Letteratura romena/V. Titu Maiorescu e la «Junimea»
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Capitolo V.
TITU MAIORESCU E LA «JUNIMEA».
M. EMINESCU, A. VLĂHUTZA, GB. COȘBUC.
Con Titu Maiorescu (1840-1917) e la società da lui fondata «Junimea» (La giovinezza), l’influsso francese subisce una momentanea interruzione. Nato a Craiova in Oltenia (parte della Valacchia), ma di famiglia transilvana, egli fece gli studi superiori a Vienna, dove si laureò in filosofìa, e fu, oltre che professore universitario non solo apprezzato e stimato, ma ammirato fin quasi all’idolatria; critico illustre, uomo politico importantissimo (fu parecchie volte presidente del Consiglio dei Ministri), conferenziere brillante, in una parola, uno dei capi spirituali più importanti dalla Romania moderna ed iniziatore di un movimento di riforma non solo critica e letteraria, ma anche politica e, direi, umana, in quanto si propose di sostituire all’irrequietezza romantica un nuovo ideale di vita, consistente in una fusione armonica di tutte le facoltà e attività dello spirito in un’unità di aristocratico, benché un po’ freddo, manierato ed accademico equilibrio. Primo introduttore in Romania della filosofia tedesca soprattutto kantiana e schoponhaueriana, fu il primo ad affermare la necessità per la cultura romena di liberarsi ad ogni preoccupazione politica nazionale, seguendo il metodo scientifico della ricerca e dello studio delle fonti. All’influsso francese dilagante tentò sostituire quello del pensiero e della cultura tedesca; si oppose con successo alla faciloneria degli scrittori del tempo e mosse guerra senza quartiere alle esagerazioni sì dei «latinisti» che degli «italianisti». Logico, freddo, preciso, goethianamente olimpico (1), nutrito di buona cultura classica e tedesca letteraria
e filosofica, riuscì a sbarazzare il campo letterario romeno dalle troppe erbacce che lo avevano invaso, mettendo un freno alla fregola dei troppi non chiamati che s’eran sentiti incoraggiati a far della letteratura dalla romantica esortazione di Heliade-Rădulescu: «Scrivete, ragazzi, scrivete!». Nel 1868 fondò a Iași (Moldavia) la società letteraria «Junimea», che si raccoglieva (e si raccoglie ancora, benché ormai non rappresenti che un anacronismo) in casa or dell’uno or dell’altro de’ suoi membri, quasi tutti «boieri» o, in ogni caso, persone che vivevan largamente, in conversazioni e letture letterarie, storiche e filosofiche, con intermezzi di aneddoti gustosi («l’aneddoto ha la precedenza» era uno degli articoli del regolamento) per togliere alla riunione ogni carattere pedantesco, che alla natura equilibrata e armoniosa del Maiorescu ripugnava. Una copiosa mensa, imbandita con thè, vini squisiti e dolciumi svariati, attendeva, secondo le buone tradizioni dell’ospitalità romena, gl’invitati alla fine delle sedute, che si protraevano quasi sempre oltre la mezzanotte. Organo della fiorente società fu una rivista che fu intitolata «Convorbiri Literare» (Conversazioni Letterarie) e la direzione effettiva ne fu affidata al novelliere Iacob Negruzzi, figlio non degenere di quel Costache Negruzzi del quale abbiamo parlato come uno dei più importanti collaboratori del Kogălniceanu, morto nel 1933, dopo essere stato Segretario Perpetuo e poi Presidente dell’Accademia Rumena. Il Maiorescu ci ha lasciati tre volumi di «Critice» (Saggi Critici), tra i quali interessanti anche oggi sono quello sulla personalità e la poesia di Mihail Eminescu, l’articolo intitolato «Direcția nouă» (La nuova direttiva) che rappresenta una specie di manifesto letterario della riforma da lui propugnata ed un saggio pieno d’acume e di buon senso contro lo stile reboante e vuoto, vera «Beția de cuvinte» (Ubbriacatura di parole) di molti scrittori suoi contemporanei. Oltre a parecchi volumi di «Discursuri politice» (Discorsi politici), che interessano per la logica stringente e la rettitudine di spirito che rispecchiano al tempo stesso; non ci ha lasciato nel campo filosofico che un trattato di «Logica» ad uso dei licei, sicché de’ suoi meravigliosi corsi di Storia della Filosofia quelli che non hanno avuto la fortuna di ascoltarli non potran mai farsi una idea adeguata. Gran novità d’interpretazione e di critica in quei corsi non c’era, sibbene una cristallina chiarezza d’esposizione dei singoli sistemi ed una squisita eleganza di forma, per cui sarebbe stato desiderabile che qualcuno li avesse raccolti.
Da «La nuova direttiva nella poesia e nella prosa romena» di Titu Maiorescu:
Non intendiamo e non possiamo ammettere questa negligenza della forma. L’indifferenza del pubblico romeno, che allo stesso livello degli altri veri poeti mette Tăutu e Sion e... tutti quanti (2) e d’altra parte la frettolosità di tutta la nostra produzione intellettuale, che appar prodotta nella inquietezza di una continua minaccia, spiega, non scusa l’errore di cui parlo. Appunto per ottenere il risveglio del pubblico dall’indifferenza in cui è caduto, è necessario presentargli le forme estetiche più perfette, e, in mezzo alle agitazioni politiche e sociali, l’arte è chiamata a offrirci un porto ove poterci rifugiare. Quando l’irrequietezza (altrimenti passeggiera) di un cuore ricco di sentimenti desidera incarnarsi nella forma della poesia, per ciò stesso entra in un mondo, in cui il tempo non ha più alcun significato. Allora la più scrupolosa cura della forma rappresenta per il poeta un dovere, giacche solo perfettamente espressa la sua concezione potrà passare come un’eredità intatta alle generazioni future. E qual poeta, nell’istante del vero entusiasmo, non dovrebbe dimenticare i limiti dell’attualità e, piuttosto che riscaldarsi ai raggi di una fiducia in sè spesso illusoria, non dovrebbe innalzar la sua ispirazione verso una speranza d’immortalità?... Era una sera quieta di maggio dell’anno 1871; ma nel salotto, in cui s’era adunata una così gran quantità di gente, nessuno osservava la bellezza della natura risorgente dal sonno invernale: le passioni erano all’ordine del giorno e con nervosità esasperata si agitavano le questioni del momento. In fondo alla sala, sfiorata ancora dai raggi del sole che tramontava, sorgeva su d’un piedistallo di colore scuro una statua di marmo, bella imitazione di un capolavoro antico; e, mentre tutti erano presi dalle loro discussioni politiche, in mezzo a tante parole di fuoco, a tanti gesti esagerati ed all’emozione di tutti, in quella confusione di passioni e di sentimenti diretti verso un solo punto della vita reale, punto passeggierò, di un’importanza eccessiva nel momento presente, di una nullità assoluta per l’avvenire: — la statua candida, col suo calmo sorriso, s’innalzava serena su quel caos. La sua forma divina passava, non tocca dalle passioni, oltre l’onda del tempo, sicura dell’awenire, vivendo in una calma soprannaturale la sua vita eterna.
Sì, nel felice mondo dell’arte il tempo non ha alcun potere, non ha più senso, e chi, innalzatosi alla sua sfera, ha saputo modellare una forma bella, quegli, solo quegli, è sulla strada dell’immortalità...
Invano vi fate avanti voialtri dal pensiero grossolano, dalla forma incolta, dallo stile pedantesco: filologi, accademici, giornalisti, o comunque vi chiamate; invano cercate scagliar le vostre frecce contro la nuova direttiva. Voi non avete una forma; il giorno di domani non vi conosce.
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Al Maiorescu, alle «Convorbiri Literare» e al loro direttore Iacob Negruzzi dobbiamo la scoperta del genio poetico più grande che abbia mai avuto la Romania: Mihai Eminescu. Nato ad Ipoteși, villaggio della Moldavia settentrionale non lungi da Botoșani il 20 dicembre 1849, morto a Bucarest il 15 giugno 1889; Eminescu rappresenta senza dubbio il più grande e il più caratteristico poeta romeno; quello che anche oggi esercita qua e là il suo influsso anche sulla nuova generazione orientata verso nuove finalità artistiche; e che, ad ogni modo, è sempre vivo nella coscienza e nella sensibilità dei lettori. Imitatore dapprima dell’Alecsandrì e dei metri variati e sonori del Bolintineanu; lo Eminescu affermò giovanissimo la sua potente personalità poetica con una nuova, dolcissima e serena armonia, ch’egli seppe imprimere alla poesia romena. Profondo conoscitore della letteratura tedesca, ben poche influenze si posson notare ne’ suoi versi delle poesie del Goethe, dello Schiller, del Heine e del Lenau, che furono i suoi poeti preferiti. Vissuto, fin dalla prima fanciullezza, in contatto diretto colla Natura, egli imparò, essendo ancora fanciullo, ad ascoltarne le voci purissime, affascinanti, facendo sì che per lui il bosco secolare d’abeti, i ruscelli che in cascate diamantine scendon giù dai dolci colli della sua verdissima Bucovina, il sussurro misterioso dei milioni d’insetti che popolano la foresta; divenissero veri e propri protagonisti della sua poesia, coi quali vive in comunità di vita e d’aspirazioni, e dialoga, nel regno della fantasia, come con esseri a lui ben noti e infinitamente cari, solo con essi si confida, essi solo rispondono alle sue ansiose domande, da essi soli trae conforto a sperare e a vivere, quando le ferree catene della realtà lo avvincono ad un mondo cattivo e illogico, dal quale egli evade in quello tutto splendori e colori della Poesia. La vita di Mihai Eminescu si può infatti considerare come un continuo tentativo di fuga da quella normale di tutti i giorni. Fugge di casa per errare giornate intere nella sua cara selva, ascoltando il limpido murmurc della polla e il concerto degli uccelli tra i rami; fugge dalla scuola per seguire una compagnia teatrale; fa tutti i mestieri (dal caricatore di grano nel porto di Galatz a quello di suggeritore al Teatro di Bucarest); è nominato bibliotecario e poi ispettore scolastico da un ministro filosofo e letterato che lo apprezza (il Maìorescu), ma perde questi posti più forse per la sua inadattabilità alla vita pratica, che per la triste politica di quei tempi; ama una donna che è anche una poetessa (la dolce e romantica, ma, ahimè, anche infida Veronica Micle), ma, mentre l’ama la fugge accorgendosi che non corrisponde all’ideale che gli canta nell’anima. Si chiude in un cupo disdegno di spirito che si libra «immortale e freddo» al disopra delle contingenze terrene; gode per breve tempo a Iași dell’amicizia di un altro grande, Ion Creangă che fece assurgere la prosa popolare romena ad altezze insperate ed insperabili, ma presto, trasportatosi a Bucarest, la sua inadattabilità gl’impedisce ogni amicizia, i mediocri si stringono in congiura contro di lui, gli rubano anche il pane quotidiano, costringendolo a una vita di vero facchino intellettuale, su cui gravita quasi per intero il peso d’un giornale politico, ch’egli scrive, corregge e spesso impagina quasi da solo; per gittarlo finalmente nelle braccia della follia, nelle quali si dibatte, perdendo anche l’ultima consolazione: quella della poesia, finché muore tragicamente al manicomio di Bucarest colpito alla testa da un altro pazzo, che, fa cessare di funzionare quel cervello e quel cuore che tanti sogni avevano ospitati e tante inenarrabili armonie espresse a consolazione degli uomini ingrati.
Poeta pessimista e nutrito della filosofia dello Schopenhauer, con influssi sporadici di buddismo, egli appartiene alla famiglia dei Leopardi, Musset, Vigny, Heine, Lenau, Petöfi, pur distinguendosi profondamente da essi per una visione sua particolare della vita, per un fresco, profondo, intimo senso della natura, per cui rappresenta l’interprete più sincero ed autoctono del paesaggio romeno; per il suo costante entusiasmo per la storia, le tradizioni e soprattutto la poesia popolare romena; finalmente per una certa sua serenità nel dolore che gli fa guardare dall’alto le passioni umane. Ma ciò che distingue Eminescu da qualsiasi altro poeta romeno è la sua musicalità; musicalità profondamente ed intimamente romena come quella della «doina», il dolce canto d’amore e di dolore caratteristico del popolo romeno, e, nello stesso tempo, tutta sua particolare, visto che non coincide con quella di nessun altro poeta.
Dalle «Poesie» di Michele Eminescu:
UN SOL DESIDERIO MI RESTA...
Se, tra non molto, m’addormenterò |
(Le «Poesie» di M. Eminescu. Trad. di
Ramiro Ortiz con Intr. e Note. Firenze,
Sansoni, 1929).
A questa poesia così originale e suggestiva pur essendo intessuta di motivi catulliani e ronsardiani («De l’éléction de son sépulcre») faremo seguire la traduzione di un meraviglioso episodio di un poemetto intitolato «Călin», in cui si descrivono le nozze dei piccoli esseri che popolan la foresta durante il festino nuziale di «Călin» colla misteriosa figlia dell’Illusione e della Fantasia:
CĂLIN.
...Se passi i boschi di rame, tu vedrai di lontano |
Sui molli cuscini rigido siede ed ha lo scettro in mano |
(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).
Citerò ora tre poesie che mi sembrano tra le più caratteristiche del nostro poeta:
OH, RESTA!
— «Oh, resta, resta con me, |
(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).
La poesia ha qualche accento comune con «Davanti a San Guido» del Carducci, soprattutto nel desiderio accorato di tornare a vivere gli anni inesorabilmente trascorsi della fanciullezza e della gioventù. Ricordate?
Nidi portiamo ancor di rosignoli, |
La poesia che segue («Così fresca...») è una delle più caratteristiche di Eminescu ed ha davvero la freschezza di un niveo ramo di ciliegio in fiore:
COSÌ FRESCA...
Così fresca rassomigli |
Tu parti e comprendo benissimo |
(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).
Segue «Fremito di selva», in cui il sentimento della natura è tale da evocare anche davanti agli occhi di chi non lo conosca il meraviglioso paesaggio romeno così solenne nel mistero de’ suoi boschi d’abeti, così fresco nel gorgogliar delle polle, così allegro e pieno di vita nel cinguettar degli uccelli.
FREMITO DI SELVA
Trasalendo scintilla il lago |
Il vecchio tiglio ha steso un ramo |
(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).
Ancora una poesia, ma squisitissima nella sua delicatezza di cammeo:
SOTTO I PIOPPI DISPARI...
Sotto i pioppi dispari |
Dandomi di buona voglia |
(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).
Questa poesia è forse la più popolare di Eminescu, più volte musicata da diversi autori, e impressionante, quando, verso il tramonto, s’ode ancora cantare da un vecchio organetto di Berberia nei «mahalà» (6) solitarii di Bucarest rimasti com’erano ai tempi del poeta, con le loro casette basse, adorne di geranii o di giacinti secondo la stagione, nell’interstizio delle due vetrate, mentre qualche vecchio «bragagìu» (7) vi offre, solenne nel turbante che gli avvolge la testa e nella larga fusciacca rossa da cui
esce il manico del «iatagàn» (8) la sua bevanda refrigerante e i pezzetti rosei o giallastri del «rahat» (9), coperti da un lieve strato di polvere di zucchero.
Ed eccoci a «Luceafărul» (L’Astro). Veramente Luceafărul dovrebbe tradursi Espero, col nome cioè che l’«astro più caro a Venere» — per servirmi di un verso foscoliano — prende la sera, mentre al mattino si chiama, come in romeno, Lucifero. Ma Espero è di genere femminile, mentre «Luceafărul» di Eminescu è personificato in un bel giovine d’origine divina innamorato di una fanciulla mortale. Non potendo dir Lucifero ch’è la stella del mattino e non quella della sera e farebbe per di più pensare al famoso angelo ribelle scaraventato da Dio nell’Inferno, ho dovuto decidermi a tradurlo colla voce generica di Astro, che si prestava meglio al contenuto della poesia.
