domenichino. Eccone, come saggio, l’ultima parte, dove si descrive l’inseguimento, che fa Alfeo, dell’amata Aretusa:

Alfeo, per quello stesso
Precipizio mortal, sospinse l’acqua,
E, per l’interne viscere ed occulte
De la Terra, e per sotto il mar spumante.
La segue ovunque vada!
Né già potea, per tante
Caligini d’orrori,
Smarrir di lei la sospirosa luce!;
Né già potea per tante humide vie
Sentir men calde l’amorose fiamme!;
Chè mal può l’Oceano
D’impetuoso Amor spegner l’arsura!
Alfin, la sbigottita,
Entro al più cupo seno

[p. xlvii modifica]

Della terra, s’accorge
D’un’occulta apertura, che penètra
Sin dove siede la città del foco,
Per cui, ratto scendendo,
S’invola agli oochi del sagace amante!

O di cieco timor ferza inaudita!:
Non mira, per fuggir, ch’ella già rompe
Del liquido elemento
Le innate leggi eterne,
Che il suo contrario aborra;
E va nel cerchio ardente a portar l’onde
De l’infernal Cocito!

La famiglia d’Inferno
Stupida a mirar prende
Il non più visto fonte,
E fa ’l nuovo portento
Sospender fra quell’alme ogni tormento!

Non si pascon gli augelli.
Non si volgon le ruote,
Non si conduce il sasso a l’alto monte
Nè col cribo si trae l’acqua dal fonte!

Il regnator de la penosa Dite,
Da torvi rai spirando arida luce,
Intende d’Aretusa
Che l’abbia spinto al tenebroso regno.
E, di suoi gravi affanni
Pietoso, forse avria dato a quell’acque
Incendioso albergo;
Ma, per non porre al suo cocente nido
Ospite sì nemica,
L’insegna, ov'ella il varco
Trovi, onde sorga a rivedèr le stelle.

[p. xlviii modifica]

Ove Peloro scovre il mar Tirreno,
Mille aperture ha la Trinacria riva,
Per cui respira il foco, ond’arde il centro.
Una di queste addita
Il signor d’Acheronte ad Aretusa,
Per cui risorge ove non tace il vento;
E fa di nuovo humor bagnate e molli
Di Sicania le piagge,
Di tema ancor gelante, ancor tremante!

Qui ferma il corso, e qui piange in eterno.
Mai sempre humido il ciglio,
D’Ismen la morte, e ’l suo perpetuo esiglio!

L’anno dopo, era tornato a Napoli, e dedicava un altro idillio: Il guerriero amante, a D. Domizio Caracciolo, Marchese della Bella, cadetto di Casa Avellino90. È la storia di un guerriero napoletano, che, andato alla guerra di Lombardia, in una tregua guerresca, s’innamora, e, non corrisposto nel suo amore, disperato, si uccide. E la donna crudele, punta da rimorso e da tardivo amore, si uccide sul morto amante:

Così, dove non valse
Prieghi o sospir del doloroso amante,
È ’l suo morir possente a far pietate
Nel duro sen dell’orgogliosa Ninfa.

Così morte congiunse
Quei, ch’unir non poteo forza d’amore!

Così due somiglianti agli alti Dei,
Fero destin sospinse a morte acerba!

[p. xlix modifica]


Un sol ferro l’ancise,
Un sol marmo l’accolse,
Ove pia man gli chiuse,
E v’intagliò queste dolenti note:

Tardo pentir, sollecito dolore
Empier quest'urna e fer ben duro scempio
D’un’anima crudel, d’un fero core;
Tu, che amata disami, or tranne esempio!


Adriana Basile da Mantova fece una scorsa a Napoli, e vi si trattenne durante l’inverno 1619-20, festeggiata da tutta la buona società napoletana, porgendole ghirlande di versi Giambattista Manso, Domizio Caracciolo, il Marchese di Trevico, Andrea Santamaria, Antonio Basso, Orazio Cernite, ecc91.

Nel 1621 si fondava a Napoli l’accademia degli Incauti, e il Basile vi appartenne92. Intanto, pigliava sempre parte all’accademia degli Oziosi, e per la solennità, che si soleva celebrare nel giorno di S. Giacomo in quell’accademia scrisse, una volta, un’ode93.

Nel 1621-2 fu dal Viceré Cardinal Zapata nominato per un anno governatore della terra di Lagulibero, ossia Lagonegro in Basilicata94. [p. l modifica]

Nel 1623, s’incontra il suo nome alle stampe, come autore degli argomenti in ottave all’Eracleide, Poema di Gabriele Zinano95.

Nel 1624, quantunque stesse sempre a Napoli, pubblicava a Mantova le Imagini delle più belle dame napoletane ritratte da lor propri nomi in tanti anagrammi96, dedicandole al Signor Tomaso Francesco Spinello, Marchese di Fuscaldo. Sono 71 nomi di dame napoletane, cucinati in 88 anagrammi ed epigrammi. Segue un’altra serie di simili componimenti per varii.

Il volumetto, nella sua scioccheria, è di quelli, che fa pensare a molte cose. E fa pensare, anzitutto, alla decadenza del carattere umano, in quei tempi, e alla conseguente vacuità di sentimento e pensiero, che conduceva gente, come il nostro Basile, a perdere il suo tempo in lavori così indegni. — Che cosa sono queste Imagini delle più belle dame? Ecco qui. — Il Basile prendeva il nome di una dama napoletana, che, per suo interesse, per vaghezza, gli convenisse adulare. Per es., quello di D.a Dorotea di Capua, Marchesa di Campolattaro, una signora, — sia detto fra parentesi —, molto nota a quei giorni, e che era stata una delle amanti del Duca d’Ossuna97. Dunque: [p. li modifica]Marchesa di Campolattaro. E, rivolgendo le lettere di questo nome, e provando e riprovando, ne cavava una frase per anagramma, questa: Hai d’amor scettro e palma! E poi, su questa frase, costruiva il seguente madrigale:

Nulla beltà risplende,
Ove tu pompa altera
Fai de la tua bellezza, alma guerriera!,
Nè già di te più degna
Ne l’amoroso ciel trionfa e regna!;
Chè tu sol, chiara et alma,
Hai d’amor scettro e palma!

