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xx | introduzione |
tutto pareva minacciar guerra. Filippo III dava ordine al Conte di Fuentes di raccogliere un esercito ai confini, per tenerlo pronto all’invasione, se Venezia non cedeva. Ma la Repubblica cominciò gli armamenti. Si raccolse una gran flotta, e, di questa, il 14 gennaio 1607, fu fatto generale Giovanni Bembo, Procuratore di S. Marco, che, sulla metà di febbraio, entrò in ufficio1.
Enrico IV si adoprava, intanto, a mettere pace tra il papa e i Veneziani, desideroso che questi rivolgessero le loro armi contro gli Spagnuoli.
Il Basile si trovava nel bel mezzo di queste minacce di guerre: «Era sossopra l’Italia, — egli scrive — , nè d’altro che d’ira e di morte si ragionava, mentre l’intrepido Leone empiea di tremendi rugiti l’Adria e il Tirreno». Ed egli, «dentro alle tempeste dell’armi, dall’Impetuosa Fortuna sospinto, si ritrovava». E, «premendoli nel vivo del cuore, che tante armate schiere la tranquillità dell’Europa rendessero torbida ed inquieta», il nostro guerriero poeta, e più poeta che guerriero, scrive un’ode per persuadere l’una e l’altra parte «a sospendere l’ire»:
Sian dolci Paci l’Ire,
Gli Odi Pietà, celeste Ardor gli Sdegni,
Puro affetto l’ardire,
Ed humiltà ne l’alterezza regni!
Sian l’armi caducei, Plettri le squille.
E ne l’horror di Morte Amor sfaville2.