L’«Astro» dunque rappresenta l’epilogo amoroso di Eminescu, col quale il poeta prende commiato dall’amore terreno, per restare eternamente «immortale e freddo». «L’idea fondamentale di questo poemetto è che la vita dell’uomo volgare, le sue aspirazioni e passioni, non hanno alcuna importanza; che, al disopra di questo uomo, esiste un’intelligenza superiore che non si turba, considera con indifferenza ed anzi con una certa compassione le piccolezze di questa vita. Quanto più alto si libera, tanto più profondamente questa intelligenza disprezza il caleidoscopio delle apparenze mondane, e non si lascia turbare da tutto quanto rende felice od infelice il rimanente degli uomini mortali. Chi desidera, ha al suo piede la palla di piombo che lo tira in basso nel doloroso vortice della vita. A ben considerare, c’è in questa poesia, qualcosa della concezione buddistica della vita. A paragone di questo figlio del cielo, a paragone dell’Astro, a paragone di codeste intelligenze lucide e serene, noi non siamo che dei blocchi greggi di «materia», cui dei motivi ridicolmente minuscoli fan perdere il loro equilibrio instabile; mentre essi, sotto l’influsso di condizioni pù fortunate, s’elevano sempre più in alto, finché, giunti nelle regioni dove il nostro rumore più non le tocca, dove la sensualità cessa d’essere un tormento, dove tutto ciò che oscura la mente svanisce come nebbia al sole; si librano nell’infinito azzurro, di dove guardano, in una perfetta pace, l’insensato dibattersi dell’esistenza comune».
Così un critico quasi contemporaneo del poeta: Anghel Demetriescu. La parte umana però del poemetto consiste proprio nel desiderio dell’Astro (cioè del poeta) di umanizzarsi, d’amare umanamente una donna della terra. Ma non può, perchè c’è di mezzo un’intelligenza fatale. Non può, ma si sente infelice di non potere. E qui è la tragedia. Prima che l’Astro s’umanizzi (e umanizzarsi del tutto non potrà mai) la donna preferisce le calde carezze di un uomo di questa terra al freddo abbraccio del Dio tutta intelligenza e spirito, dall’occhio sfavillante di una fiamma che non riscalda; e non sapremmo in verità darle torto. Col suo solito acume il Maiorescu osserva: «Le parole amore felice e infelice non si possono applicare ad Eminescu nella loro accezione consueta. Nessuna individualità muliebre poteva imprigionarlo e trattenerlo nel suo stretto ambito. Come il Leopardi in «Aspasia», Eminescu non vedeva nella donna amata che la copia imperfetta di un prototipo irrealizzabile. L’amasse o non l’amasse questa copia occasionale, non perciò cessava dall’essere una copia, ed egli, con malinconia impersonale, cercava il suo rifugio in un mòdo più adatto per lui, nel mondo del pensiero e della poesia».
Diamo qui alcuni brani dell’«Astro»:
L’ASTRO
C’era una volta come nelle fiabe, |
Guarda all’orizzonte come sul mare |
La fanciulla è ormai innamorata dell’Astro e ogni sera lo prega di voler scendere fino a lei:
Scendi giù, bell’Astro carezzevole, |
Ma ben presto s’accorge che l’Astro è di altra natura da lei e che non potrà mai seguirlo nel suo regno:
— Oh sei bello come solo nel sogno |
Avviene quel che deve avvenire: la fanciulla cede all’amore di un paggio, col quale ha avuto in comune la fanciullezza e, quando l’Astro si reca al cospetto del Signore per chiedergli di volerlo sciogliere dal vincolo dell’immortalità, si sente rispondere:
— Iperione che all’oriente |
Tu vuoi considerarti un uomo,
Ma tu, Iperione, rimani |
ma non più come una volta discende |
(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).
La poesia di Eminescu è difficile ad analizzare. Appunto perchè grande e originale, non si presta ad essere costretta in nessuna delle comode caselle di certa critica. Eminescu ha bisogno di un’anima di critico-poeta che ne riecheggi e ricrei la poesia infinitamente dolce e suggestiva, delicata, aerea, il cui fascino consiste più nei sentimenti che suggerisce il verso incredibilmente armonioso e musicale, che in quello che realmente dice. Solo un De Sanctis o un Renato Serra (più forse un Renato Serra che un De Sanctis, essendo questioni di strappargli il segreto tecnico di quella sua musicalità suggestiva) avrebbero potuto provarcisi. In genere, si parla troppo dell’Eminescu filosofo, e si trascura l’Eminescu puro artista, puro poeta. Per me le poesie, nelle quali Eminescu è più Eminescu che altrove son proprio quelle, in cui nessun elemento allotrio entra a turbare il flusso melodioso dell’ispirazione lirica pura, la serenità e la freschezza del paesaggio romeno perfettamente rievocato, per cui a me piace definir Eminescu il «poeta della selva e della polla» e che trova il suo riscontro nella pittura del Grigorescu. La quale è anch’essa difficile a capire da chi in quei toni discreti, in quel paesaggio dolcemente malinconico, visto come attraverso una nebbia o un velo di lagrime, non sappia veder riflesso quel lampo di malinconia discreta, di rassegnazione e d’abbandono confidente che uno straniero vede subito negli occhi di tante donne romene e di tanti vecchi contadini e trova il suo riscontro più significativo nelle note tristi, lente e rassegnate della «dóina» popolare, il dolce canto d’amore di lontananza e di morte, che nessuno può mai dimenticare quando l’ha udito una volta di notte in un ovile di pastori sulle vette boscose che sembra tocchino il cielo, mentre in alto scintillano le stelle e le fonti mormorano soavemente fra lo stormir degli abeti. Eminescu scrisse parecchio anche in prosa: un romanzo «Geniu pustiu» (Genio sterile); tre novelle: «Sărmanul Dionis» (Il povero Dionisio), «La aniversară» (Un anniversario), e una graziosa fiaba in istil popolare: «Făt-Frumos din Lacrimă» (Principe Azzurro figlio d’una Lagrima) e numerosissimi articoli politici e sociali, molti dei quali son dei veri capolavori di buon senso, di esatta visione della realtà, di intuito storico e sociale per cui ricollega le manifestazioni della vita contemporanea a quella del passato e del passato si serve come guida sicura per iscrutar le nebbie dell’avvenire, precorrendo in certo modo il Iorga e gittando le basi del nazionalismo romeno. Tornando alle novelle e al romanzo, per quanto (ad eccezione di «La aniversară», delicatissimo idillio tra due adolescenti trattato con bonario umorismo, che ci ricorda la graziosa poesiola del De Amicis: «Tra cugini») siano resi di difficile lettura da un certo romanticismo esagerato e più ancora dall'introduzione di un elemento filosofico che ritarda lo svolgimento dell’azione; meriterebbero che qualcuno se ne occupasse di proposito, per metterne in rilievo l’originalità dei procedimenti, per cui precorrono la tendenza moderna a introdurre nel racconto disgressioni estetiche, sociali, scientifiche, filosofiche che si osserva in qualche romanzo («Zauberberger») di Thomas Mann probabilmente per influsso del Proust («À la récherche du temps perdu» e «Le temps retrouvé») e di Romain Rolland («Jean-Chistophe»).
Ai tempi di Eminescu ciò rappresentava, ad ogni modo, una novità tale, che i membri della Junimea rimasero addirittura scandalizzati, come appare dal seguente brano delle «Amintiri din Junimea» (Ricordi della «Junimea») di Gheorghe Panu, che servirà anche a dare un’idea delle riunioni di questa società che tanto influsso esercitò su tutta la letteratura romena del secolo XIX.
Dalle «Amintiri din Junimea» di Gheorghe Panu:
Una sera vado alla «Junimea» e il Pogor mi dice: |
Eminescu avvicinò la seggiola al tavolino, tirò fuori della tasca il manoscritto e cominciò a leggere:
— «... e similmente, se chiudo un occhio, vedo la mia mano più piccola di quando la guardo con tutti e due. Se avessi tre occhi la vedrei anche più grande, e, quanti più occhi avessi, di tanto più grandi mi sembrerebbero le cose che mi circondano. Tuttavia, facendo il caso che io fossi nato con migliaia di occhi in un mondo pieno di cose colossali, queste, mantenendo in rapporto con me le loro proporzioni, non mi sembrerebbero nè più grandi nè più piccole di quanto mi sembrano ora. Ammettiamo che il mondo...».
E via di seguito su questo tono. Noi ci guardavamo l’un l’altro, e gli otto (10) eran diventati trenta, nessuno potendo indovinare di che diavolo si trattasse e dove Eminescu sarebbe andato a parare. Solo molto più tardi eccolo che comincia a darci qualche spiegazione di tutta quella sua metafisica, informandoci che il suo eroe era un giovinetto imbevuto di teorie metafisico-astrologiche, che abitava in una casa abbandonata e possedeva per tutto ricordo de’ suoi genitori un ritratto d’una figura mezzo virile e mezzo muliebre, ma insomma più virile che muliebre, visto ch’era suo padre, morto giovane ancora (11).
Respirammo tutti. — «Eccoci finalmente — ci dicevamo — tornati sulla terra; da ora in poi la novella sarà novella e non avremo che da seguirne l’intreccio, giacché l’eroe lo conosciamo!».
I trenta eran divenuti nuovamente otto ed anche gli otto eran per ceder le armi; lo stesso Nicu Gane, capo del gruppetto bellicoso e Miron Pompiliu che era rimasto addirittura schiacciato dalla filosofia di Eminescu, cominciava a tossire e faceva colla sedia movimenti impercettibili per accostarsi al lettore. Mirmilik (12) dimenticava persino di tirarsi i baffi.
Ma che! Non si trattava che di un momento di tregua. Era deciso che quella sera gli otto dovessero avere buon giuoco.
Eminescu riprese a leggere. Il povero Dionisio, entrando nella sua misera stanza, prende in mano un libro di astrologia e comincia a meditare, guardando i segni cabalistici delle costellazioni. — «Chi sa che in questo libro non si trovi il segno che ha il potere di trasportarci in un mondo ideale conforme in tutto ai nostri desiderii», ecc. ecc.
— «Ahi! — fece Gane — eccoci di nuovo in piena metafisica!».
Per fortuna Eminescu cominciò a leggere che, dirimpetto alla casa del povero Dionisio c’era una villa signorile e che dalla finestra aperta s’udiva il suono di un pianoforte e una voce melodiosa e argentina che cantava, e s’intravvedeva persino la figura d’una bella signorina. Cominciate a sperare? Disingannatevi! Come la bella signorina dispare dalla finestra, il povero Dionisio si sprofonda di nuovo nella contemplazione delle rosse linee cabalistiche, queste cominciano a girare con velocità verriginosa, la mente del povero Dionisio è attratta in quel movimento, una mano invisibile lo trascina nel vortice di quella danza, e, a un tratto, ecco che vede dei Voivodi con ricchi abiti di broccato d’oro guerniti di zibellino, seduti sui loro troni antichi di puro stile bizantino, vede vecchi «boieri» raccolti a consiglio e una gran folla di popolo che entra nella reggia. Le linee rosse interrompono la danza e una voce misteriosa domanda al giovane:
— «In che epoca desideri trovarti?».
— «Sotto il regno di Alessandro il Buono» — risponde il povero Dionisio.
Ed ecco che, da un momento all’altro, Dionisio si vede trasformato in un monaco per nome Dan steso beatamente su di un mucchio di fieno falciato di fresco, mentre il sole tramonta.
— «Va bene — disse Vasile Pogór — - ma... spieghiamoci chiaro! Tutte queste cose Dionisio le vede, naturalmente, in sogno!».
— «Sì e no! — » risponde Eminescu. — Si tratta di una teoria filosofica, che non è alla portata di tutti!».
Gli otto eran divenuti trentacinque, e cominciavano a ridere con ostentata indulgenza.
La novella prendeva, a ogni pagina che Eminescu voltava, un andamento sempre più strano. Iacob Negruzzi, che, di solito, malgrado il suo sorriso ironico, approvava le teorie di Eminescu, cominciò a tossir forte e a far con le mani e con gli occhi segni disperati che non ci capiva un’acca, e, curvandosi all’orecchio dello Xenopol (13), che gli sedeva accanto, disse:
— «Come me la sbroglierò coi lettori delle ”Convorbiri”? Quando leggeranno questa novella, mi respingeranno tutti la rivista!».
Ma Eminescu sereno, olimpico, continuava la lettura come non fosse stato fatto suo. Ad un certo punto però, in cui uno dei protagonisti si trasforma in un diavolo circondato da una folla di folletti, le proteste presero un carattere manifestamente ostile:
— «Qui — si diceva — non è più il caso di parlar di fantasia, ma di pura e semplice puerilità. Siamo ai diavoli delle novelle popolari, alle case dove ci si sente ed altre balordaggini di simil genere!».
Ma Eminescu, che sembrava non accorgersi neppure di quanto avveniva intorno a lui, continuava a leggere: — «...il monaco Dan uscì di casa e si mise per una stradetta deserta...».
Qui altre proteste. Eminescu, infischiandosene della storia, descriveva una città romena dei tempi di Alessandro il Buono, come se fosse una qualunque città... turca! — «Piano! piano! che le cose stanno alquanto diversamente! Lei ci descrive una città turca, o, al più una città romena del secolo scorso! Ora, ai tempi di Alessandro il Buono, i Romeni non erano ancora venuti a contatto coi Turchi!».
Eminescu fece spallucce e continuò a leggere. Che importava a lui, pur così profondo conoscitore della storia romena, della verità storica in un’opera d’immaginazione? Ne’ suoi scritti non troverete mai neppur l’ombra di una simile preoccupazione. Egli credeva in buona fede che, non che i Romeni, l’umanità intera, fosse vissuta nel medioevo come a lui faceva comodo di immaginare.
Ed Eminescu continuava a leggere in mezzo alla noia universale.
Finalmente, come tutte le cose di questo mondo finiscono, anche quella lettura finì. Era durata quasi due ore e bisognò prendere il thè, che la mezzanotte era passata.
Non ricordo bene la critica che il Maiorescu fece del «Povero Dionisio»; ma ricordo benissimo che una critica la fece. Quanto agli altri, eran tutti d’accordo che la novella era di una stravaganza imperdonabile.
Il Negruzzi non faceva che ripetere:
— «Che diranno i lettori delle «Convorbiri?».
Il che non gli impedì, naturalmente, di chiedere ad Eminescu il manoscritto e di cacciarselo in tasca.
Eminescu non intervenne nella discussione. La lettura lo aveva spossato. Si vedeva che in quelle due ore aveva vissuto della vita del «Povero Dionisio» e, del resto, aveva sempre un po’ l’aria di non trovarsi troppo a suo agio nella «Junimea».
(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).
Questo non trovarsi a suo agio è la ragione per cui ho voluto citar questo brano: per mostrare che, a differenza di altri storici della letteratura romena, io non ritengo punto l’Eminescu come un esponente della «Junimea», in cui, per quanto apprezzato e incoraggiato, egli non si trovò mai a suo posto. Saremmo certo ingiusti e verso il Maiorescu e verso la «Junimea» se non riconoscessimo che Eminescu deve moltissimo e all’uno e all’altra; ma che ne condividesse tutte le idee non ci sentiamo di poter affermare.
Degli epigoni di Eminescu, Alexandru Vlăhutză (18581919) merita certo di essere segnalato per una certa sua originalità di atteggiamento nelle poesie migliori. Pessimista per natura, il Vlăhutză trova però il suo rifugio nella religione e parecchie delle poesie ispirate a questo sentimento son degne di attenzione. Coltivò anche la poesia sociale, inveendo contro le cosiddette ingiustizie e colpe della società borghese con accenti di un vago, superficiale e lacrimoso socialismo, per colpa del quale le sue liriche oggi son tutt’altro che all’unisono col sentimento moderno. Tradusse le poesie di Ada Negri in bella forma romena, e in prosa scrisse una specie di guida del paesaggio romeno intitolata: «Romania pitorească» (La Romania pittoresca), cui è soprattutto raccomandata la sua fama. Dalle «Poesie» di Alexandru Vlăhutză.
ALL’ICONA
La notte è scesa sulla valle e il villaggio dorme. |
A un tratto s’interruppe, la lingua le era rimasta muta nella bocca, |
(Alexandru Vlăhutză, All’icona. Trad. di Ramiro Ortiz).