E aveva il coraggio di far questo per settantuno nomi di dame, e poi per un manipolo di altri trentacinque; e di questi lavori, ingegnosi sì, ma stupidi, disseminava le raccolte e i libri dei suoi amici. E come ne dava, così ne riceveva!, e una gran parte del tempo dei letterati italiani, per un secolo intero, fu occupato nel fare anagrammi. Il rebus e la sciarada, insomma, elevati agli onori altissimi nel mondo letterario!

Nel frontespizio di questo libercolo, comparisce per la prima volta, accanto al suo nome, il titolo di Conte di Torone. Torone è uno dei sei villaggi, che compongono Morrone, in Terra di Lavoro, diocesi di Caserta98. Valendosi del titolo, che gli era stato concesso, egli vi [p. lii modifica]aveva aggiunto il nome di questa terra, che forse aveva comprato. Nel 1626, in una sua lettera, si trova detto Conte di Castelrampa99. Ma poi torna al titolo di Conte di Torone, col quale si fregia nei frontespizi di tutte le ultime sue opere.


Nel 1624 tornò a Napoli l’Adriana, che, sul principio, fu restìa essa a ripigliare la via di Mantova; poi, non fu più voluta da quella Corte; e, malgrado i suoi tentativi, finì col restare a Napoli, fino intorno al 1633, quando andò a stabilirsi a Roma100.

Veniva anche a Napoli lo stesso anno Giambattista Marino, e questo ritorno fu, con quello dell’Adriana, tra gli avvenimenti più notevoli dell’anno. Il Basile lo salutava con una sua ode, «tra per concorrere, — com’egli dice — , coll’universale applauso delle sue meritate lodi, e per obligatione di portare i pregi sino al Cielo di lui, che portato ha le glorie della sua Patria sovra le stelle e per rendersi eziandio grato con pochi versi a chi con tanti parti del suo divino ingegno ha la sua propria sorella altamente celebrata»101. Anche nel Teagene, che aveva per le mani in questo tempo, gli consacrava un’ottava:

Ma chi dirà di te, Marin, gli honori,
Cui Permesso apparecchia eterni allori?

[p. liii modifica]

Quante d’inchiostro versarai tu stille,
Tante fien di dolcezza ampi torrenti!;
Ogni solco di penna a mille a mille
Fior di gloria aprirà lieti e ridenti!;
Una de le amorose alme faville,
Sparse in tue carte, le più voglie algenti
Potrà infiammar; da le tue note altere
Apprenderan nuove armonie le sfere102!

Nel 1626 il Basile aveva uno dei soliti incarichi di governo. Il Vicerè, Duca d’Alba, lo nominava Capitano, ossia governatore regio, di Aversa, pro uno anno integro et deinde in antea ad beneplacitum103. Circa questo tempo, lo si trova anche detto: «Capitano di fanteria nel regno di Napoli»104.

Nel 1627 rimanipolava alcuni suoi volumi precedenti, formandone uno di cinquanta odi, che dedicava al Duca d’Alba, D. Antonio Alvarez, suo protettore105. Questo [p. liv modifica]volume contiene tutte le odi già stampate, e le nuove sono degne delle prime106.

Le odi e i madrigali furono il genere da lui prediletto; ma compose anche, una volta e un’altra, dei sonetti; una ventina dei quali si trovano raccolti in un raro libro, pubblicato dopo la sua morte107. Un sonetto amoroso, ha questo strano argomento: Di donna estinta in sogno s’invaghisce:

Dovrà, lasso!, languir sempre il cor mio
     In sì strana d’Amor spietata guerra,
     Per un lume, ch’è già spento e sotterra,
     Ch’esca fe’ breve sonno al mio desio?
Parta, deh parta, omai sì folle e rio
     Pensier, ch’entro al mio cor si nutre ed erra!;
     Non cerchi invan, chi non trovar può in terra,
     E cada in Lete, se di Lete uscio!
Mortal fu il dono; e che donar può mai
     Fallace sonno, imagin de la morte.
     Bugiardo amor, che il cor di vita sgombra?
Ove s’intese mai più acerba sorte?
     Un falso imaginar mi tragge in guai,
     Parto d’un sogno, ed amator d’un’ombra!

[p. lv modifica]Compose anche tre commedie, intitolate il Fileno, l’Eugenio, e gl’Innocenti assoluti, che non furono mai stampate108.

Com’è noto, ogni anno si faceva dal Popolo napoletano una gran festa, o Apparato, pel S. Giovanni Battista, ornando di pitture, e statue, e iscrizioni, e versi, molte vie della regione di Pendino e di Porto. Il Basile, come gli altri letterati napoletani, non poteva mancare di prendervi parte, con qualche sua composizione. E nell'Apparato del 1626, contribuì con un anagramma, una poesia spagnuola, e un epigramma latino109. — Nel 1628, alla via dei Lanzieri c’era il ritratto del Vicerè con un’ode del Basile; a San Pietro Martire un suo sonetto; e alla Speziaria vecchia un «ingegnosissimo e leggiadrissimo madrigale». E, nell’opuscolo descrittivo della festa, che si pubblicò allora, il Basile appare in una qualità per noi nuova, nella qualità di censore110. [p. lvi modifica]Anche negli altri Apparati, per esempio in quello del 1631, egli contribuì coi suoi versi111.

Nel 1630 venne a Napoli, per passare in Austria, la regina Maria, sorella di Filippo IV, che andava sposa all’arciduca Ferdinando. Tra le tante feste, che si fecero in quell’occasione, il 17 ottobre 1630 i Cavalieri napoletani disposero di rappresentare in Palazzo una sorta di spettacolo di ballo e musica, in sua lode. Le parole le compose appunto il Basile. Quello spettacolo è importante come uno dei primi saggi di drammi in musica, rappresentati a Napoli112. E ne durò la memoria per un pezzo. Il Capaccio dice: «E credo che dovette essere mirabilmente sodisfatta (Maria d’Austria) in quella maschera, che di volontà ferono tanti segnalati Cavalieri, e d’invenzione del Cavaliere Gio. Battista Basile, dove non so qual maggior cosa potesse comparire per vaghezza, per splendore, per diletto, per varietà, di ciò che si ritrova nel tesoro della poesia113». I versi del Basile erano abbastanza brutti, e così parvero anche ad un contemporaneo, al cronista [p. lvii modifica]Ferrante Bucca114. Per la stessa occasione, il Basile compose: Epitalamio alla M. Serenissima di D. Maria d’Austria115.

Il mese dopo, moriva in Napoli il Principe d’Avellino, protettore del Basile. Il quale ne pianse la morte con un sonetto116.


Giungiamo agli ultimi anni della vita del Basile. — Protettore suo, in questi ultimi anni, fu D. Galeazzo Pinelli, Duca dell’Acerenza: nobile signore, e letterato egli stesso, ed accademico Ozioso117.

Già nel 1627, il Basile, dedicandogli un’ode, parla dei «continui favori, che in lui largamente ha sparsi»118. Ma i favori si mutarono poi in un’assidua servitù del Basile, che divenne intimo e famigliare del Duca.

Egli lavorava allora, come sappiamo, ad un gran poema, che era intitolato il Teagene. Il Teagene era un versificamento della Storia Etiopica di Eliodoro, romanzo greco del IV secolo, che fu stampato la prima volta il 1534, [p. lviii modifica]e del quale fin dal 1556 c’era una traduzione italiana, fatta da Leonardo Glinci119. Sono le traversie di una coppia di amanti, che, dopo lunghi travagli, finiscono collo sposarsi in tutta regola.

Questo romanzo ebbe molta popolarità sul principio del secolo XVII120. A Napoli stessa, nel 1627, s’era pubblicata la Carichia, tragedia di Ettore Pignatelli, accademico Ozioso, che drammatizzava la Storia Etiopica121.

Il Basile, nella sua composizione, seguiva strettamente il romanzo d’Eliodoro, anzi la traduzione del Glinci122. Ma,

naturalmente, riduceva il racconto in quella forma convenzionale, nella quale s’era allora fissato, la poesia epica, il poema heroico. Cominciava: [p. lix modifica]

Canto l'heroe, d’Achille inclito germe,
E ’l seme di Perseo, l’alta Donzella,
Che trasse errando in parti ignote et erme
Fortuna, a lor lunga stagion ribella;
Alme in valor non vide il Ciel più ferme,
Coppia non ebbe Amor più fida e bella;
Molti affanni soffrirò; in Meroe alfine
Cinser di bianche bende il nobil crine.

Questa prima ottava non promette molto, e il resto, difatti, risponde al principio. Il servile versificamento non è rallegrato se non dai soliti luoghi comuni dei poemi heroici; la forma è piena zeppa d’improprietà; i versi, disarmonici e stentati. Il brutto poema doveva essere dedicato a D. Antonio Barberino.

Nel Canto V, il Basile introduceva, con un artifizio, le lodi dei poeti del suo tempo. Calasiri descriveva il tempio d’Apollo in Delfo, dove erano, tra l’altro, l’effigie di tutti i mecenati e poeti, passati e futuri. Tra i mecenati, nominava il suo presente signore, il Duca dell’Acerenza:


Un Galeazzo ancor, prodigo altrui
Quanto largo di pregio a lui fu il cielo,
Non vedrà mai nei fatti incliti sui
Giunger del Tempo o della Morte il telo!
O mille volte fortunato, a cui
Dato in sorte a vestir terreno velo
Sarà in quei lieti e fortunati giorni,
Quando un sì vivo lume il mondo adorni123!


E, di poeti, una tale valanga d’immortali poetucoli e poetastri, da fare spavento! [p. lx modifica]D. Galeazzo Pinelli era anche signore di Giugliano, paesello della Campania (ora prov. di Napoli, circ. di Casoria), sulla via tra Napoli e Nola124. E di Giugliano il Pinelli nominò governatore Giambattista Basile, a quanto pare intorno al 1631.

Un bruttissimo inverno fu quello del 1631-2. Cominciò male, colla terribile eruzione del 16 dicembre 1631, colla quale il Vesuvio si svegliò dal suo sonno secolare. L’eruzione del 1631 produsse un’intera letteratura scientifica e poetica125. Anche il nostro Basile contribuì a questa letteraria manifestazione di spavento con tre sonetti, uno dei quali è un bello, anzi un brutto saggio del più puro seicentismo:

   Con vomero di foco, alto stupore.
          Mostruoso arator solca il terreno,
          E il seme degl’incendii accolto al seno
          Vi sparge, e ’l riga di fervente umore.
    E, quindi, a fecondarlo, in rapid’hore,
          Di cenere ben ampio, il rende pieno;
          Onde, quanto circonda il mar Tirreno,
          Messe raccoglie di profondo horrore.
    Ma, se danno produce a noi mortali
          Cotanto aspro Vesevo; ond’ogni loco
          Arde, né scampo ei trova in mezzo al verno;

[p. lxi modifica]

    Pur raccoglier ne giova in tanti mali
          Dal cener sparso, e dal versato foco,
          Membranza de la Morte, e dell’Inferno
126!

Ma «erano appena terminati i flagelli dell’incendio, — dice un cronista — , quando il giusto Dio, scorgendo, che non erano ancora emendati, volle darli altra sorte di gastigo, poiché insorse un male di canna così crudele e contagioso, che parve peste, del quale in pochi dì morsero infinite genti!»127. Morirono anche moltissimi dell’aristocrazia; e «tuttavia ne van morendo dì per dì più, — seguita il Costa — , e ne sono morti di subito D. Giovanni d’Aquino, Principe di Pietrapulcina, e Giovan Battista Basile, dei primi poeti di questo tempo, e Gio. Girolamo di Tomaso, medico assai celebre»128.