Frequentatore delle riunioni delle «Convorbiri» e carissimo al Maiorescu fu un altro poeta di cultura preponderantemente tedesca: Gheorghe Cosbuc (1866-1918), che tradusse anche in magnifiche terzine la «Divina Commedia». Come tecnica e colore locale, le liriche del Coșbùc sono talvolta superiori a quelle dello stesso Eminescu, del quale però non raggiunge la profondità di pensiero, «Poeta dei contadini», come gli piaceva chiamarsi, il Coșbuc ne cantò non solo le aspirazioni materiali al possesso della terra, nella poesia intitolata «Noi vrem pământ» (Noi vogliam la terra), ma gli usi, i costumi e le leggende con una delicatezza di tocchi che ricorda i delicati e armoniosi colori dei ricami e dei tappeti popolari, raggiungendo in due de’ suoi poemetti: «Nunta Zamfirei» (Le nozze di Zanfira) e «Moartea lui Fulger» (La morte di Fulger) una tale perfezione di ispirazione e di forma da farne due veri capolavori del genere epico-lirico, in cui soprattutto eccelle, animati da una filosofia, ch’è poi quella del contadino romeno, ma passata attraverso una mente che ha saputo darle l’espressione teorica, per cui conclude che bisogna accettare il dolore e la morte senza inutile piagnistei, con rassegnazione virile, che «sapere equivale talvolta a morire» e che «certi misteri è meglio non indagarli, perchè chi li avesse svelati non sarebbe più che un morto tra i viventi». Oltre i volumi di versi intitolati: «Balade și Idile» (Ballate e Idillii), «Fire de tort» (Fili di ritorto) e «Ziarul unui Pierde-vară» (Taccuino di un perdigiorni), il Coșbuc scrisse in prosa «Povestea unei coroane de oțel» (Racconto d’una corona d’acciaio) che contiene una breve storia del risorgimento nazionale romeno e moltissime traduzioni in versi dalle lingue classiche e moderne e persino dal sanscrito (Sacuntala) eseguite non sempre direttamente, ma aiutandosi con traduzioni tedesche.
Dal tedesco cominciò a tradurre anche la «Divina Commedia» per far cosa grata a suo padre, popa ortodosso, che, avendo sentito parlare del poema di Dante come di un viaggio attraverso i tre regni dell’oltretomba, desiderava, per un interessamento esclusivamente ecclesiastico, farsene un’idea. Ma, dopo tradotti (servendosi di una traduzione tedesca) alcuni canti dello «Inferno», che pubblicò nelle «Convorbiri literare», ci prese gusto, la potente personalità del nostro divino poeta lo conquistò ed allora si rese conto che era necessario imparar l’italiano ed a questo scopo si recò per qualche tempo a Firenze. Tornato in patria, rifece, servendosi questa volta del testo italiano, la traduzione dei canti già pubblicati dell’«Inferno», e, in quindici anni d’intenso e continuo lavoro, tradusse anche il «Purgatorio» e il «Paradiso», occupandosi nel contempo di studii danteschi. Un volume che cominciò a stampare in italiano rimase interrotto al 12° foglio di stampa e il manoscritto non si è più trovato fra le carte del poeta. Sono informato che è divenuto proprietà del signor Octav Minar, un collezionista e letterato dilettante cui dobbiamo anche le sole lettere di Eminescu e di Veronica Micle che si sien pubblicate e che ha salvate così da una quasi sicura dispersione. Il sistema ermeneutico del Coșbuc è alquanto stravagante. Egli nega la realtà di Beatrice (che, del resto, è realtà fino a un certo punto) e crede aver trovata (come da noi il Pascoli e il Valli) la «chiave» della «Divina Commedia», lasciandosi fuorviare dalle idee spesso paradossali dello Scartazzini, il cui commento, — pregevolissimo per l’epoca in cui vide la luce ed anche oggi in parte utile — Francesco D’Ovidio soleva paragonare a una larga finestra aperta sugli studi danteschi, dalla quale, se è vero che è entrata molta luce, non è men vero che sia anche entrata molta polvere. Per fortuna la bella traduzione del Coșbùc, su cui fino alla morte è tornato di continuo correggendola e limandola, non è rimasta influenzata dal suo sistema d’interpretazione, sicché ho creduto sobbarcarmi alla non lieve fatica di darne un’edizione critica con tutte le varianti aggiunte nei successivi ritorni, facendola precedere da un’ampia introduzione su «Dante e la sua epoca» e corredandola del commento necessario, in una edizione solida ed elegante con copertina medievale e le vignette di stile botticelliano dell’edizione veneta del 1529 commentata dal Landino. Malgrado il difetto cui abbiamo accennato di contorsioni sintattiche dovute al desiderio di ridare anche le stranezze e l’oscurità dello stile dantesco, la traduzione è la sola completa in versi, la sola che abbia conservato il metro originario della terzina e la sola veramente poetica che possegga la Romania. Le altre (di Heliade Rădulescu, di Nicu Gane, di Maria Chitzu ed anche quella in prosa di Alexandru Marcu con anacronistiche illustrazioni moderniste di Mac Constantinescu) rappresentano dei tentativi falliti. Qualche canto isolato han tradotto Aron Densusianu, Gheorghe Asachi, e, in occasione del centenario Ovid Densusianu figlio del precedente e professore di Filologia Romanza all’Università di Bucarest, la signora Mia Frollo ed altri minori. Uno studio succinto sulla fortuna di Dante in Romania ha pubblicato nel 1921 su dati da me fornitigli, il prof. Carlo Tagliavini nell’«Italia che scrive» di quell’anno.
Come esempio della poesia lirica del Coșbùc diamo qui la traduzione di «La oglinda» (Allo specchio), di «Rea de plată» (La cattiva pagatrice) e di «Pocnind din biciu...» (Schioccando la frusta), che ci sembran tra le più delicate e caratteristiche:
Da «Balade și Idile» di Gheorghe Coșbùc:
LA OGLINDA
Oggi è un giorno fortunato: |
Eccomi. Son sempre io, quella d’ogni giorno! |
E anche se ti chiedesse un bacio... |
(Trad. di Ramiro Ortiz).
REA DE PLATĂ
Lei viene dal mulino |
(Trad. di Ramiro Ortiz).
POCNIND DIN BICIU...
Schioccando la frusta dietro i buoi, |
Di ragazzi buoni come lui |
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Al cenacolo della «Junimea» appartenne anche Ion Creangă (1837-1889), che, nel suo genere, può considerarsi come uno dei più grandi scrittori romeni. Figlio di contadini benestanti, prese da giovane l’abito talare, che però abbandonò presto, non confacendosi alla sua natura libera e spregiudicata. Fu amicissimo di Eminescu e come lui innamorato della poesia e dell’arte popolare. Di lui ci restano le deliziose «Amintiri din copilărie» (Ricordi d’infanzia) e moltissime fiabe e leggende scritte nella lingua dei contadini romeni, ma ripulita e portata da lui al massimo dell’eleganza e dell’arte. Tra queste fiabe e leggende citeremo «Capra cu trei iezi» (La capra con tre capretti), «Soacra cu trei nurori» (La suocera con tre nuore), «Harap alb» (Il moro bianco), «Punguța cu trei bani» (La borsetta con tre soldi), «Moș Nichifor coțcarul» (Zio Niceforo il biricchino).
Diamo come esempio della prosa del Creangă un brano delle «Amintiri din Copilărie» nella traduzione italiana della Signora Agnesina Silvestri-Giorgi:
Dalle «Amintiri din copilărie» di Ion Creangă:
L’UPUPA.
Una mattina la mamma mi svegliò a gran fatica, dicendomi:
— «Su, dormiglione, prima che si levi il sole: vuoi che venga l’upupa a baciarti, a contaminarti e a mandarti di traverso tutta la giornata?»
Perchè così diceva la mamma per farci paura a proposito di un’upupa che da molti anni aveva il nido in un tiglio vecchissimo e pieno di buchi, sul fianco della collina, nel podere di zio Andrea, il fratello minore del babbo. L’estate non si udiva altro: «Pu-pu-pup! Pu-pu-pup!» fin dall’alba, e ne rintronava il villaggio.
Quel giorno, appena alzato, la mamma mi mandò subito nei campi a portar da mangiare a certi zingari che avevamo presi a opera per zappare, nella Valle Secca, vicino a Topolitza. E, mentre me ne andavo col paniere, si udiva sempre:
— «Pu-pu-pup! Pu-pu-pup! Pu-pu-pup!».
E io, credete forse che tiri innanzi per la mia strada? Macché! Piego verso il tiglio coll’idea di prender l’upupa, perchè proprio ce l’avevo con quella bestia, non solo per via del bacio di cui parlava la mamma, ma perchè per colpa sua mi toccava sempre levarmi avanti giorno. Arrivato al tiglio, poso il paniere sul sentiero in cima al colle, salgo pian piano sull’albero che mandava un profumo da stordire... e colgo l’upupa proprio sulle uova. Dico tutto contento: «Zitta, carina, chè ti ho acciuffata; ormai vattene al diavolo tu e il tuo bacio!» Ma, mentre sto per tirarla fuori, non so come mi spavento della sua aureola di penne, perchè non avevo mai vista una upupa, e la lascio riscappare nel suo buco. Se non che riflettendo che di serpi con le penne non potevano essercene, perchè avevo udito dire che qualche volta nei buchi degli alberi si trovano anche delle serpi, ripiglio coraggio e allungo la mano per tirare fuori l’upupa... o quel che sarà... ma quella, poverina, si vede che per la paura s’era nascosta nelle cavità più interne, chi sa dove, perchè non la potei più trovare in nessun posto, come se fosse sparita sotto terra. «Mah, anche questa mi va alla rovescia», dico fra me, seccato, levandomi il berretto e cacciandolo dentro al buco; poi scendo, prendo una pietra adatta, risalgo sul tiglio, ripiglio il berretto, metto al suo posto la pietra, pensando che l’upupa dovrà pure sbucar fuori da qualche altra parte prima ch’io torni dal campo. Poi scendo e mi avvio in fretta col paniere verso le opre... Ma, per quanto andassi svelto, il tempo era passato mentre ciondolavo attorno al ciglio per prender l’upupa, e alle opre, manco a dirlo, lo stomaco era andato nelle calcagna, aspettandomi. Sapete il detto: «Lo zingaro, quando ha fame, canta; il «boiaro» passeggia con le mani dietro la schiena; il nostro contadino accende la pipa e tace». Così facevano anche le nostre opre: cantavano come indiavolati nel campo, seduti sul manico della vanga, stancandosi gli occhi a guardare se da qualche parte arrivasse la colazione. Ed eccomi, all’ora del pranzo, di su un poggio, con le vivande fredde e risecchite, facendo un passo avanti e uno indietro a sentirli cantare in quel modo... Allora gli zingari si precipitarono su di me e quasi mi avrebbero divorato se una zingara più giovane non avesse preso le mie parti:
— Via, calmatevi: perchè ve la pigliate col ragazzo? Aggiusterete i conti con suo padre, non con lui!
Allora gli zingari, senza badare a me, si misero a mangiare in silenzio. Ed io, faccia tosta, riprendo il paniere colle scodelle e mi avvio verso il villaggio; ma mi ritrovo sotto il tiglio, ci monto su, metto l’orecchio alla bocca del foro, e sento che ci si sbatte dentro qualcosa: allora levo pian piano la pietra, vi caccio la mano e tiro fuori l’upupa sfinita dal tanto dibattersi; ma le uova, quando volli prenderle, erano ridotte una frittata. Dopo ciò vado a casa, lego l’upupa per una zampa con un filo, e la tengo nascosta alla mamma per due giorni in soffitta, in mezzo ai tini sfasciati; e tutti i momenti salivo su, e quei di casa non capivano che avessi da andare così spesso in soffitta.
Ma due giorni dopo, ecco venir la zia Mariuca dello Zio Andrea, urlando e sbraitando e se la piglia colla mamma per causa mia:
— «O cognata, s’è mai udita una cosa simile? Giovanni ha rubato l’upupa — diceva la zia con aria addolorata — l’upupa che da tanti anni ci chiamava la mattina al lavoro!
Era così sconvolta che quasi piangeva; ed ora capisco che aveva ragione, perchè l’upupa era l’orologio del villaggio. Ma la mamma, poverina, di questo non ne sapeva nulla.
— Che dici mai, cognata? Ma io lo finirei di botte se sapessi che ha preso l’upupa per tormentarla. Hai fatto bene a dirmelo; lascia fare a me, che gliele sonerò sode!
— Ci puoi credere, cognata Smaranda, — disse la zia — perchè da questo tuo discolo non si salva nessuno! Questa poi me l’ha detto chi l’ha visto, che è stato Giovanni a prenderla; è una cosa che mi rivolta. Io, ch’ero nascosto nella dispensa, udendo ciò, salgo subito in soffitta, tiro fuori l’upupa, salto già dal tetto e vado difilato al mercato delle bestie per venderla; perchè era per l’appunto lunedi, giorno di mercato. Giunto alla fiera, mi metto a girare tutto impettito fra gli uomini, di qua e di là, coll’upupa in mano, perchè io mi sentivo un po’ della razza dei negozianti. Un vecchio pazzerellone, con un vitello per la corda, — si vede che non aveva nulla di meglio da fare! — mi dice:
— È da vendere questa pollastra, ragazzo?
— Sì, nonno.
— Quanto ne vuoi?
— Quanto credete.
— Dammela un po’ qua che la pesi.
E, mentre gliela dò in mano, quel vecchio del diavolo finge di cercarle le uova e le scioglie il filo del piede; poi la lancia in aria dicendo:
— Che peccato! M’è scappata!
L’upupa — vrrr! — sul tetto d’una bottega; e, dopo essersi riposata un po’, si dirige verso Humulești e mi lascia col viso lagrimoso a guardarle dietro. Io allora — crac! — al mantello del vecchio per farmi pagare l’uccello.
— Ma che vi credete, nonno, di poter scherzare con la merce degli altri? Se non volevate comprarla, perchè le avete dato la via? Non crediate di passarvela liscia colla vostra bestia, avete capito? C’è poco da ridere!
E, piantato davanti al vecchio, strepitavo tanto che la gente ci faceva cerchio d’attorno, come alla commedia: non era forse la fiera?
— Ma lo sai che sei un bel tipo, ragazzo mio? — disse il vecchio dopo un po’ non cessando di ridere. — Cosa credi per arrabbiarti così? Là! Non pretenderai mica di prendermi il vitello per un’upupa! Sembra che ti pruda la schiena, a qual che vedo, bimbo mio; ed io te la gratto, se vuoi, ma in modo tale, credimi, che dovrai chieder grazia quando m’uscirai dalle mani!
— Lascia stare in pace il ragazzo! — disse uno di Humulești — è il figliuolo di Stefano di Pietro, un proprietario del nostro villaggio, e l’avrai a fare con lui per questa faccenda.
— Eh, eh, salutamelo tanto, brav’uomo; o che t’immagini non ci conosciamo noi con Stefano di Pietro? — disse il vecchio — L’ho visto poco fa camminare per il mercato col metro sotto il braccio, dopo aver comprato il panno, com’è la sua partita; e dev’esser da queste parti, o in qualche osteria a bere dopo concluso l’affare. Ma è bene che io sappia chi sei, bimbo mio; aspetta un po’ che ti mando da tuo padre, a vedere se ti ha mandato lui a vender l’upupa ed a metter sossopra il mercato!
Tutto bene, ma, quando sentii parlare del babbo, abbassai la cresta e ’ pian piano sgattaiolai fra gli uomini e via a gambe verso Humulești, voltandomi ogni tanto per vedere se il vecchio mi corresse dietro: perchè ora ero io a scappare da lui, se debbo dirvi la verità. — Lo sapete il detto: «Lascialo andare!» «Io lo lascierei andare, ma è lui ora che mi lascia!» Lo stesso accadeva anche a me; ma ero contento di essermela cavata così a buon mercato.
(Trad. di Agnesina Silvestri-Giorgi, Firenze, «La Nuova Italia», 1931, pp. 54 sgg.).
Ho avuto la curiosità di vedere come si presentasse questo brano tradotto in dialetto ed ho pregato un mio bravo studente, il Signor Dino Rosellini di Pistoia, di volercisi provare. Eccolo dunque in dialetto pistoiese:
Dalle «Storie di quand’ero ragazzo» di Ion Creanga:
L’UPUPA.