Infatti, il Basile mori improvvisamente a Giugliano, dove si ritrovava al governo, il 23 febbraio 1632, sine sacra mentis et sine electione sepulturae129. Fu sepolto, cum magna pompa funerali, nella chiesa di S. Sofia, dove, fino a qualche tempo fa, sotto il pergamo, si vedeva la sua tomba. [p. lxii modifica]Sua sorella, Adriana, che andò a stabilirsi a Roma, prese cura di pubblicare, in una bella edizione, a Roma il 1637 «l’ultimo parto dell’ingegno di suo fratello», il Teagene, dedicandolo, secondo le intenzioni di lui, al Card. Antonio Barberini130. Un manipolo di poeti loda, al solito, il poema, l’autore, la sorella dell’autore, le figlie di questa e, specialmente, la bellezza e il canto di Leonora Barone. Caterina Barone, altra nipote dell’autore, scrive in un sonetto:

Deh potess’io col tuo pregiato stile
Scriver, e coi tuoi lauri ornarmi il crine,
Del mio materno sangue alma gentile!


E, innanzi al poema, c’è il ritratto del Basile, buona incisione di Nicola Perrey, da una pittura disegno di Giambattista Caracciolo131. Una simpatica e maschia figura [p. lxiii modifica]in abito militare, che ci presenta in tutta la sua dignità il Cavalier Giovan Battista Basile, Conte di Torone, e Gentil’huomo di S. A. di Mantova, uno dei felici ingegni del secolo.




___________________

  1. Vedi appendici A e B, sulla patria, e la data di nascita del Basile.
  2. V. append. C, sulla famiglia del Basile.
  3. Viaggio di Parnaso, IV, 40. Delle opere del Cortese cito l’ediz. del 1621, per la quale v. più oltre cap. II, di questa Introd.
  4. Le avventurose disavventure, A. III, S. V. Cito dalla 3.a ediz. Mantova, per gli Osanni, 1613, che ha molte varianti sulle precedenti.
  5. Le avventurose disavventure, l. c.
  6. Ode, Napoli, 1627, p. 36.
  7. Le avventurose disavventure, l. c.
  8. Ademollo, La bella Adriana e le altre virtuose del suo tempo alla Corte di Mantova, Città di Castello, Lapi, 1888; p. 117.
  9. V. più innanzi cap. II.
  10. Lo cunto de li cunti, J. I, T. VII.
  11. Non sappiamo se fu in questo viaggio che capitò a Vicenza: tra le sue poesie troviamo un madrigale per l’Armida, tragedia del vicentino Ludovico Aleardi, e un altro «per l’illustrissimi signori Accademici Olimpici», che paiono accennare a una dimora in quella città, prima del 1609, nel quale anno si trovano stampati (nell’ed. del 1609, che si cita più oltre). L’Armida dell’Aleardi fu stampata poi a Vicenza, il 1611 (Quadrio, Storia e ragione d’ogni poesia, III, I, 79). Gli Olimpici di Vicenza era un’accademia sorta circa il 1590 (ivi, I, 112)
  12. J. IV, T. IX.
  13. Egl. La Coppetta, alla fine della J. I.
  14. Ode, p. 36.
  15. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, T. VI, Venezia, 1857, pp. 498-9; T. VII, 1858, pp. 355 sgg. E v. anche Luca da Linda, Le descrizioni universali et particolari del mondo e delle repubbliche, In Venezia, MDCLX, pp. 493-6.
  16. Ode, p. 36. per costoro scrisse l’ode: A Venezia, pp. 37-8
  17. Questo nome apparisce in fronte a molte sue opere. Sull’accademia degli Stravaganti, v. Quadrio, o. c., I, p. 61. L’Imbriani fa menzione di una raccolta di orazioni del Cornaro, che è tra i codd. della Marciana, N. XX: Cl. VIII; fra le quali ce n’ha una: Nella fondazione dell’accademia degli Stravaganti in Candia (Imbriani, Il gran Basile, in Giorn. Napol. fit. e lettere, A. 1875, I, 46-8).
  18. Ode, pp. 39-40
  19. Delli Madriali et ode, Napoli, 1609. Cito dalla ristampa di Mantova per gli Osanni, MDCXIII, p. 53.
  20. Teagene, Roma, 1637, C. V. 45.
  21. Delli Madriali et Ode, ed. cit., I, p. 45.
  22. Ode. pp. 47-8.
  23. In quell’anno morì a Roma il suo predecessore Tommaso Contareno, e Clemente VIII, sulla quaterna proposta dalla serenissima, scelse il Grimani. Cfr. A. Morosini Istorie veneziane latinamente scritte (nella collezione: Degli Historici veneziani, i quali hanno scritto per pubblico decreto), T. III (VII), Venezia, MDCCXX, appresso il Lovisa, p. 303. Il Gams, al solito erroneamente, pone l’inizio dell’arcivescovato del Grimani al 1610 (Series episcoporum eccl. cathol., Ratisbonae, 1873, p. 401).
  24. Morosini, Istorie cit., III (VII), 367-9, 371-2.
  25. Ode, pp. 41-3.
  26. Morosini, Ist. cit., p.393.
  27. Morosini, o. c., pp. 401-2.
  28. Ode, pp. 44-6.
  29. «Cretensibusque trierarchis quod egregiam operam Reipublicae praestitissent, quodque praeclarum in eam studium patefecissent, gratiae a Senatu actae». Morosini, o. c., pp. 401-2.
  30. Così, sempre nelle Avventurose disavventure, l. c. Come poi potesse fare tutti questi viaggi, e dimorare gran tempo in ciascun luogo nel breve spazio tra l’autunno del 1607, che stette nelle galee del Bembo, e il 1608, nel quale anno certo stava a Napoli, è uno dei misteri della biografia del Nostro. E dire che da un’altra allusione si dovrebbe ricavare che egli fu anche nelle Fiandre! Infatti, in una di quelle lettere napoletane, stampate in coda alla Vajasseide del Cortese, e che, come si dirà più innanzi, son opera sua, si legge: «Io, che so sapatino ed ecciacuervo, e saccio quanta para fanno tre buoje, ch’aggio fatto sti quatto pile a la guerra de Shiannena, co no stratagemma meletare le voze fare na nvoscata». Ma questa può darsi che sia un’affermazione scherzosa.
  31. Sembra che tornasse per mare: «Torsi il camin di nuovo al mar Tirrheno», dice nelle Avventurose disavventure, l, c.
  32. Le avventurose disavventure, l. c.
  33. Vedi Ademollo, La bell’Adriana, Cap. I.
  34. Intorno a costui che fu il quarto principe di Stigliano, Duca di Mondragone, ecc, v. B. Aldimari, Famiglia Carafa, Nap., 1691, II, 391-6.
  35. Chioccarelli cita: Nap., 1608 (De illustribus scriptoribus, T. I, Neap., MDCCLXXX: pp. 303-5). Il D’Afflitto: Nap. Per Tarquinio Longo, 1608 (Mem. degli sor. del regno di Nap., Nap., 1794, II, 68 sgg.). Il Basile lo ristampò a Mantova, per gli Osanni 1613, seconda impressione, e gli editori dicono che fu «quasi nella fanciullezza la prima volta mandata in luce». Cfr. append. B. Nell’ediz. di Mantova è accompagnato da altre poche rime spirituali,
  36. V. le rime che precedono l'ediz. di Mantova, 1613.
  37. Ambrogio Staibano, Tempio Eremitano, Nap., 1608.
  38. Ode, pp. 57-9. — V. Descrizione delle feste fatte nelle reali nozze dei Serenissimi Principi di Toscana D. Cosimo dei Medici, e Maria Maddalena Arciduchessa d’Austria, in Firenze, appresso i Giunti, 1608.
  39. Ode, p. 49.
  40. Ode, pp. 50-3.
  41. ivi, pp. 54-6. Don Carlo Spinelli morì giovane di 35 anni, il 17 gennaio 1614, lasciando un figliuolo, di nome Scipione, e una figliuola, Isabella. È sepolto in S. Caterina a Formello, e l’iscrizione della tomba è riportata dal Celano, Not. del bello, curioso ecc. della città di Napoli., ed, Chiarini, Nap., 1855-60, II, 457. Le odi, alle quali mi riferisco, sono stampate per la prima volta nell’ediz. nap. del 1609. Ora il Basile nel 1607 era ancora a Candia, sul finire nel 1608 lo troviamo a Napoli. Il viaggio (se pure non fu fatto prima del ritorno a Napoli) deve porsi tra il 1608, e il 1609, che stampò il suo libro.
  42. Dei Madriali et Ode, Napoli, per il Roncagliolo, 1609 (Chioccarelli, l. c. Toppi, Blbl. Nap., p. 130). Forma la prima parte della ristampa mantovana di Madriali et Ode, Mantova, 1613.
  43. Per es.: due settenarii e due endecasillabi alternati, e due endecasillabi; ovvero: quattro settenarii e due endecasillabi; ovvero: tre settenarii e tre endecasillabi alternati; ecc. Più raramente, la strofe è di sette, otto o dieci versi. Lo schema delle rime: abbacc, ovvero: ababcc; e, talora; ababbcc; e: ababccddee
  44. Oltre le poesie già accennate, vi sono in questo volumetto le seguenti altre d’indole storica: Tre odi; l’una per Giuseppe d’Acunto, giureconsulto, e dilettante scultore; l’altra, per Gio. Berardino lino, pittore e scultore; la terza, per lo scultore Giulio Grazia. Sull’Azzolino, cfr. il De Dominici (Vite del pittori, scultori, ecc.. Nap., 1843, II, 263 sgg.), che lo fa nascere in Genova il 1510! Per una pittura dell’Azzolino, c'è anche un madrigale. Un’ode è in morte di Don Fernando di Castro, Conte di Scelves; e alcuni madrigali in vita di D. Fernando d’Avalos. Il quale, difatti, fu marito di D.a Margherita d’Aragona, e morì il 1609, quando appunto si stampava il volume. Inoltre, un madrigale per Giambattista della Porta e un altro pel dottor Horazio Cataneo, accademico Intronato.