Una mattina, come Dio volse, mi’ madre mi svegliò e mi disse:
— Levati su, dormiglione, avanti che sia giorno; sennò vien l’upupa, ti bacia, t’imbratta e ti fa andare a male tutta la giornata!
Mi’ madre, per facci paura, ci dicea così d’un’upupa che da un fottìo di tempo s’era annidiata nel ventre d’un tiglio stravecchio e tutto gretole addoss’a una rampa in quel dello zio Drea, fratello minore di mi’ madre. D’istate per fin dal leva del sole non si sentia altro: pu-pu-pup! pu-pu-pup! e tutto ’l paese d’intorno rintronava.
Dunque, quella mattina, appena mi levai, mi’ madre mi mandò subbito ne’ campi a porta da mangiare a certi zingari, che zappavano e s’eran presi a opre in Vaisecca vicino a Topolizza: e cammina cammina col canestro sottobraccio, sentio sempre: Pu-pu-pup! pu-pu-pup!
C’era verso che potessi tira diritto pe’ fatti mia? Macché! Sfianco verso il tiglio coll’idea d’ave’ l’upupa in mano: perchè proprio, con quella bestiaccia mi ce l’ero presa a morte, e mica solo pel bacio che dicea mi’ madre, ma perchè, per via di lei, mi toccava levantini sempre cogli occhi tra’ peli. In d’un attimo arrivo al tiglio, poso il canestro sul viottolo in cima alla rampa e pian pianino m’aggrampino sull’albero che mandava un profumo da andanne in visibilio: e t’agguanto l’upupa proprio sull’ova.
Tutto contento dico: — Ah, t’ho agguantata, bella mia! e ora zitta: va’ un po’ all’inferno te e il tu’ bacio!
Ma, in quel mentre che la tiro fori, io che non aveo mai visto un’upupa, chi lo sa come, piglio paura della su’ girandola di penne e me la lascio scappa’ nel covo. Ma, ripensandoci bene che di serpe colle penne non ce ne poi esse’, (perchè m’avean detto che delle volte le serpe covano nelle piante), mi fo coraggio e allungo la mano coll’idea di tira’ fori l’upupa... o quel che diavolo era; ma lei, poverina, dalla paura si vede, s’era riampiattata in fondo, chi lo sa dove, e io non la potei trova’ in nessun lato, come se fosse sprofondata sotterra. — Mah, dico fra me e me, stamani le mi van tutte a rovescio, e la bile mi rodeva. Piglio il berretto e lo caccio nel buco; scendo, piglio una pietra grossa tanto, mi riaggrampino sul tiglio, ripiglio il berretto e ci metto la pietra, persuaso che l’upupa avesse a sgusciar fori da qualche lato, intanto che io tornavo da’ campi; eppoi scendo e mi ravvio di trotto verso l’opre col canestro sottobraccio. Ma sì! per quel che trottassi, da tanto che bighellonavo intorno al tiglio, del tempo n’era corso; e in quel mentre l’opre, manco a dillo, dalla fame avean lo stomaco a’ calcagni. Lo sapete il detto: «Lo zingaro, quando ha fame, canta; il signore cammina su e giù colle mani dietro la schiena, e il nostro contadino fuma la pipa zitto zitto». Altrettanto facean quell’opre: cantavan come tanti dannati, appoggiati allo stilo della vanga e si rifinivan l’occhi a furia d’aocchia’ se da qualche parte veniva la colazione.
Alla fine eccomi sull’ora di desina’, di su un poggio, colla roba diaccia e assegata, che faceo du’ passi, uno avanti e uno ’ndietro a sentilli canta’ di quella forza. Allora tutti li zingari mi saltarono addosso e ci scommetto che m’avrebbero fatto a pezzi, se una zingara più giovana non li avesse ripresi:
— Su, su, lasciatelo sta’: o che ve l’avete a piglia’ con lui? Rifativela con su’ padre e no con lui!
Allora li zingari, senza più bada’ a me, si messen a mangia zitti zitti. E io, con la mi’ brava faccia tosta, ripiglio ’l canestro co’ piatti a m’avvio al villaggio: lo stesso, mi ritrovo sotto ’l tiglio, ci rimonto su, accosto l’orecchio alla bocca del foro e sento di dentro qualcosa che ci si scote: allora pian pianino levo la pietra, allungo una mano, e tiro fori l’upupa tutta sfinita, da tanto che ci s’era sbatacchiata drento; ma quando arrivai a piglia’ l’ova, n’era fatta una frittata. Dopo questo, vo a casa, lego co’ un filo l’upupa per una zampa e la rimpiatto per du’ giorni in soffitta fra le botti sfasciate, perchè mi’ madre non se n’avvedesse; e da tutt’i momenti andavo su, che i mia non capivano che ci avessi mai da anda’ tutte le volte in soffitta.
Ma, du’ giorni dopo, eccoti a casa mia la mi’ zia Mariuccia, quella dello zio Drea, che smaniava e sbraitava e se la pigliava con mi’ madre per via di me:
— O cognata, ma di’ la verità, se n’è udita una di peggio? Il tu’ Gianni ha rubato l’upupa; l’upupa — dicea co’ un fare tutto’impietosito — che tutte le mattine ci chiamava al lavoro!
Era tanto sconvolta, che a momenti avrebbe pianto; del resto, pôra donna, la su’ ragione ce l’aveva anco lei, perchè l’upupa gli era come l’oriolo del villaggio; ma mi’ madre, poveretta, che ne sapeva di lei?
— O che dici, cognata? Ma lo sai che, se avesse preso l’upupa per farla soffrire, lo finirei di botte? Hai fatto bene a dirmelo; lasciami fa’ a me, che l’accomodo io!
— È stato lui, positivo, cognata Smaranda, perchè nessuno pol’ave’ pace con quel tu’ discolo; ma bada un po’! Eppoi me l’ha detto proprio chi l’ha visto, che è stato lui a piglialla; è una cosa che mi scombussola tutta!
Io, che m’ero rimpiattito nella dispensa, quand’ebbi capito di che tonava, salto su in soffitta, tiro fori l’upupa, salto giù dal tetto e via di trotto al mercato delle bestie coll’idea di venderla; s’era per l’appunto di Lunedì, giorno di mercato. Arrivo e, come fossi venti, perchè ormai mi parea d’esse’ un omo di grand’affari, mi metto a bazzica’ fra l’omini coll’upupa in mano. Un vecchio zuzzurullone che si tirava dietro per un cappio un vitello — si vede proprio che non ci avea di meglio da fa’ — mi dice:
— O bimbo, ma che la vendi codesta pollastra?
— Sì, nonno.
— E quanto voi?
— Datimi quel che vi pare.
— Sentiamo un po’ quanto pesa.
E intanto che ni do in mano, quel vecchio dannato fa vista di vede’ se ha l’ova, e mi scioglie il filo al piede; e poi la butta per aria e dice: — To’! che peccato: la m’è scappa!
L’upupa, che dite, vrrr! vola e si posa sul tetto d’una bottega; e, dopo un po’ di riposo, vola via verso Humulești, e io lì che piango come un disperato a vedermela scappa’! Ma io che fo? Agguanto il vecchio per il mantello, perchè voleo che mi pagasse la bestia:
— O che vi credete, nonno, di scherza’ colla roba dell’altri? Se non la voleate compra’, perchè allora me l’aete fatta scappa’? La vostra bestia che vi credete ora di riportarvela a casa? E c’è poco da ride’!
E, impalato davanti al vecchio, sbraitavo tanto, che la gente faceva un pieno come davanti a’ baracconi quando ci recitano: d’altronde o che non s’era alla fiera?
— Ma, bimbo mio, ci vo’ crede’ che se’ un bel tipo? C’è da arrabbiarsi poco. Ohe, ohe! non ti crederai mica d’ave’ un vitello per un’upupa, veh! E’ par che tu abbi rosa alla vita a quel che vedo, e io te la gratto se tu vói, ma pensaci bene, che per escimmi dalle mane poi, m’hai a chiede’ grazia, eh!
— La scia sta’ ’n pace ’l ragazzo — disse uno di Humulești — gli è ’l figliolo di Stefano di Pietro, uno che ha di suo del bene qui nel paese, e per quest’affare te l’avrai a rifa’ con lui!
— Va’, va’, salutamelo tanto, brav’uomo; o che ti credi che non ci conosciamo io e Stefano di Pietro? — disse il vecchio — L’ho visto or ora che andava di qua e di là col metro sotto ’l braccio a compra’ pannine, com’è del su’ mestiere. Ora sarà per qui a be’ un gotto dopo d’ave’ combinato l’affare. Ho caro di sape’ chi sei, bimbo. Vieni qua che ti porto da tu’ padre per vede’ se t’ha mandato lui a vende’ l’upupa e tramutà ’l mercato ’n d’un putiferio!
Non c’era nulla che ridi; ma, quando mi sentii parla’ di mi’ padre, abbassai la cresta e via di troppo verso Humulești; e ogni tanto mi voltao a vede’ se ’l vecchio mi venia drieto, perchè questa volta, a di’ la verità, ero io che avevo paura di lui. Lo sapete ’l detto: «Lascialo anda’» — «Io sì che lo lascierei anda’, ma è lui ora che non mi lascia!». Come e qualmente mi succedea a me; però ero contento lo stesso d’averci rispiammate le paghe!
Un altro scrittore che si ricollega al cenacolo delle «Convorbiri Literare» è Ion Slàvici (1848-1925), che fu considerato come il più gran novelliere della Transilvania. Nelle sue novelle egli ha dipinto con finezza d’analisi e vivacità di colorito gli sforzi eroici dei preti e dei contadini di quella provincia romena allora sotto il dominio ungherese, per conservare le caratteristiche e gli ideali della loro nazionalità, facendo opera di propaganda culturale e patriottica, e, per ciò che riguarda i contadini, tenendosi strettamente aggrappati alla terra ed ai costumi degli avi per non lasciarsi sopraffare da una cultura straniera, che spesso era loro imposta colla forza e non si faceva scrupolo di usare ogni mezzo per snazionalizzare ed assimilarsi la popolazione romena, tenacissima soprattutto nelle campagne.
Dei volumi di novelle dello Slàvici citeremo: «Nuvele din popor» (Novelle del popolo), «Padureancă (Boscaiuola), raccolti recentemente in due volumi sotto il titolo generico di «Nuvele» (1892-1907), i romanzi «Mara» e «Cel din urina armaș» (L’ultimo Bargello). Scrisse anche uno studio storico «Despre Maghiari» (Sugli Ungheresi) e qualche dramma di non molto valore. Le sue novelle sono state tradotte in tedesco, e, in italiano, da Cesare Rubetti con prefazione di Vincenzo Crescini, del quale ci piace riportar qui il giudizo: «Dal sentimento nazionale ebbe principio l’intensa alacrità letteraria dello Slàvici, onde vennero commedie, drammi, novelle, schizzi, ricordi, che spirito nuovo infusero nella letteratura di Transilvania, del cui dolore nella servitù come dell’anima tutta come si rivela nelle tradizioni e nel costume fu lo Slàvici interprete profondo ed eloquente. Tali furono e sono questi Romeni: soprattutto anime, vive e forti anime, dalle quali luce e fiamma si sprigionano a colorire d’immediata efficacia impetuosa pagine ricche di poesia, bellamente conciliata colla sapienza accorta dell’osservare e del descrivere. Fu notato che pregio caratteristico di questi geniali scrittori è Tessere devoti e fedeli figli della loro terra, che in essi palpita, rievocata e riprodotta, adorata sempre, come paesaggio, come storia, come popolo. Ecco appunto: sono poeti del paese e del popolo. Il contenuto folkloristico diventa arte, senza perdere la sua sincerità primitiva. La poesia v’è come un fiore che spontaneamente sbocci dal seno della terra e s’animi della fantasia e del popolo. Il «Mulino della fortuna» è un racconto steso alla brava, con tocchi rapidi e vigorosi, è tutto insieme vita e passione: è un quadro epico nell’insieme dell’ambiente e delle persone, degli umani contrasti e dell’arcano dolore, della catastrofe punitiva e del senso arcano di Dio, eccelso e giusto su tanta caducità misera e travagliata. Abbondano le scene grandiose e tristi. Vien fatto però di rammentare il gusto macabro, e, se si voglia, dell’esagerazione tragica, diffuso un momento nel romanticismo occidentale. Da noi il byroniano Guerrazzi informi». Diamo qui alcune pagine del «Mulino della Fortuna»;
Dal «Mulino della Fortuna» di Ion Slavici.
Lì nella valle c’è il Mulino della Fortuna.
Il viandante, da qualunque parte giunga, si rallegra allorché lo scorge dalla cima della nuda colina; poiché, provenendo da località pessime, esso
lo avverte che è scampato dal pericoloso e che, prima di tornare colà donde è venuto, può farvi una tappa, per incontrare o attendere altri viaggiatori e non ripartirsene solo... Cinque croci stavano davanti ad esso: due di pietra e le altre scolpite in legno di quercia, decorate e dipinte d’immagini sacre; tutti segni che dicevano al viandante che quello era un luogo benedetto; che dove si vedeva una croce come questa, lì un uomo si era procurato una felicità o aveva scongiurato un pericolo.
Benedetto questo luogo fu quando vi giunse il nuovo oste con la sua giovane sposa e con la vecchia suocera: infatti essi non ricevevano il viaggiatore come un estraneo proveniente da un posto qualsiasi, ma come un amico atteso da tanto tempo in casa loro. Erano appena trascorsi alcuni mesi dal giorno di San Giorgio (1), e i viaggiatori più pratici non dicevan più di far tappa al Mulino della Fortuna, ma all’osteria di Ghitza: che tutti sapevano chi fosse Ghitza e dove avesse dimora: là in basso, dove la strada cominciava a salire, in quei posti pericolosi non c’era più il Mulino della Fortuna, ma l’Osteria di Ghitza.
Ancora una volta iter Ghitza, l’osteria era della Fortuna. Quattro giorni per settimana, dal Martedì sera al Sabato, questa era continuamente piena, tutti si fermavano all’Osteria di Ghitza, ognuno prendeva qualcosa e pagava onestamente.
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Qualche volta all’osteria di Ghitza venivano i porcai, uomini alti e ben fatti, con la camicia nera, i capelli lucenti di grasso e cadenti in trecce lunghe e ritorte intorno al collo nudo: erano uomini anch’essi, ma uomini rispettabili, uomini che mangiano, bevono e pagano.
Un giorno di Lunedì, ne giunsero tre in una carretta dalle assi di ferro, tirata da due cavalli, uno più alto dell’altro.
...Essi chiesero se fosse passato il «Samadău» (capo dei porcai), misero un servo a staccare i cavalli, per farli bere e dar loro l’avena, e se n’andarono con un saluto di «buona fortuna».
— Bene, ma non hanno pagato! — gridò la vecchia perplessa.
— Zitta, mi sono inteso io con loro — rispose Ghitza, e andò fuori perchè nessuno gli scorgesse il volto e perchè sua moglie non gli chiedesse che cosa aveva.
Poco dopo giunse al Mulino il famoso Lica il «Samadău».
Lica era un uomo di trentasei anni, alto, secco, dai lineamenti decisi, dai lunghi baffi, dagli occhi piccoli, verdi e dalle sopracciglia folte e ravvicinate al centro. Lica era porcaio, di quelli che portan la camicia fine e bianca coi fiorellini ricamati, il panciotto coi bottoni d’argento, la frusta di cuoio con l’impugnatura d’osso, ornata di fiori incisi e di ricami d’oro.
Egli fermò il suo cavallo davanti all’osteria, gittò un’occhiata su Anna quindi un’altra sulla vecchia: le due donne sedevano su di una panca presso la grande tavola all’ombra della tettoia; gittò ancora un’occhiata all’interno, poi domandò dove fosse il padrone.
— Siamo noi! — rispose la vecchia alzandosi.
— Lo so — rispose Lica — - ma credo che ci saranno anche degli uomini, qui, chiedo dell’oste; con lui voglio parlare.
Lica disse queste parole in modo da far capire che aveva fretta e non voleva dilungarsi a parlare; la vecchia allora se n’andò senza indugio a cercar Ghitza ed Anna rimase, guardando come un bambino timido l’uomo che le stava davanti a cavallo diritto come una colonna di marmo.
— È morto l’ungherese? — domandò non appena vide Ghitza.
— Sì.
— Sei qui dal giorno di S. Giorgio?
— Sì — rispose Ghitza, gittando uno sguardo furtivo sulle donne per vedere se fossero agitate.
— È Ghitza mio genero — disse la vecchia, — e sia ringraziato il Signore, le cose vanno bene da quando siamo qui.
Lica si lisciò sorridendo i baffi tra le labbra.
— Qui — disse — va bene per tutti coloro che son saggi. Non son passati di qui alcuni uomini?
— Certo — rispose Ghitza pensieroso — siamo sulla strada e passa molta gente.
— Si tratta di tre uomini...
— Come no? — strillò la vecchia — quei tre porcai che han bevuto e mangiato e non han pagato!
— Se non han pagato — gridò Lica passandosi ancora i mustacchi fra le labbra — era perchè sapevano che sarei venuto io a pagare per essi.
Dicendo ciò, egli discese di sella e fece segno a Ghitza di entrar con lui nell’osteria per pagare il debito.
— La vecchia è sempre più saggia di me — pensò Ghitza ed entrò ben disposto dietro l’altro.
— La vecchia avrebbe potuto tacere — disse Lica, quando si vide solo con l’oste — Mi conosci?
— No — rispose Ghitza divenuto di ghiaccio in tutto il corpo.
— Allora mi conoscerai di nome. Io sono Lica il «samadeu». Si dicono molte cose intorno alla mia persona, e tra queste molte ce ne saran di vere e molte di inventate... Avrò fatto quello che ho fatto, non si tratta di questo, ma, ho sempre fatto così e ognuno può credere quello che vuole... Ho una gran responsabilità: debbo render conto di ventiquattro branchi di porci. Mi hai capito? Io voglio sapere chi passa di qui, che dice e che fa, e voglio che nessun altro all’infuori di me ne sia informato. Credo che ci siamo intesi!
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Ghitza era intelligente e capiva quello che accadeva.
Lì, al Mulino della Fortuna, non poteva rimanere alcuno senza il beneplacito di Lica; oltre il fittavolo e la polizia, c’era anche lui, Lica, a spadroneggiar sulle strade e invano ti saresti inteso col fittavolo, invano avresti fatto buon viso al Commissario; per poter restare al Mulino della Fortuna bisognava esser della banda di Lica. E Ghitza aveva assolutamente bisogno di restare al Mulino, perchè gli affari gli andavano bene.
(Trad. di Cesare Rubetti, Perugia-Venezia,
«La Nuova Italia», 1930, pp. 5 sgg.).
Uno scrittore che del culto della forma, inteso non come vano artifizio stilistico, ma come freno e laboriosa ricerca dell’espressione più chiara e più concisa, si fece un vero tormento, fu Ion Luca Carageale (1852-1912), autore drammatico soprattutto, ma anche novelliere dei migliori che abbia mai avuto la Romania. Spirito arguto e beffardo, insofferente delle ferree catene della realtà pratica, la sua vita passò in continui tentativi di guadagnarsi il pane, restando il più che fosse possibile libero e indipendente. Giornalista dapprima, poi, per breve tempo, impiegato in una manifattura di tabacchi, finì col preferire la vita del commerciante e fu padrone di birrerie e del ristorante della Stazione di Ploești, finché si decise ad espatriarsi e morì a Berlino. Fu nel 1888 Direttore del «Teatro Nazionale» di Bucarest, al quale aveva dato le commedie: «O noapte furtunoasă» (Una notte indiavolata), «Conu Leonida față cu reacțiunea» (Il Sor Leonida alle prese colla reazione), «O scrisoare pierdută» (Una lettera smarrita), «De ale Carnăvalului» (Avventure di Carnevale) e il potente dramma «Năpasta» (La sciagura). Le sue novelle più celebri, più volte tradotte in tedesco (e in italiano da Constantin Petrescu) sono: «O făclie de Paști» (Un cero di Pasqua), «Păcat» (Peccato) e «La hanul lui Mânjioală» (All’osteria di Mânjioala); ma anche tra i suoi bozzetti umoristici («Momente, schite, amintiri») ce ne sono di originalissimi ed esilaranti. Il comico del Carageale ha però qualcosa di troppo scettico e spietato, che produce un effetto deprimente. Nel suo teatro comico non c’è mai un personaggio onesto, morale, appassionato; si tratta di un’intera popolazione di piccoli borghesi ridicoli nelle loro piccole manie senza mai un raggio di idealità, senza mai una ventata di passione o di avvenimenti serii; il che finisce, a lungo andare, collo stancare e col sembrare innaturale. È, del resto, un po’ il difetto del genere comico, che i Greci, maestri squisitissimi di gusto, sentirono la necessità di rialzare coll’introduzione dell’elemento lirico dei cori. Dove il Carageale riesce meglio è nel mettere in ridicolo i politicanti furbi e la borghesia bottegaia, che si affannava ad adottare le forme di governo dei popoli dell’occidente, introdotte in Romania troppo in fretta, senza tener conto del grado di evoluzione sociale in cui si trovava il loro paese e che perciò davan luogo a scene di un comico irresistibile. «La sua potenza di osservazione — dice il Cartojan — e la sua «vis comica» sono straordinarie. Nulla gli sfugge della vita che gli brulica airintorno e dì questa vita coglie sempre il lato più comico». Tutti i tipi della società romena contemporanea son ritratti nelle sue commedie: dal mercante di legname che discute di politica senza capirne nulla al commissario di polizia che giustifica i suoi piccoli imbrogli coll’esiguità del suo stipendio variante a seconda le risorse del bilancio e le molte gravezze familiari («Famelie mare, leafă după buget mică», cioè: «Famiglia grande, stipendio, secondo il bilancio, piccolo»), frase ambigua che si presta all’interpretazione maligna che lo stipendio sia piccolo giudicato dalla somma posta in bilancio, non tenendo cioè conto dei numerosi, piccoli e non troppo onesti incerti, coi quali lui lo arrotonda; dallo studente che nelle riunioni pubbliche pronunzia discorsi incendiarii e inveisce contro l’infame commissario di polizia che gli toglie la parola, per finire poi anche lui commissario di polizia, al vecchio pensionato pauroso che si lascia trascinare a prender parte a un comico tentativo rivoluzionario d’instaurare la repubblica a Ploești e poi trema di paura nel sentir degli innocui colpi di pistola tirati da una compagnia di buontemponi avvinazzati e ch’egli scambia col fuoco di fucileria delle truppe reazionarie; dal tumulto di una piccola città di provincia in piena lotta elettorale con relativi imbrogli e ricatti a base di lettere d’amore smarrite e di cambiali false, agl’intrighi che si tessevan nei ministeri.
Il capolavoro del Carageale è la «Scrisoarea pierdută», che anche oggi si rappresenta con molto successo nei teatri romeni, grazie anche a una vera tradizione artistica formatasi tra gli attori, per cui la perfezione dell’interpretazione riesce ad aver ragione anche della sua inattualità, che del resto non è eccessiva, visto che i costumi politici son rimasti press’a poco gli stessi, soprattutto in tempo di elezioni.
Ne diamo qui un sunto, facendolo seguire dalla traduzione di qualche scena:
Dalla «Scrisoarea pierdută» di Ion Luca Carageale.
RIASSUNTO. — Nel primo atto, Donna Zoichitza, moglie del Presidente del Comitato Elettorale Trachanache, perde una lettera d’amore indirizzata al Prefetto, Tipatescu suo amante. La lettera cade nelle mani del candidato indipendente Catzavéncu, che pensa farsene un’arma per ottenere l’appoggio del Prefetto e della Signora Zoichitza, che esercita su di lui una grande influenza. Tutti sanno di questa lettera e la notizia viene agli orecchi del creduto marito, il candido Trachanache, che però mostra di credere non trattarsi d’altro che d’uno dei soliti falsi del candidato indipendente Catzavéncu.
Nel secondo atto questi annunzia nel suo giornale che si trova in possesso di un documento compromettente per il Prefetto e che lo pubblicherà nel suo giornale. Donna Zoitzica, terrorizzata all’idea dello scandalo imminente, convince l’amante ad accordar come prefetto l’appoggio del Governo al ricattatore in cambio della lettera. Mentre però il Prefetto annunzia la candidatura ufficiale di Catzavéncu viene da Bucarest l’ordine di considerar come candidato governativo Agamitza Dandanache, un vecchio rammollito che ha ottenuto l’appoggio del governo minacciando anche lui di pubblicare una lettera compromettente pel Ministro degli Interni cadutagli nelle mani.
Nel terzo atto ci troviamo in un comizio elettorale, nel quale ciascuno dei candidati espone le sue idee politiche. Intanto è caduta nelle mani del marito di Donna Zoitzica, che, abbiamo visto, è anche il Presidente del Comitato elettorale, una cambiale falsificata da Catzavéncu, che intanto ha avuto la disgrazia di perdere la famosa lettera su cui si basava il suo ricatto, lettera che vien trovata da un ubbriacone (il famoso «cittadino ubbriaco») e restituita a Donna Zoitzica, sicché il marito di questa può impunemente annunziare la candidatura ufficiale di Agamitza Dandanache impostagli dal Governo e Catzavéncu, ridotto a far buon viso a cattivo giuoco, finisce coll’accettar di presiedere il banchetto che si darà per festeggiar la riuscita del nuovo candidato.
Riportiamo ora una scena del comizio elettorale, in cui la arguzia del Carageale ha buon giuoco:
Farfuridi (dalla tribuna). — Permettete! (Si versa un bicchier d’acqua). Permettete! (rumori).
Trachanache (avvicinando a sè il campanello). — Stimabili! Stimabili! Facciano un po’ di silenzio! Ci sono all’ordine del giorno questioni importanti, urgenti. Abbiano un po’ di pazienza... (a Farfuridi): Coraggio e avanti, stimabile, visto che ha la parola!
Farfuridi (all’adunanza)....Dopo aver parlato dal punto di vista storico, e dal punto di vista giuridico, concluderò il più che mi sarà possibile brevemente.
Popescu (interrompendo). — ...Davvero?... Purché mantenga la promessa! (risa dalla parte dove sono i maestri).
Farfuridi. — Prego, non m’interrompano, permettano che...
Trachanache (volgendosi verso la parte della sala dove siede Popescu). — Stimabile... non interrompa...
Farfuridi. — Dopo aver parlato dunque dal punto di vista storico e da quello giuridico, concluderò, come ho detto, quanto mi sarà possibile brevemente (beve un sorso d’acqua, poi, riprenderlo fiato, continua lentamente col tono di chi cominci a raccontare una fiaba): Nell’anno mil-le-otto-cen-to ven-tu-no... in punto... (rumori e proteste dalla parte del gruppo di Catzavéncu). Popescu. — Se torniamo indietro all’anno 1821 in punto... stiamo freschi! (rumori e proteste).
Farfuridi. — Permettano, Signori! Nell’anno mil-le otto-cento...
Tutti (in coro, imitandone la voce e il tono). — ...ventu-u-u-no... in punto! (rumori e proteste).
Farfuridi. — Permettano, Signori...
Trachanache (agitando il campanello). — Stimabili, onorevoli, non interrompano... abbiano un po’...
Catzavéncu. — Che pazienza; venerabile Signor Presidente! È tardi, ci sono anche altri oratori iscritti a parlare...
Tutti. — Sì! Sì!
Catzavéncu. — L’onorevole oratore ha promesso di concludere il più brevemente possibile. Ebbene, che bella specie di brevità è questa di cominciar daccapo dal 1821? Ah! Ah! Ah!
Tutti. — Ah! Ah! Ah! (rumori).
Farfuridi. — Permettano, Signori...
Trachanache (a Farfuridi dolcemente, protendendosi verso la tribuna). — Stimabile... io direi che non sarebbe male che facessimo un salto fino al ’48...
Catzavéncu (gridando). — Meglio sarebbe fino al 64...
Popescu, Ionescu (e tutti quelli del suo gruppo). — Sì, sì, sì, sì!
Trachanache (alzandosi e facendo atto di voler consultar l’assemblea). — Sarebbe a dire fino... al Plebicisto?
Tutti. — Sì, fino al Plebicisto!
Farfuridi (voltando le spalle all’adunanza e rivolgendosi al Presidente). — Mi permetta, Signor Presidente! Lei mi ha accordato la parola; mi sembra che un Presidente, una volta che ha accordato la parola...
Trachanache (alzandosi in piedi e mettendo le mani sulle spalle di Farfuridi in atteggiamento consolatore). — Fallo per amor mio, stimabile; fammi questo piacere... Passiamo al Plebicisto... la volontà dell’Adunanza...
Farfuridi. — Ma, signor Presidente...
Trachanache (anche più affetuoso). — Passiamo al Plebicisto! (Lo volge per benino prendendolo per le spalle, colla faccia verso l’adunanza).
Tutti (con forza). — Sì, al Plebicisto!
Farfuridi (beve un altro sorso d’acqua e, in atteggiamento rassegnato). — Che dicevamo dunque? Nel 1864 si presenta, mi capite, l’occasione che il popolo si pronunzi con un plebiscito... Ma prima vediamo... prima rendiamoci ben conto... di quello che... sarebbe a dire... significa un plebiscito...
Ionescu. — Lo sappiamo tutti che cos’è un plebicisto... tante grazie della spiegazione! Tutti. — Non abbiamo bisogno di spiegazioni! (Rumori).
Farfuridi (all’interruttore). — Mi permetta... (a Trachanache) Signor Presidente!...
Trachanache (agita il campanello). — Stimabili, onorevoli, prego non interrompere l’oratore. (Molto affabilmente): Facciano silenzio; abbiano all’ordine del giorno questioni urgenti, importantissime; abbiano un po’ di pazienza! (A Farfuridi): Ha la parola, stimabile; coraggio e avanti...
Farfuridi (prendendo la parola). — Quando diciamo ’64, diciamo plebicisto, quando diciamo plebicisto, diciamo ’64... Sappiam tutti... chiunque di noi sa... che cosa è il ’64, vediamo ora che cos’è il plebicisto... (Con forza, incominciando la frase): Il Plebicisto... Catzavencu. — Qui non si tratta di plebicisto...
Farfuridi. — Mi permettano (discutendo con Catzavencu): mi pare che, quando diciamo ’64... (con energica convinzione) e non cerchino di fare il tentativo di combattermi; mostrerò loro con dati storici che tutti i popoli hanno un loro ’64...
Catzavencu. — Scusi, ma qui non si tratta del ’64... (Rumori di approvazione per Catzavencu).
Farfuridi. — Mi permetta... (tutti i colloqui e le interruzioni si fanno con tono avvocatesco, con molta vivacità, ironia e volubilità) signor Presidente!
Trachanache (agitando il campanello). — Stimabili, onorevoli, facciano silenzio; abbiamo questioni urgentissime all’ordine del giorno...
Catzavencu. — Come sarebbe a dire, signor Presidente? Come può venirle in capo che il ’64 sia una questione urgente all’ordine del giorno? Se non m’inganno siamo nell’anno di grazia 1883... Dunque?... Richiami l’onorevole a tenersi nei limiti dell’argomento.
Trachanache (alzandosi in piedi e prendendo per le spalle Farfuridi). — Stimabile, (affettuoso e in tono di preghiera) lasciamo andare il Plebicisto, fallo per me, se mi vuoi bene; passiamo alla questione che ci riguarda. Farfuridi (stanco per le contìnue interruzioni, volgendosi verso Trachanache e colle spalle all’adunanza). — Signor Presidente, Ella mi ha accordato la parola!... Io ritengo che bisognerebbe...
Catzavencu (gridando). — Non bisognerebbe affatto..., onorevole!
Tutti del gruppo. — No, non è necessario!
Trachanache (afferrando di nuovo per le spalle Farfuridi, e con molta dolcezza). — Ti prego, se mi vuoi bene, fammi questo favole., la volontà dell’adunanza, stimabile... (lo volta per benino colla faccia verso l’adunanza, prendendolo per le spalle). Tutti. — Sì, alla questione! alla questione!
Farfuridi (stanchissimo, beve un altro sorso di acqua e si rassegne). — Giungiamo dunque alla questione della Revisione della Costituzione e della legge elettorale...
Tutta la sala (con soddisfazione). — Ah, finalmente, così va bene!