  45. Vedine il racconto vivo e minuto nell’Ademolli, La bell’Adriana, C. III e IV.
  46. Doc. pubbl. dall’Ademollo, o. c, pp. 89-90.
  47. Lettera del Gentili, 12 maggio 1610 — Ademollo, La bell' Adriana, p. 117
  48. Ademollo, o. c, p. 117.
  49. Il Teatro delle glorie, p. 131.
  50. Le avventurose disavventure Favola maritima di Gio. Battista Basile il Pigro Accademico Stravagante di Creta. In Napoli, presso G. B. Gargano e Lorenzo Nucci, 1611 (Chioccarelli, l. c). La 2a ediz. è di Venezia, MDCXII, appresso Sebastiano Cambi. La 3a, è di Mantova, presso gli Osanni, 1613. — Cfr. anche Imbriani, Il Gran Basile, l. c, II, pp. 197-205.
  51. Si noti anche che «la scena si finge in Sirena, luogo delizioso di Posilipo». Ora la Sirena era il nome dell’antico palazzo Bonifacio, comprato dal secondo Principe di Stigliano, Luigi, a Posilipo, edificato su di uno scoglio in mezzo alle acque (Aldimari, o. c, II, 383; Celano, o. c., V, 632). Fu poi rifatto e abbellito dal Duca di Medina Las Torres, marito di D.a Anna Carafa, Principessa di Stigliano, ed è il palazzo detto di Dognanna, del quale è celebre la storia e ancora avanzano le pittoresche ruine.
  52. Atto II, Sc. I.
  53. Il Teatro delle glorie, pp. 131-2.
  54. Vi premise anch’esso un epigramma.
  55. G. Minieri Riccio, Cenno storico delle accademie fiorite in Napoli in Arch. Stor, Nap., V, 148 sgg.
  56. Tommaso Costo, Memoriale delle cose più notabili accadute nel Regno di Napoli dall'incarn. di Cristo per tutto l'anno MDCXVII, con la giunta del Mormile, in Napoli, per Scipione Bonino, 1618, e ristamp. per il Gaffaro, 1639, p. 86.
  57. Relatione della pompa funerale in morte di Margherita D'Austria di Ottavio Caputo, Nap., 1612 (cit. dal Minieri Riccio, Not. biogr. e bibliogr,, degli scrittori napol. fior, nel s. XVII, i cui nomi cominciano con la lett. B-, Nap., 1877, p. 13.
  58. Napoli, presso Gio. Domenico Roncagliolo, 1612 (Chioccarelli, l. c.)
  59. Nap., per il Roncagliolo, 1612 (D’Afflitto, l., c.); ristamp. a Mantova, 1613. Cfr. Croce, I Teatri di Napoli (s. XV-XVIII), Nap., 1891, p. 116.
  60. Su questa tragedia, v. art. di F. Fiorentino, sul Giornale Napoletano di filos. e lett. it., A. 1880; e cfr. Croce, I teatri di Napoli, p. 82.
  61. Cfr. Litta, Famiglia Gonzaga, Tav. VI; e Ademollo, o. c., pp. 168-9.
  62. Cfr. Litta, o. c., Tav. IX.
  63. Odi e madrigali, che furono raccolti la prima volta nella seconda parte dell’ed. di Mantova, 1613. Il Minieri Riccio cita ancora del Basile: Relatione delle pompe e solennità fatte per le nozze del Cristianissimo Luigi XIII Re di Francia etc. tradotta da Francese in Ispagnuolo e da Spagnuolo in Italiano, Nap., 1612. Inoltre, alcuni versi nel libro Albero e genealogia della famiglia Scorza, Nap., 1611, in fol. (Minieri Riccio, Not. biogr. e bibliogr., pp. 12-3).
  64. Ora circondario di Casale, frazione di Montalero.
  65. Ded. di Domizio Bombarda al Teatro delle glorie, pp. 5-6. — Il fratello Giuseppe, poi, «nella Fiandra per le molte virtù che l’adornano da quell’Altezza d’Austria in grande stima tenuto». E cfr. Ademollo, La bell’Ariana, passim.
  66. Ode, p. 113. Di questa scultura di Michelangelo non pare s’abbia altra notizia.
  67. Era nata nel Dic. 1611. Cfr. Ademollo, La bell’Adriana, pp. 191-2.
  68. Il doc. è pubbl. dall’Ademollo, o. c., pp. 199-200. Il decreto fu pubblicato dal Bertolotti nel Giornale araldico diplomatioo genealogico dell’agosto 1884, n. 2, pp. 31-2.
  69. Si soggiunge la facoltà di crear notai e giudici ordinarli in tutto il Romano Impero, et ubilibet terrarum. — Arch. di Mantova, 1613, 6 aprile, Liber decret., n. 54. p. 30 t.o — Debbo questo documento all’amico Conte E. Rogadeo, che a sua volta l’ha ottenuto dal signor S. Davari, la cui cortesia è ben nota agli studiosi.
  70. Viaggio di Parnaso, IV, 35-39
  71. Ivi, C. V e VI.
  72. Viaggio di Parnaso, V, 10-I.
  73. Arch. di Mantova. Debbo questa e le altre lettere del Basile all’amico Prof. N. F. Faraglia, che le ha anche ottenute dal Davari.
  74. Lettera da Napoli, 20 Dicembre 1613. V. append. D. L’Imbriani suppone che il Basile fosse a Roma il 1614, perchè tra i suoi madrigali ce n’ha uno: Per la colonna drizzata nel colle Esqulino per la santità di Papa Paolo V, appunto nel 1614 (l. c, I, 51).
  75. Ademollo, La bell’Adriana, pp, 210-11, e passim.
  76. Sua lettera da Montemarano, 14 Marzo 1615, al Duca di Mantova. — V. Append. D.
  77. Arch. di Stato. Spoglio dei Cedolarii: Principato ultra, 1600; ff. 239-40. Cfr, Ottavio Beltrano, Descr. del Regno di Nap., Nap., 1640, p. 106; G. B. Pacichelli, Il Regno di Nap. in prospettiva, Nap., 1703, I, 1241.
  78. Costo, Memoriale, p. 88; Ode, pp. 140 sgg. Sul Carafa, cfr. anche Ghilini, Teatro d’huom. letterati, Milano, s. a., pp. 414-5.
  79. Rime di M, Pietro Bembo degli errori di tutte le altre impressioni purgate aggiuntevi l'osservationi, le varietà del testi e la tavola di tutte le desinenze delle Rime del Cavalier Gio. Battista Basile nell’Accademia degli Stravaganti di Creti e degli Otiosi di Napoli il Pigro, In Napoli, per Constantino Vitale, MDCXVI. La Tavola delle desinenze ha un frontespizio particolare, colla data del 1617. In tutto, pp. 260.
         Rime di M. Giovanni della Casa riscontrate coi migliori originali e ricorrette dal Cavalier Gio. Battista Basile, In Nap., per Constantino Vitale, MDCXVII. pp. 102.
         Osservationi intorno alle rime del Bembo e del Casa con la tavola delle desinenze delle Rime e con la varietà dei testi nelle rime del Bembo di Gio. Battista Basile, Cavaliero, Conte Palatino et gentiluomo dell’Altezza di Mantova nell’accademia degli Stravaganti di Creti et degli Otiosi di Napoli il Pigro, In Nap., nella stamperia di Constantino Vitale, MDCXVIII, di pp. 512 numm. Queste ultime sono dedicate a Marco Scitico Altemps, arcivescovo e principe di Salspurg, al quale l’A. si professa grato «per li favori ch’Ella si è degnata di fare a mia casa, nella persona di mio fratello».
  80. Rime di Galeazzo di Tarsia nobile Cosentino raccolte dal Cavalier Basile dell’Accademia degli Otiosi, detto il Pigro, Napoli, appresso Constantino Vitale, 1617. Fu ristampata materialmente il 1694, 1698, e 1716, e, con cura critica, il 1738, 1750, 1752. Su di un nuovo codice, ristampò le Rime del Tarsia lo Spiriti: In Nap., MDCCLVIII, nella stamp. Simoniana. Ora se ne ha l’edizione del Bartelli: Galeazzo Di Tarsia, Il Canzoniere, Cosenza, 1888.
  81. Cfr. ed. cit. del Bartelli, pp. XIV sgg.
  82. De’ Madriali et delle Ode del Cavalier Gio. Battista Basile, Conte Palatino, et Gentiluoìno dell' Altezza di Mantova, Parte Terza, In Napoli, per Constantino Vitale, 1617. — Ded. in data 20 Febbraio 1617. Contiene, tra l’altro, odi pei pittori Stanzioni e Caracciolo, e una per l’esilio del Duca di Nocera (cfr. Arch. Stor. ital., IX, 227). L’Imbriani, da un luogo del Teagene (VIII, 48), cava che il Basile dovesse visitare anche altri luoghi del Principato; certo, le ferriere dell’Atripalda {Il Gran Basile, 1. c., I, 53).
  83. Suo padre, generale della cavalleria del Regno, era morto in Lombardia nel Dicembre 1617. — Costo, Memoriale, p. 94.
  84. Egl. La Coppella. Cfr. anche III, 7, 9, ecc.
  85. Bucca, Aggiunta al Giornali di Scipione Guerra, Ms. Bibl. Naz., segn. X. B. 66. — sub 4 Nov. 1630.
  86. Ode, pp. 11-5.
  87. Zazzera, Giornali, ms. Bibl. Soc. Stor. f. 175 t. Ed. a stampa (Arch. Stor. Ital,, IX), p. 534.
  88. Ode, p. 216. A Montefusco, poco lungi da Avellino, «dovendosi da peregrini ingegni, rappresentar....., il pietoso strazio per amor di Christo sofferto dalla Vergine e Martire santa Cristina», egli, pregato, compose alcuni versi per quell’occasione.
  89. È sconosciuta a tutti i bibliografi: L’Aretusa Idillio di Gio. Battista Basile Cavaliero Conte Palatino et Gentil'huomo dell’Altezza di Mantova, s. a. 1. (pp. 31 numm., e a p. 32, errata corrige). La ded. é firmata: «Nella sua città d’Avellino, a primo Gennaio 1619».
  90. La ded. è datata: Napoli, 1 di Maggio 1620.
  91. Ademollo, La bell’Adriana, p. 244 sgg.
  92. Minieri Riccio, Cenno delle accademie, IV, 527-8.
  93. Ode, pp. 199-202.
  94. Provvis. 18 Giugno 1621. — Arch. di Stato, Collaterale Officior., vol. 14 (1610-22), fol. 128 t.o — V. Append. E.
  95. L’Eracleide di Gabriele Zinano, all’invittissimo et gloriosissimo signor Il Cattolico Don Filippo IIII d’Austria, Re di Spagna e del mondo Nuovo universale Monarca, Per il Deuchino, con lic. e priv., In Venezia, MDCXXIII. Cfr. Imbriani, Il Gran Basile, l. c, II, 213-4. Il Basile, nel Teagene (V, 59), dice del Zinano: «D’Eraclio canterà l’eccelse imprese Zinan, che trarre i monti a sè ben puote».
  96. In Mantova, 1624. Ded. da Nap., 1 Maggio 1624 (di pp. 94-49).
  97. Ved. Croce, I teatri di Napoli, pp. 100-101.
  98. Morrone, ai principii del v. XVII, apparteneva a Matteo di Capua, Principe di Conca. Nel 1621 G. C di Capua lo vendette a G. C. Pisano (Arch. di Stato, Spoglio dei cedol.: Terra di Lavoro: 1600, fol. 73. — Cfr. Giustiniani, o. c., VI, 165.
  99. Napoli, 24 novembre 1626; v. Append. D.
  100. Ademollo, La bell’Adriana, pp. 289-323.
  101. Ode, pp. 147-150.
  102. Teagene, V, 66-7.
  103. La nomina è in data del 28 dicembre 1626 {Officior., Collat., vol. 22, 1625-8, fol. 86 t.°). È strano però che nel volume delle Ode, stamp. a Nap., 1627, e colla dedica in data I gennaio 1627, ci sia un’ode a S. Francesco, scritta quand’egli era governatore d’Aversa, ad istigazione del P. M. Andrea Torres Carmelita, che predicò ivi l’intera quaresima. Dunque, o la dedica è antidatata rispetto alla stampa del volume, o il Basile fu anche un’altra volta, antecedentemente, governatore d’Aversa. V. append. E.
  104. Così Dom. Bombarda nella dedica in data I aprile 1628, al Teatro delle glorie, ristampato in Napoli il 1628.
  105. Ode del Cavalier Gio. Battista Basile, Conte di Torone e Gentiluomo dell’Altezza di Mantova, all’Illustrissimo ecc. Duca d’Alba ecc., In Napoli, per Gio. Dom. Roncagliolo, 1627, di pp. 224.
  106. Tra quelle finora non notate, ce n’ha pel Cardinal Borghese, per Nicola Barbarigo e Marco Trevisano, per D. Alvaro de Torres, per Muzio Barone, pel P. Alfonso Daniele, ecc.
  107. Rime d’illustri ingegni napolitani, raccolte dal Dottor Gio. Domenico Agresta, insieme con le sue rime, et coll’argomenti d’un verso, in fronte di ciaschedun componimento, date in luce dal signor D. Giuseppe Macrino, In Venezia, per il Ciera, 1633. — Contiene rime dell’Agresta, di Gio. Dom. del Gaudio, di Aniello Palomba, di Nunzio Morone, di Fabrizio Marotta, e, da pp. 117 a 136, diciannove sonetti del Basile.
  108. Chioccarelli (De illustr. script.): «edidit quoque comoedias ìtalice, nondum excussas». Per altre bazzecole, scritte dal Basile, poesie laudative, anagrammi, ecc., rimando all’elenco fattone dal Minieri Riccio, Not. biogr, e bibliogr. cit., pp. 12-3. Il Mazzuchelli cita inoltre: Sacri sospiri, madrigali, Mantova, Osanna, MDCXXX: che l’Imbriani suppone non esser altro se non i Madrigali Spirituali, che si leggono dopo, il Pianto della Vergine (Il Gran Basile, l. c., II, 215).
  109. Cfr. Minieri Riccio, ''. biogr, e bibliogr., l. c.
  110. Descrittione dell’Apparato di S. Giovanni fatto dal Fedelissimo Popolo Napolitano, all’Ill.mo ecc. Duca d’Alba, 1628, di Giov. Berardino Giuliani, Segretario dell’istesso Fedelissimo Popolo, In Napoli, per Domenico Maccarano, 1628. V. lett. del Basile, al Duca, 13 settembre 1628, in fine.
  111. Cfr. Padiglione, La Biblioteca del Museo nazion. di S. Martino, Nap., Giannini, 1876, pp. LXXV-LXXXI. L’Apparato del 1629 uscì dal solito, perchè fu diviso secondo i segni dello Zodiaco, ciascun segno rappresentando una virtù del Duca d’Alba, che era lungamente svolta ed illustrata. Ved. Francesco Scacciavento, Il Zodiaco, Nap., 1630.
  112. Monte di Parnaso Mascherata da Cavalieri Napoletani alla M. Serenissima di D. Maria d’Austria, Reina d’Ungheria, rappresentata. In Nap., 1630. Cfr. Alessandro Fellecchia, Viaggio della Maestà della Regina di Bohemia e d’Ungheria, Nap., Roncagliolo, 1630, p. 56; e Croce, I teatri di Napoli, pp. 107 sgg.
  113. Capaccio, Il Forastiero, Nap., 1634, p. 959.
  114. «Non scrivo i propri versi,...., sì per non esserno molto degni di memoria, come anche per esserno stampati da Gio. Battista Basile, componitore della poesia, e da Iacinto Lombando, posti in musica». Bucca, Aggiunta, ms. cit., sub 17 ott. 1630.
  115. Nap., 1630.
  116. Rime d’illustri ingegni napol., p. 131. Il Principe d’Avellino lasciava solo una figliuola; postumo nacque un maschio, erede della casa e del titolo (Bucca, Aggiunta cit., sub 4 Nov. 1630.
  117. V. sue rime nel Teatro delle glorie, p. 189; e anche in alcune carte dell’Accad. degli Oziosi, ms. Bibl. Naz,, XIII, B, 77.
  118. Ode, pp. 127-131.
  119. Ne ho sott’occhio l’edizione: Historie di Heliodoro delle cose ethiopiche, ecc. ecc., nuovamente tradotta dalla Lingua Greca nella Thoscana da Messer Leonardo Glinci, In Vinegia, MDCXI, presso Andrea Baba.
  120. Di ciò discorre a lungo e bene l’Imbriani, Il Gran Basile, 1. c., II, 416-23. Qui ancora, notizia sulle varie traduzioni e rifacimenti. Noto, però, che il Teagene e Cariclea del Montalbano, da lui menzionato, non è un dramma italiano, ma è il Teagenes y Clariquea (los hijos de la fortuna) del poeta spagnuolo Juan Perez de Montalvan (1602-38). Cfr. Barbera y Leirado, Catal. bibliogr. y biogr. del teatro antiguo espanol, Madrid, 1860; p. 267.
  121. Del Pignatelli, il Basile dice nel Teagene (V, 68):