Trachanache (similmente). — Ah! (suona il campanello): Ed ora abbiate un pochino di pazienza... (a Farfuridi): Abbrevia, onorevole, abbrevia, se mi vuoi bene... il desiderio dell’assemblea...
Farfuridi (è tutto in sudore, deve e non la finisce di pulirsi la bocca col fazzoletto). — Vi prego, permettetemi... Sapete qual’è la mia opinione intorno alla revisione?
Catzavencu (beffardo). — E sentiamo l’opinione del Signor Farfuridi!
Trachanache (agita violentemente il campanello).
Farfuridi (è sempre una zuppa di sudore e comincia a perder la bussola). — La mia opinione è... si tratta della revisione, non è vero?
Tutti (gridando). — Sì, sì!
Farfuridi (disorientato). — Allora, ecco che cosa dico io, e insieme con me... (comincia a mancargli la voce) bisogna che dican tutti quelli che non voglion cadere nell’estremismo (perde sempre più il controllo di quello che dice) cioè... voglio dire... sì, che voglion restar moderati... cioè niente esagerazioni!... in una questione politica... e che... dalla quale dipende il futuro, il presente e il passato della patria... di esser o troppo esageratamente... o senza alcun freno... (s’imbroglia, suda, inghiaile la saliva), di modo che si presenta a questo punto l’occasione di domandarci: Perchè?... Sì... perchè?... Se l’Europa... dovrà esser cogli occhi fissi su di noi, se posso esprimermi così, forse potrà colpire la società, cioè a cagione dei subbugli, delle idee sovversive (continua a sudare e smarrirsi sempre più) allora, tu mi capisci, alla fin fine, gl’ideali per cui in ogni occasione solenne ha sempre dato prove di tatto... voglio dire... in certo senso... il popolo, la nazione, la Romania... (con forza) la patria, infine con un buon senso, che, per l’Europa che da un momento all’altro doveva riconoscerci come nazione, da cui possiam dire dipende... (s’imbroglia e suda sempre più) come per esempio... (si passa il fazzoletto sul volto) come per esempio nel ’21, con permesso (si passa il fazzoletto sul volto in sudore) nel ’48, nel ’35, nel ’54, ’64, ’74 e similmente nell’84, ’94 eccetera, per ciò che ci riguarda... e per dare un esempio alle nostre sorelle, di razza latina però! (Tutto in sudore si passa sulla fronte il fazzoletto e respira con difficoltà. Trachanache che ha finora battuto il tempo delle tirate oratorie di Farfuridi, sorride agli applausi che dal fondo della sala salutano l’oratore e vengono naturalmente dal gruppo de’ suoi amici politici. Risate e zittii dal gruppo di Catzavencu. Il campanello di Trachanache a mala pena s’ode. Dopo un po’ di tempo, quando la sala è tornata in una relativa quiete, Farfuridi continua con fuoco): Permettano! Sto per finire! Non mi restano solo che due parole da dirvi (il chiasso diminuisce). Ecco qual’è la mia opinione (lotta strenuamente con la stanchezza che l’opprime). O l’una cosa o l’altra, mi permettano: o la Costituzione si rivede, accetto, ma, a patto che non si cambi nulla; ovvero non si rivede, accetto, ma, in questo caso, si ritocchi qua e là, soprattutto nei punti essenziali... Da questo dilemma non potete uscire... Ho detto.
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Da «O făclie de paști» di Ion Luca Carageale.
RIASSUNTO. — L’ebreo Leiba Zibal, oste in una località di malaria e sempre febbricitante, è stato minacciato da un suo garzone che ha dovuto licenziare, che si sarebbero riveduti il Sabato Santo. In preda al terrore veglia tutta la notte e concepisce un piano diabolico per difendersi, prendendo in un nodo scorsoio la mano che Giorgio introdurrà attraverso l’apertura praticata col succhiello e la sega nella grossa porta di legno dell’osteria, per togliere la barra di sicurezza:
«Un grande succhiello si sentì rodere i tessuti della vecchia asse di quercia... Zibal ha bisogno di sostenersi; appoggia la mano sinistra alla porta e con la palma destra si copre gli occhi.
...Era facile comprendere l’intenzione: quattro buchi nei quattro angoli di un quadrato; tra questi la sega tira le linee; nel centro del quadrato sta già infitto il succhiello. Quando il pezzo è completamente segato, lo si tira fuori; e, per il vuoto rimasto, una mano forte si introduce; afferra la trave, la toglie via e... i «goi» (15) sono nella casa di Leiba. Lo stesso succhiello tra qualche momento, sarà lo strumento di tortura di Zibal e de’ suoi... Un sudore freddo bagnò tutto il corpo di Zibal: egli sentì i suoi ginocchi cedere e lentamente si lasciò cadere a terra, come una bestia che tende il collo per ricevere l’ultimo colpo.
Il succhiello tira lentamente il pezzo quadrangolare... una mano grande e muscolosa entra... ma prima che abbia toccato la trave che cerca, si senton due ruggiti, mentre Zibal gira fortemente l’estremità libera del laccio sul puntello fisso del portone.
Il laccio era ingegnosamente combinato: una corda lunga, di cui una estremità legata a un puntello; a una distanza misurata, sul posto dove il quadrato stava per sparire, c’era un nodo scorsoio che Leiba teneva aperto colla mano sinistra, mentre colla destra stringeva l’altra estremità. Al momento opportuno Zibal tirò il nodo scorsoio e afferrando rapidamente con ambedue le mani l’estremità libera, con uno sforzo supremo tirò dentro il braccio intero... In un attimo l’operazione fu fatta. Due ruggiti l’accompagnarono; l’uno di disperazione, l’altro di trionfo; la mano era «inchiodata».
Poi si sentirono passi allontanarsi in fretta. I compagni di Giorgio abbandonavano a Zibal la preda presa con tanta scaltrezza.
L’ebreo corse nella bottega, prese la lampada a petrolio e, con un giro sicuro, innalzò al massimo lo stoppino: la fiamma prigioniera nella grata uscì di sopra allegra e vittoriosa, ridando vita precisa alle forme nebulose che stavano intorno. Zibal passò colla lampada in mano nell’androne. Dalla tensione del braccio si vedeva ch’egli aveva rinunziato ad inutile sforzo. La mano era gonfia, e le dita curvate... come per afferrare qualche cosa. L’ebreo avvicinò ad essa la lampada — un brivido — la febbre ritornava. Aveva portato il lume troppo vicino, di modo che tremando aveva toccato col vetro caldo la mano del brigante: si produsse una increspatura violenta delle dita seguita da un gemito sordo.
Alla vista di questo fenomeno, Zibal si riscosse...; attraverso i suoi occhi balenò un’ispirazione strana. Si mise a ridere di un riso che fece tremare la volta dell’androne, e poi rientrò subito nella bottega.
Spuntava l’alba.
Sura si destò in sussulto... Le sembrava d’aver inteso nel sonno dei ruggiti spaventosi... Leiba non era nella stanza... Accadeva qualcosa di brutto. Balzò dal letto e accese il lume. Il letto di Leiba era intatto. Egli non si era coricato affatto. Dov’era? La donna guardò attraverso la finestra: sulla montagna che s’ergeva dirimpetto uno stuolo di lumi piccoli e vivi si moveva, saltava, ora sparendo, ora riapparendo di nuovo...
La gente usciva dalla chiesa. Sura aprì un po’ la finestra; allora udì dei gemiti soffocati nella direzione del portone. Spaventata, discese subito la scaletta. L’androne era illuminato. Arrivata alla soglia, la donna fu colpita da uno spettacolo raccapricciante. Leiba stava su d’una sedia di legno, coi gomiti sui ginocchi e col mento appoggiato sulle mani, come un scienziato che nella miscela di alcuni elementi cerchi di sorprendere un segreto sottile della natura, che da molto tempo gli sfugge. Zibal tiene gli occhi fissi su una cosa pendente, nera e inferme, sotto la quale, su di un’altra sedia, ad una certa altezza, brucia una torcia.
Zibal guarda, senza batter ciglio, il processo di scomposizione della mano che non gli avrebbe certamente risparmiato la vita. Egli non aveva sentito gli urli del disgraziato di fuori, essendo tutto preso da ciò che vedeva. Zibal aveva seguito con voluttà tutte le contrazioni, tutte le increspature strane delle dita, poi l’intirizzimento che s’impadroniva di loro, lentamente, a uno a uno... Sembravano esser le membra di un insetto che si contraggano, si stendano, si agitino in movimenti stravaganti, forti, più lenti, lenti, e poi si paralizzino, per il giuoco di un bambino crudele.
Era sfinito, la mano si coceva e si gonfiava piano piano senza alcun moto.
Sura mandò un grido.
— Leiba!
Zibal le fece cenno di non disturbarlo. Un odore grasso di carne bruciata si spandeva nell’androne; si senti uno scricchiolìo e dei piccoli scoppiettii.
— Leiba, che cos’è? — ripeteva la donna.
Albeggiava. Il portone si aprì sbattendo il corpo di Giorgio appeso al braccio destro. La folla dei contadini tutti coi ceri di Pasqua accesi, si precipitò dentro.
— Che cos’è? Che cosa?
Subito capirono ciò ch’era accaduto. Zibal, che, fino a questo momento, stava immobile, si alzò gravemente in piedi. Egli si fece strada per passare, spingendo da parte tranquillamente la gente.
— Com’è avvenuto, ebreo? — gli domandò uno.
— Leiba Zibal — disse l’oste a voce alta e con un gesto largo — va a Iași per dire al rabbino che Leiba Zibal non è ebreo... Leiba Zibal è «goi», perchè Leiba Zibal ha acceso un cero a Gesù!
E l’uomo partì lentamente verso l’oriente nella direzione della montagna, come un saggio viandante che sa che per un lungo cammino non si parte con passo frettoloso.
(Trad. di Costantino Petrescu, Lanciano,
Carabba, 1914, pp. 31 sgg.).
Non possiamo fermarci troppo — e ce ne dispiace — ad Alexandru Odobescu (1834-1895) che, oltre all’essere archeologo e storico dei più importanti che abbia avuti la Romania, a noi interessa soprattutto come novelliere («Doamna Chiajna», «Mihnea-Voda-cel-Rău») e come autore di quell’originalissimo libretto ch’è il «Pseudokineghetikos» e cioè; «Falso trattato di caccia», in cui, sotto colore di voler comporre un trattato cinegetico, parla delle più svariate questioni in uno stile giocoso, ma pieno di attrattive anche per la svariata e profonda cultura dalla quale è tutto permeato e che ricorda, in certo modo, lo stile del nostro Panzini, in cui l’elemento «livresque», pur abilmente dissimulato, ha tanta parte. Le novelle dell’Odobescu son quasi tutte d’argomento storico, ma il loro pregio principale è la forma, elegantissima, e, nello stesso tempo tutt’altro che retorica e pedantesca, ma agile e viva, che fa di esse una lettura deliziosa. Dallo «Pseudokineghetikòs» di Alexandru Odobescu.
Anch’io son cresciuto nella steppa del Baragàn (et in Arcadia ego!). Ed ho visto le frotte delle otarde attraversare a passi lenti e con la testa in attitudine di guardarsi da possibili pericoli quelle pianure sterminate, in cui l’aria rarefatta in onde diafane sotto i raggi cocenti del sole estivo rispecchia le erbe ed i cespugli lontani e li trasforma davanti agli occhi meravigliati in castelli, città con migliaia di minareti e palazzi incantati.
Fin dalla fanciullezza son vissuto in compagnia di cacciatori di otarde da padre in figlio, che sempre, a generazioni intere, hanno errato per la vasta steppa del Baragàn, rannicchiati nei loro carretti coperti di stuoie, e conducendo al passo i loro ronzini piccoli e veloci, si sono aggirati per ore, giornate e mesi interi intorno alle superbe otarde — cui danno il nome di «Metropoliti» — sia che a primavera si battan tra loro in duelli d’amore, sia che in autunno conducano al pascolo frotte di pulcini tra le zolle indurite.
Non ho dimenticato nè la buon’anima di Caraimàn, l’allegro e abile capo dei cacciatori di Tamadaieni, che poteva versar nel suo ventre capace tante mezzette di grappa e una botte di vino di Dealu-Mare, nè il bravo Zio Vlad, nel cui carretto anche tu hai schiacciato tanti dolci sonnellini, mentre lui (16), cogli occhi suoi volpigni, spiava il sorger di tra le alte erbe della steppa della testa delicata dell’otarda, che faceva muovere i campanellini delle graminacee, nè il povero Gheorghe Gianta, quello che, con un suo fucilacelo rugginoso che qualsiasi altro cacciatore avrebbe buttato nel mondezzaio, colpiva la cacciagione meglio che non avrebbe fatto un altro col più perfezionato dei fucili inglesi, e che tante volte mi ha trasportato nel suo carretto (me, indegno, e la cacciagione che aveva fatta) al «conàc» (17) dalla parte di mezzogiorno.
Nel tuo libro pieno di regole tecniche e di ammaestramenti dottrinali, tu parli, amico mio, con un superbo disprezzo di tutte quelle gesta cinegetiche, in cui il cacciatore non ha bisogno di andare a piedi a cercar la selvaggina, aiutato solo dal cane, e di colpir la lepre o l’uccello in piena corsa o a volo. Non nego tutto ciò. Forse, in principio, ha ragione. Ma che farci col proprio temperamento? Poi che, per parte mia, debbo confessarti, che, se mai un genere di caccia mi è piaciuto, questo è stato proprio quello in cui i piedi e le mani han poco da stancarsi.
E invero mettiamoci un po’ una mano sul petto e diciamo la verità: forse che ci può essere un piacere più intenso, più sereno e più, direi, cullato in dolci e teneri sogni, di quello che si prova quando, tra le solitudini della steppa, ce ne stiamo distesi sul fieno d’un carretto, che avanza lentamente su quelle strade deserte? Davanti a noi si stende lo spazio infinito; ma le onde d’erba, qua rigogliose di un verde intenso, là riarse dal calore del sole, non ci danno alcun senso di diffidenza dell’instabile oceano. Lontano, profilantisi distinte sull’orizzonte, sorgon, simili a formicai colossali, dunette tondeggianti, la cui origine è nascosta nelle nebbie del passato ed ora forman l’ornamento della steppa. Dalla dunetta di Neașul sulle sponde della Ialomitza fino a quella dell’Aquila nelle vicinanze di Borcea, esse sono sparse per tutta l’estensione della sconfinata pianura, come sentinelle mute e curve dagli anni che pesan loro sulle spalle. Alle loro falde nidificano gli avvoltoi dalle larghe penne nere, o quelli grigi il cui collo, sempre teso verso la preda, sorge pelato e ripugnante dai loro corpi spellati e nudi. È terribile vedere come questi uccellacci si slancino verso le carogne e si rimpinzino di carne fetida, quando in quelle solitudini cade per malattia qualche capo dell’armento.
Appena sorto il sole, quando la ruggiada se ne sta ancora appesa ai fili d’erba, il carro si è messo in cammino partendo dal rifugio notturno, e solo quando il sole è allo zenit, giunge al punto di convegno dei cacciatori. Spesso questo punto è una croce di pietra pencolante, ovvero un pozzo a pertica, cioè una buca profonda da cui si attinge l’acqua con un otre. Bisogna arrivare a Paicu all’altra estremità del Baragàn, o a Cornatzèle, nell’interno più profondo, per trovare una minuscola macchia di antiche betulle, all’ombra delle quali si riparan le greggi, mentre tra i rami schiamazzano le cornacchie. In qualsiasi altro punto del Baragan il cacciatore non trova altro riparo dove far colazione o dormire, che all’ombra del suo carro. Ma quanto liete sono queste tappe di un’ora o due, in cui tutti raccontano le loro gesta vere o immaginarie, dicendovi come sono stati ingannati dagli uccelli furbi, che, dopo averli fatti stancare inseguendoli di cespuglio in cespuglio, sono scomparsi come per incanto in un volo più lungo!
Dopo il riposo, la caccia ricomincia con piacere, sempre nuovo. Quando il sole comincia a declinare verso il tramonto, quando il crepuscolo stende a poco a poco i suoi veli sull’immensa distesa della steppa, l’attrattiva misteriosa della solitudine si fa sentire sempre più viva nell’animo del cacciatore. Un sussurro notturno s’innalza su dalla terra; dal soffio della brezza che fa frusciar l’erbe, dallo strider dei grilli, da migliaia e migliaia di suoni leggeri, indistinti, par nascere come un sospiro che parta dal seno stanco della natura. Allora, nelle regioni più alte dell’etra passan cantando «doine» lunghe file di gru, nastri serpeggianti di codesti uccelli migratori, in cui Dante ha intravisto la graziosa immagine dello stuolo degli spiriti che han peccato d’amore:
E come i gru van cantando lor lai, |
Ma ecco che, ad uno ad uno i carri giungono alla «tanca» o all’ovile dove han deciso di passar la notte. Una casupola coperta di paglia, una schiera di cani da guardia irsuti che abbaiano a più non posso: ecco il rifugio e la guardia del corpo che può offrire il pastore di Radana o quello di Rénciu. Ivi i cacciatori cercano di apparecchiarsi il letto e la cena nel caso che non abbian pensato a portar con loro nel carro coperte e vettovaglie. Appena però sul gradino della stufa (18) o accanto al focolare ciascuno si è trovato il giaciglio ed ha racimolato qualcosa da metter nello stomaco, le lingue si sciolgono e comincia un fuoco fitto di motti, di risa, di aneddoti salaci, con cui si rifanno delle lunghe ore di silenzio della giornata di caccia...
- Ma, anche steso sul carro il cacciatore si stanca
- e, dopo una parca cena, ecco che il sonno lo vince (19)
cacciatori e carrettieri, ronzini e cani da guardia, coricati tutti a terra senza distinzioni di casta, dormono ora della grossa nella «tanca».
Solo le stelle della notte li contemplano dall’alto dei cieli ed ascoltano tutto quell’innumerevole popolo d’insetti, che passan sotto i fili d’erba, stridendo, sussurrando, fischiando e tutte le migliaia di voci che s’innalzano lentamente nel silenzio della notte, si fan sempre più chiare nell’aria fresca e cullano nel sogno uomini e bestie nella loro melodia profumata. Ma se qualcuno si desta all’improvviso, ed apre gli occhi un istante, tutta l’immensa distesa della steppa gli appare illuminata dalle faville brillanti delle lucciole, talvolta il cielo si arrossa all’orizzonte di una fiamma proveniente da un incendio repentino di ciuffi d’erbe e di cespugli secchi ed uno stuolo d’uccelli passa alto sul cielo nel silenzio della notte (20).
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Storico anche lui, ma piuttosto della storia del costume, ci si mostra Ion Ghica (1816-1897) nelle sue interessantissime «Scrisori către Vasile Alecsandri» (Lettere a Vasile Alecsandri) contenenti una quantità di notizie sugli uomini e le cose della vecchia Romania, scritte in uno stile pieno di chiarezza, naturalezza e vivacità, grazie alla quale, oltre all’importanza documentaria, ne acquistano una letteraria di primissimo ordine.
Riporterò, tanto per dare un’idea del modo di scrivere di questo autore, un brano, in cui si descrive l’abitazione e l’organizzazione della vita al tempo degli antichi «boieri», quando ancora funzionava in Romania quella specie di sistema feudale, per cui ogni «boiero» rappresentava un po’ quello che in occidente si diceva un «castellano»: Una casa boieresca era una vera fortezza, uno stato nello stato. Neppur gli agenti di polizia del Voda osavan varcar la soglia di un «Ban» o di un «Vornic», malgrado che questo privilegio non fosse sanzionato da alcuna legge determinata. In caso di necessità, il «boiero» poteva chiuder le porte e viver mesi interi colla sua famiglia, i servi e gli «uomini di casa» (dalle ottanta alle cento persone) senza avere punto bisogno di quelli di fuori. Grano, granturco e farina ne aveva in abbondanza nei magazzini («hambàre»); la dispensa («camàra») era piena zeppa di cibarie: prosciutti, salami, carne e pesce marinati, affumicati, salati, sott’olio, sott’aceto, marmellate di tutte le sorte ed ogni altra grazia di Dio: tra’ suoi schiavi zingari aveva fornai, sarti, calzolai, sellai, ecc.; in caso di bisogno poteva, co’ suoi uomini, difendersi contro le forze del Voda, quando queste non erano spalleggiate da qualche ordine venuto direttamente da Costantinopoli. La parte della casa che si trovava verso il grande scalone, con quattro grandi stanze a destra e quattro a sinistra della gran sala centrale addobbata con tappeti, zendadi e tende tessute e ricamate in casa, con divani e materassi ai quattro angoli forniti d’innumerevoli cuscini, ed altre due o tre stanze più piccole per il «grammatico», il caffettiere e il «ciubuccìu» (incaricato di tener pulito, accendere e riempire il «ciubùc», la nota pipa turca) e il donzello («feciòr»); formavan l’appartamento «boiero». Il piano superiore coll’infermeria, la dispensa e la scalinata per cui si accedeva al giardino apparteneva alla «cucóana» (signora) e alle «cuconitze» (signorine) ed alle loro cameriere («jupănése») e persone di servizio («fete din casă») più cinque o sei sarte cresciute da piccole in casa, e figlie di «scutélnici» (una specie di liberti) o di piccoli boieri («boiernàsci»). I figli di sesso maschile («coconasci») abitavano nel sottosuolo col loro maestro («dascal») greco, accanto al tinello e alle stanze riservate al cappellano, allo «stolnic» (incaricato della mensa), al «vataf» (specie di ciambellano) e della guardarobiera. In fondo al cortile, c’eran le stalle per una ventina o trentina di cavalli, le rimesse per dieci o quindici carrozze, carri, calessi, ecc. Perpendicolarmente all’ala del fabbricato in cui si trovavan le stanze dei cocchieri e dei garzoni addetti alle stalle e alla pulizia del cortile e facenti angolo con essa, incominciava un’altra fila di stanze, dove andavano ad abitare il «grammatico» Iordache, il «vataf» Dinu, il «polcovnic») (comandante delle guardie) Ionitza, lo «șatràr» (ispettore) Stefanache quando cadevano in disgrazia. Costoro, quando il «boiero» era assunto a qualche carica di corte («entrava nel pane» nel senso che era portato in alto da un colpo di fortuna e cioè entrava a far parte del governo dove aveva l’occasione di arricchirsi) si disperdevano ai quattro venti, mandati di qua e di là come cassieri, agenti delle imposte, contabili, sottoprefetti, entrando anch’essi «nel pane» del governo, per tornar poi tutti a mangiar quello del «boiero» e riprendendo le loro funzioni minori nella piccola corte di lui, non appena il loro padrone cadeva in disgrazia e perdeva la sua carica alla corte del Voda. Codesti erano i celebri «ciocoi boierești din tata în fiu» (piccoli cortigiani per diritto ereditario). Una stradicciuola che costeggiava il giardino portava al «quartiere degli zingari» formato da un cortile con delle stanze a terreno in cui abitavano da sette ad otto famiglie di «zingari di focolare» (non cioè nomadi, ma che possedevano un focolare): maniscalchi, sellai, sarti, lavandai, ecc. Per nutrire una tal popolazione la cucina era necessario fosse qualcosa di grandioso, di monumentale, e infatti poteva dirsi un vero capolavoro di architettura. In un angolo del cortile s’innalzava un comignolo alto quanto un obelisco che alla base s’allargava in forma di un immenso imbuto rovesciato che s’innestava su di una specie di cupola che ricopriva tutto l’edifizio. Nel mezzo, sotto l’apertura del camino, si apriva il focolare di due pertiche di lunghezza, in cui ardevano tronchi interi di querce e di faggi così come venivano dal bosco senza che fossero tagliati a pezzi e neppure spaccati per metà, nella cui brace un bove si metteva ad arrostire intero infilato in uno spiedo gigantesco. Tutt’all’intorno tavole, sgabelli e focolari minori, attorno ai quali s’accalcava una folla di grandi e di piccoli d’ogni età e di ogni mestiere. All’infuori del cuoco principale, se n’erano altri sei o sette coadiuvati da otto, nove e fin dieci sguatteri e ciascuno cucinava per le persone cui era addetto. La mensa e le vivande del «boiero» eran diverse da quelle dei servi, quelle delle cameriere diverse dalle vivande che si preparavano per le altre donne di servizio di grado inferiore e similmente diverso era il vitto dei segretarii. I figli del «boiero» se avevan ricevuto il «caftàn» (segno della nobiltà), o servivano come paggi alla corte del Voda, o, quando restavan nella casa paterna, avevan diritto ciascuno al loro cocchiere, al loro cameriere, ai loro cavalli di parata, da tiro, e al loro calesse. Ogni figliuola del «boiero» aveva la sua cucitrice e due o tre zingare per aiutarla all’opra dei telai ed all’allevamento dei bachi da seta. Ogni segretario aveva a’ suoi ordini uno zingaro che l’aiutava a vestirsi, gli versava nella catinella l’acqua per lavarsi, gli spazzava la stanza e gli accendeva il fuoco nella stufa di mattoni. Il Vornic Niculae Dudescu capo di questa piccola corte, mandato dal Voda a Parigi a perorar la causa dei Romeni, seppe attirar su di sè l’attenzione del Bonaparte e apparve ai francesi generoso, liberale, e pieno di dignità. Non di rado ebbe alla sua tavola il Primo Console e generali della Repubblica; nè Madame Récamier si levò mai dalla mensa senza trovar sotto il tovagliuolo un diamante o un rubino.
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Arriviamo così a Barbu Delavrancea (1858-1918), novelliere, drammaturgo, oratore ed uomo politico, che fu uno dei pochi romeni che alla cultura francese aggiungesse quella italiana (21), il cui influsso dà alla sua opera di scrittore una particolar fisionomia. Tra le sue novelle, «Sultănica» ed «Hagi Tudose» son tra le migliori della letteratura romena.
Ma forse il Delavrancea è ancora più importante come drammaturgo. La sua trilogia drammatica «Apus de soare» (Tramonto), «Viforul» (La tormenta) e «Luceafărul» (La stella del mattino), benché risenta del doppio influsso: shakespeariano e dannunziano, o forse appunto per questo, rappresenta qualcosa di nuovo e di ardito nella letteratura drammatica romena, che, fino ad allora, non si era innalzata a voli troppo arditi e si era accontentata di riecheggiare, se non sempre negli argomenti, nei procedimenti artistici, quella francese contemporanea. Non possiam dire che lo stile drammatico del Delavrancea sia esente da difetti, in quanto spesso, come quello D’Annunziano, pecca per un certo eccesso di lirismo e desiderio di grandiosità, che talvolta degenera in retorica ed oratoria; ma, per ciò che riguarda l’evidenza in cui mette in iscena e fa rivivere personaggi ed epoche dell’antica storia romena e per altezza e nobiltà di tono, si eleva molto al disopra della letteratura drammatica de’ suoi tempi, sì che anche oggi, quando si vuole offrire ad un ospite straniero lo spettacolo di una visione storica esatta e colorata della vita romena antica, non si può fare a meno di ricorrere alla trilogia del Delavrancea.
Riportiamo una scena di «Apus de Soare», facendola precedere da un breve riassunto:
RIASSUNTO. — Nell’autunno del 1503, Stefano il Grande si trova con sua moglie Maria nel castello di Suceava in Bucovina. È invecchiato e soffre sempre della sua ferita al piede, per curar la quale’ la Signoria di Venezia, coll’avviso «de’ medici de Padoa» gli aveva mandato il «ciroico Hieronimo da Cesena. Malgrado ciò parte in guerra contro i Polacchi per ritoglier loro la Pocuzia. Nell’estate seguente ritorna vittorioso, ma la ferita al piede, trascurata ad onta dei consigli del medico, è divenuta sempre più dolorosa. Le cose sembran riprendere il loro corso, quando viene a scoprire una congiura. Alcuni «boieri» s’eran messi d’accordo per far succedere ad vecchio Voda un suo nipote invece del figlio Bogdan, che Stefano aveva designato come suo erede. Allora decide di riunire il consiglio dei «boieri» per il 1° luglio. Intanto i medici decidono di cauterizzargli la ferita non appena finito il consiglio. I «boieri», compresi quelli che hanno ordito la congiura ed ignorano che sia stata scoperta, si riuniscono e Stefano, davanti alla sua corte ed ai soldati, dice quanto segue:
Stefano (s’alza da sedere). — ...Guerrieri, Signori, Cortigiani, vi ho riuniti qui a consiglio perchè mi siate testimoni per quando non sarò più tra voi. Sono quarantasette anni... molti e pur mi par ieri... da quando la Moldavia intera mi venne incontro col suo Metropolita, i suoi Vescovi, gli Abati de’ suoi monasteri, i Boieri, i contadini liberi e tutto il popolo nella Pianura della Giustizia, e come volle la Moldavia, volli anch’io. Poi che ella volle un Principe giusto ed io non ho ammiseriti gli uni per arricchire gli altri..., poi che essa volle un Principe avveduto ed io ho vegliato perché potesse riposare il suo spirito stanco..., poi che essa volle che il suo nome fosse da tutti onorato e rispettato ed io ho fatto sì che questo nome passasse i confini, da Calla a Roma, per un miracolo di Gesù Nostro Signore...
L’Hatman Arbore. — Il nome della Moldavia è anche il tuo, Maestà.
Tutti. — È vero!
Stefano. — No!... no!... Io sono stato vinto a Răsboieni ed a Chilia. La Moldavia ha vinto da per tutto! Ho avuto questa fortuna, ho avuto la forza di far vittorioso il mio popolo!... (si volta verso il gruppo dove si trovano il Coppiere Ulea, il Siniscalco Dragan e i congiurati).
La folla. — No! no!
Stefano. — Oh bosco giovinetto!.,. Dove sono i vostri antenati? Sparsi di qua e di là... ad Orbic, a Chilia, a Baia, a Lipnic, a Soci, a Rahova, lungo il Teleajen, a Răsboieni... Dove sono i vostri padri? A Moncastro, a Catlabugi, a Schéia, a Cosmin, a Lentzesti... Dove sono... il vecchio Manuil e Iuga, e Grangur, e Gotca, e Michele il Portatore di Spada, e Ilea Huru il Capo delle mie Scuderie, e Dabog il Comandante della Fortezza, e Oanea, e Ghérman, e l’eroe della mazza ferrata Boldur?... Terra ed ossa!... E sulle loro ossa s’è adagiata e sta salda come su fondamenta solide tutta la terra della Moldavia, come su spalle di giganti! (si ferma stanco). Il respiro mi manca... Son vecchio... (fulmina con uno sguardo il gruppo dei congiurati). Ed ho cercato di unir tutti i popoli dell’Occidente in un solo pensiero, poi che mi son detto che tutti eran popoli cristiani, e i miei messi han battuto a tutte le porte, pregandoli più nel loro interesse che nel nostro a far fronte comune contro gl’infedeli (22), a rinunziare alle loro competizoni per meschini interessi di predominio e a sorger tutti insieme contro il pericolo comune, che minacciava la Cristianità... Avevan bisogno di un uomo? C’era... ci fu... Ora è malato... Accorgendomi che non mi si davan che promesse, ho cercato di riunire in un solo pensiero tutti i popoli dell’Oriente (lampeggia, piove a torrenti). Ed ho mandato i miei messi agli Ungheresi, ai Polacchi, ai Lituani, ai Russi, ai Tartari... Sentieri su lande deserte hanno aperto i miei uomini nel loro andare e tornare. E inutilmente! Accordi muniti dei loro bravi sigilli, firme vanitose... E ai patti nessuno ha tenuto fede. Vladislav? Un infingardo, un piagnoloso! Iaghellone? Servo dei preti cattolici e di Roma papale; Ivan? Uno stupido rammollito... (un lampo, seguito immediatamente da un fulmine). Quando sarò davanti a Dio, gli dirò: — «Signore, Tu solo sai che cosa c’era nel mio cuore, poi che in Te ho creduto e nessuna vanità è entrata nell’animo mio, e sono stato sempre fermo e saldo come un muro contro i pagani... Ma tutti m’hanno abbandonato... Signore, punisci i miei peccati, ma non obbligandomi a far pace coi Turchi; fa’ che io possa liberare il mio popolo! (lampi e tuoni). Bogdan, i Turchi sono più fedeli alle promesse che non i Cristiani... Ricordatevi tutti delle parole di Stefano ch’è stato il capo del vostro gregge fino all’età più avanzata... ricordatevi che la Moldavia non è stata un possedimento de’ miei avi, non è stata mia, nè vostra, ma de’ vostri figli e dei figli dei vostri figli nei secoli dei secoli... Ah!... niente!... vecchio, malato e privo di forze... Questo manto pesa troppo... Lo porti uno più giovane... (movir mento tra la folla. Meraviglia). Bogdan!... (gli pone sulle spalle il manto reale). E voi, come testimoni di quanto avete veduto, dite al Paese (i tuoni rimbombano più vicini) che è mia volontà che Bogdan sia consacrato Principe fin da questo momento... che la mia volontà e quella del Paese sono state sempre identiche (i boieri chinano il capo in segno di ubbidienza). Signore, (rivolgendosi al medico italiano) dammi il tuo braccio (avanza verso Bogdan sorretto dal medico, e lo spinge verso il trono). Bogdan, vieni, sali sul trono... metti sul tuo capo la mia corona... Così... (s’inginocchia). Signore, beneditelo! (tenta baciar la mano del figlio). Ah! (si abbatte sugli scalini del trono, cadendo nelle braccia di Maria e del medico).