    Un Ettore, splendor de la Sirena,
    Tra mill’opre, onde avrà fama immortale,
    Cariclea min, pompa d’illustre scena
    Farà fuor de l’oblio fosco e letale.

  122. L’Imbriani dà un saggio del modo come il Basile verseggia la prosa del Glinci.
  123. Teagene, C. V, 49.
  124. Giugliano era stato venduto il 1536 da Gio. Berardino Carbone ai Pinelli. Galeazzo, appunto, lo vendette poi il 1639 a Cesare d’Aquino, Principe di Pietralcina. Negli ultimi tempi, fu posseduto dai Colonna, Principi di Stigliano. Ved. Agostino Basile, Memorie storiche di Giugliano, Nap., 1800, pp. 125 sgg.
  125. Ved. L. Riccio, Bibliografia della eruzione vesuviana dell'anno 163l in Arch. Stor. Napol., XIV, 537-55.
  126. Due di questi sonetti furono stampati nella Scelta di poesie nell’incendio del Vesuvio fatta dal Sig. Urbano Giorgi, Segretario dell’Ecc.mo Conte di Conversano; ded.ta al Cardinal Antonio Barberini (in fine: Roma, MDCXXXII), pp. 41-2. Tutti e tre nelle Rime di illustri ingegni nap., pp. 133, 135-6, Debbo l’aver potuto vedere questi rari volumetti, conservati nella Bibl. del Club Alpino, alla cortesia del Cav. Luigi Riccio.
  127. Bucca, Aggiunta, ms. c., sub Febbr. 1632.
  128. Bucca, ivi.
  129. V. append. E, F.
  130. Teagene Poema del Cavalier Gio. Battista Basile Napoletano Conte di Torone, All’Eminent.mo et Riv.mo Sig.re il Sig.re Card. Antonio Barberino, In Roma, appresso Pietro Antonio Facciotti, Con lic. dei Sup., L’anno MDCXXXVII. — La ded. dell’Adriana è in data di Roma, 10 marzo 1637; il permesso di stampa, 16 aprile 1635.
  131. Su Giambattista Caracciolo, v. ciò che dice il de Dominici, o. c.,III, 37-64: il quale ne pone la morte al 1647. Il Basile ne cantò le lodi in un’ode (Ode pp. 160-3). Questo ritratto fu riprodotto ne Le glorie degli Incogniti (Venezia, 1647); dove è accompagnato da una biografia del N., che non ho avuto occasione di citare, perchè non dice nulla. E l’originale e la riproduzione (!) furono riprodotti nel Giambattista Basile, Archivio di letteratura popolare, III, 1, 3. Dal ritratto anzidetto derivano un ritratto, ch’è inserito nella Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, edita da Nicola Gervasi (1813-20), accompagnato da una biografia di Giuseppe Boccanera di Macerata; e un altro, che fu riprodotto nel n. 58, A. I, del giornale napol. La ncunia e lo martiello (1868), insieme con quello di un preteso descendente del Basile, che viveva una ventina d’anni fa, e scriveva un’infinità di libercoli enciclopedici, invidiando la fama di un Ingarrica o di un Fenicia.