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Duiliu Zamfirescu (1858-1922), appartenente anche lui al cenacolo letterario della «Junimea» e delle «Convorbiri Literare», scrisse poesie ispirate ad un classicismo formale, consistente piuttosto in una perenne aspirazione del suo spirito raffinatamente signorile (non esente però da preziosità e da posa) ad un ideale d’arte armonioso e sereno, che in mi intimo senso della vita greca e romana. Fu per qualche tempo Segretario di Legazione a Roma ed a ciò dobbiamo in gran parte la sua formazione poetica e culturale e la simpatia che dovunque ed in ogni occasione mostrò per l’Italia e la sua millenaria civiltà. Ammiratore del Leopardi, non solo tradusse elegantemente in romeno parecchi de’ suoi «Canti» più belli, ma alla sua sconsolata filosofia s’ispirò nella composizione di un romanzo intitolato «Lidda» che non ebbe però gran successo. Tra le sue novelle ce ne sono alcune d’argomento italiano, ma si tratta quasi sempre di un’Italia «di genere», che non oltrepassa i limiti di quella convenzionale visione che di essa ebbero i romantici francesi in cerca di esotismo, sicché nessuno, leggendole, potrebbe pensare che lo Zamfirescu vi avesse dimorato non pochi anni. Il merito più grande dello Zamfirescu è quello di aver dato alla Romania il primo romanzo davvero moderno nel gran senso europeo, in «Viața la țara» (La vita in campagna), vero capolavoro di eleganza e di sentimento. Esso fa parte di una serie di romanzi intimamente legati tra loro, riuniti sotto il titolo di «Neamul Comăneștènilor» (La famiglia dei Comănești), in cui, a simiglianza dello Zola, ma con altri criterii d’arte, si fa la storia di una famiglia di «boieri» che, pur di mal animo, è costretta ad adattarsi alle esigenze borghesi dei tempi nuovi. Di questi romanzi, tutti interessanti dal loro punto di vista, solo il primo («Viața la țară») ed il secondo («Tanase Scatìu») posson dirsi riusciti, mentre gli altri, pur pregevoli, restano molto al disotto, soprattutto di «Viața la țară», che è da considerarsi come uno dei migliori romanzi che possegga la letteratura romena e per molto tempo è stato il solo che potesse competere con quelli stranieri. La poesia della campagna che l’anima dal principio alla fine, la signorilità e la squisitezza degli affetti e dello stile lo rendono anche oggi una delle letture più piacevoli e interessanti. Traduciamo qui qualche pagina del principio, in cui si descrive il ritorno dall’estero di uno dei protagonisti (Matei) chiamato in patria dal desiderio di rivedere la vecchia mamma malata e di dedicarsi tutto alla coltivazione ed all’amministrazione delle sue terre:
Da «Viața la țară» di Duiliu Zamfirescu.
Cantava, elevandosi a spirale verso il cielo, l’allodola nella freschezza del mattino, accompagnando lungo la Ialomitza le carrozze che andavano alla stazione. I bambini, raggruppati a cassetta, si divertivano a guardare i cavalli. Mihai guidava il tiro a quattro della sua carrozza di casa, pulita e lustrata per l’occasione, in cui doveva prender posto Matei. Sul viso di tutti era dipinta la salute e la felicità.
La vastità dei campi s’apriva davanti agli occhi in una ineffabile pace estiva. Da una parte, una vasta distesa, coltivata a granturco, faceva ondeggiare la punta delle foglie nervose, dando all’orizzonte un riflesso verde che sembrava ingrossar l’aria; dalla parte opposta, la Ialomitza scorreva lentamente tra le rive basse, lasciando vedere un orlo di steppa co’ suoi sentieri deserti, co’ suoi pascoli brucati come una macchia bianca e soprattutto col suo orizzonte ingannevole, la cui linea apparente danzava nella calura del sole d’estate come la superficie d’un lago. Dal greto del fiume l’armento saliva per un sentiero appena tracciato e si avviava lentamente verso il pascolo. Qua e là un bove solitario restava come confitto al margine dell’acqua, incarnando nella sua immobilità la solitudine del luogo.
Quando le carrozze giunsero al margine del campo di granturco, dovettero fermarsi. Il guardano della barriera saltò fuori dalla sua capanna, col berrettone di pelle d’agnello in mano, ed aperse il cancello di rami intrecciati che sbarrava la strada. Un cane striminzito si slanciò contro i piedi dei cavalli, abbaiando furiosamente e pronto, si sarebbe detto, a mangiarseli. Passarono tutte le carrozze al di là del rustico cancello. Dopo un quarto d’ora arrivavano alla stazione.
Tutta questa folla si riversò ridendo e saltando nell’unica sala d’aspetto, con gran meraviglia dei contadini conduttori di carri. Mihai colle sorelle più piccole e con Tincuzza; Elena co’ suoi quattro bambini intorno, la signora Sofizza e il signor Dinu e il «sottoprefetto»; Berla, l’ebreo dell’osteria e Tanase Scatiu, che era venuto a cavallo. Mancava solo Sascia che era dovuta rimanere a Ciulnitza a tener compagnia alla signora Diamantula. Tutti guardavan l’orologio. «Mancano ancora dieci minuti, mancano ancora sette minuti, per l’arrivo del treno» gridavano i bambini nella sala di aspetto come in una fiera. «Mancano tre minuti», la campanella sonò. In fondo all’orizzonte si vide la locomotiva divenir sempre più grande, finche apparve intera.
— «Si tirino indietro, Signori!» — gridò il lampista della stazione.
Il treno arriva velocemente e si ferma di botto davanti al capostazione come un cavallo ammaestrato. Tutti i cuori battono violentemente, i bambini colla mano alla bocca, si fanno indietro di un passo, impauriti dal rumore: Tutti domandano: — . «Dov’è? dov’è? — Ad uno sportello del treno, un viaggiatore impaziente chiama a tutta forza il conduttore. Prima che questi arrivi, quelli radunati sotto la tettoia riconoscono il loro Matei e si affollano allo sportello.
— «Matei! figliuolo! conduttore venga ad aprire, conduttore! Giovanni, prendi i bagagli!...».
In mezzo a questa confusione e a questo chiasso, il viaggiatore si slancia nelle braccia di quelli che lo aspettavano, baciando ed abbracciando a destra e a sinistra.
— «Figliuolo mio, fratellino, caro Matei», — s’ode esclamar da tutte le parti. Matei, stordito, si slancia verso il vagone e afferra i bagagli di altri signori, che protestano. Tafta, il garzone, solleva da sè solo due casse e le depone con cura sul carro dei buoi. Matei seguita ad abbracciare a destra e a sinistra, fermandosi di tratto in tratto a domandare: — «E tu chi sei, birichino?» — fra gli scoppi di risa delle mamme rispettive. Alla fine si avanza colle braccia aperte verso un povero diavolo, facendo l’atto di baciarlo con gran meraviglia della vittima e nuovi scoppi di risa dei presenti.
— «Ce ne sono ancora?» — grida poi, pronto ad abbracciar l’universo.
Finalmente il vecchio Dinu, asciugandosi le lagrime venutegli fuori dal gran ridere, lo prese sotto il braccio:
— «Su, giovanotto, andiamo!».
Le carrozze si avviarono per la medesima strada, allineandosi in corsa l’una dopo l’altra. Ma, non appena Matei rimase solo in carrozza col signor Dinu, l’allegria scomparve.
— «Come sta la mamma?» — domandò con impazienza.
— «Sta un po’ meglio — rispose il vecchio scotendo il capo — . Ora che finalmente sei arrivato, son certo che le torneranno le forze».
Tacquero l’uno e l’altro.
— «Per bacco — disse il signor Dinu — credevo che non tornassi più! Starsene sei anni all’estero senza tornare a casa!».
— «Proprio così, zio Dinu, ma volevo finirla una buona volta... Ora spero di fermarmi e non muovermi più per un pezzo. Sono stanco di viaggi. Voglio vivere colla mamma in pace e quiete».
— «Non avrai a viver molto con lei».
Matei si volse a guardar lo zio. Il vecchio era lì lì per piangere e non disse più una parola. Anche lui, Matei, sentì il cuore empirglisi di dolore e le lagrime spuntargli sulle ciglia... Tacquero di nuovo l’uno e l’altro.
— «Noi ce n’andiamo» — disse il vecchio dopo qualche minuto, battendogli colla mano un ginocchio — «Tocca a voi di vivere, ora! Come quest’erbe secche, noi siamo cresciuti ed abbiam fatto il nostro dovere; ora tocca a voi. Buona fortuna!».
Uno slancio irreprimibile di simpatia spinse il giovine ad afferrar la mano dello zio ed a baciarla. Il vecchio, più commosso di lui, respirava con difficoltà, guardando la campagna.
— «Vedi questa terra? m’ha fatto sudare a coltivarla; ho lavorato tutta la vita per lei, spesso senza che mi ricompensasse di tanto lavoro; mi sono adirato e l’ho maledetta, ma non mi allontanerei da essa per nulla al mondo. Spero che lo stesso farai tu, e che non partirai più di qui. Qui siam nati io e tua madre e i nostri genitori e i padri dei nostri padri...
Un silenzio di alcuni istanti permise al vecchio di padroneggiar l’emozione che gli impediva di parlare, e continuò:
— «Tu sei il solo erede maschio della nostra famiglia. Resta qui, su questa terra che fu de’ tuoi maggiori, non muoverti di qui e non la dare a coltivare a nessuno, non affittarla, chè i fittavoli son come i tarli... hai capito che voglio dire?»
— «Sì, zio».
— «E sarai felice, sull’onor mio. Non avrai i caffè di Parigi e i loro «mazagrans», e neppure gli aranci della «bella Italia», ma sarai uomo nel più nobile significato della parola, e nessuno ti sonerà l’armonica all’orecchio e non pesterai i calli a nessuno... Capisci che voglio dire?» — domandò di nuovo sorridendo e alzando la voce.
— «Sì, zio; guarda intanto che bellezza di granturco!».
— «Sì».
Infatti giungevano alla barriera del guardiano, all’orlo del campo coltivato a granturco. Il sole si era alzato sul cielo e la calura cominciava ad avvolgere la campagna nel suo respiro infocato. Un colorito eguale di un grigio triste si stendeva sull’erba, sul terreno, sui seminati, e solo qualche garofanetto selvatico sorgeva qua e là svelto dagli strati di rena deposti dalle inondazioni recenti della Ialomitza. Matei si sentì di botto tornato in dietro di dieci anni. La distesa uniforme della pianura col fiume accanto gli apparve all’improvviso di una attrattiva ineffabile. Niente di quanto fino ad allora aveva visto ne’ suoi viaggi poteva starle a paragone. Il guardiano aperse il cancello nel silenzio delle cose, augurandogli in fretta: — «Sii il benvenuto, Signore!», e rimase in piedi col berrettone di pelo in mano, finché tutte le carrozze non furono passate. Matei volse il capo verso di lui:
— «Zio, non è per caso Toader Croitoru?».
— «Proprio lui, — rispose il signor Dinu, soddisfatto che Matei l’avesse riconosciuto — te lo ricordi?».
— «Come potrei non ricordarmelo? Non s’è cambiato affatto. Fa sempre il guardiano?»
— «E che vorresti che facesse?» — - domandò lo zio sorridendo.
«Sicuro! La carriera di guardiano è un po’... ingrata, non si fanno in essa rapidi avanzamenti!»
Il vecchio rideva.
— «Sta’ sicuro, giovanotto, che è più felice di te! Ha tutto quello che gli serve e nessuna preoccupazione».
— «Si vede che ha bisogno di poco per esser felice!»
— «Questa è la miglior filosofia» rispose il vecchio, come se dicesse: «A questa conclusione volevo che venissi!». — «Ma... dimmi un po’: quanto gli dai?».
— «Gli dò dieci marenghi all’anno, due pacchetti di tabacco per settimana; un paio di pantaloni, un cappuccio di lana, un berrettone di pelo e da pranzo ogni giorno».
— «Pesce e formaggio» — disse Matei, ricordando.
— «E che vorresti che gli dessi? Cioccolattini?».
— «No, certo...».
— «A casa sua mangia polenta asciutta, quando ne ha».
Matei guardò suo zio dispiaciuto.
— «Ho dimenticato di dirti:...e cioce quante ne vuole!».
— Perchè tanto spreco di cioce?» — domandò il giovane non senza una velatura d’ironia.
— «Perchè bisogna che cammini a piedi. È una cosa richiesta dal suo mestiere».
Poi, accorgendosi che suo nipote non era troppo convinto della felicità del guardiano e dell’abbondanza del suo trattamento, aggiunse:
— «Sta’ pur sicuro che il vero uomo felice è lui, non tu, nè io. Del resto te ne convincerai da te. Non affrettarti a giudicare, chè le cose, da vicino, si vedon diversamente che da lontano. Abbiamo anche qui dei vagabondi che empion loro la testa di sciocchezze; ma, fino ad ora, da me nessuno li ascolta».
— «Socialisti?».
— «E come no?».
Matei cominciò a ridere.
— «Figurati se non ce ne sono anche da queste parti!... Ma lascia che me ne capiti uno nelle mani e ti so dire che gli farò assaggiare il bastone in modo che se ne ricorderà per un pezzo!».
Matei rideva sempre più di gusto, vedendo come il vecchio si mantenesse sempre vigoroso e autoritario come a’ suoi bei tempi.
— «Il bastone?».
— «Il bastone, sicuro! Una buona bastonatura, ai piedi dello scalone» 23.
Il giovane seguitava a ridere scotendo il capo in segno di dubbio.
— «Sull’onor mio: una buona bastonatura! Tu ridi, ma io ti dico le cose così come sono in realtà. Aspetta e vedrai. Possiedi la tua parte di terra, quella della dote di tua madre; se ti piacerà occupartene, avrai occasione di toccar con mano quello che ti dico».
Mentre parlavano un uomo a cavallo passò davanti alla carrozza veloce come una freccia. Era Tanase Scatiu, che faceva la corte a Tincuzza, cercando farle ammirare il trotto del suo cavallo che era una vera meraviglia. Colla tesa del cappello abbassata sugli occhi, col fazzoletto che gli svolazzava al collo, egli si teneva a cavallo con grande abilità, caracollando di sbieco in modo birichino. Era ridicolo perchè troppo alto e non più giovane da potersi permettere queste pose. «Bravo Tanase!» — disse Matei sorridendo.
— «Ti ricordi anche di questo tarpano?» — domandò il signor Dinu.
— «Sicuro che me ne ricordo: eravamo amici. Non è punto uno sciocco».
— «Non è uno sciocco ma è un contadinaccio arricchito, e per giunta furbo più del diavolo. Vorrebbe che gli dessi in moglie Tincuzza».
Matei guardò suo zio un po’ disorientato. Non voleva irritare il vecchio e perciò si limitò ad osservare:
— «È un po’ vecchiotto per Tincuzza; è più vecchio di me».
— «È vecchio ed è tarpano» — aggiunse il Signor Dinu, guardando con un certo sforzo oltre il fiume, — «Tu ci vedi meglio di me: discerni qualcosa là in fondo?».
— «Sì, credo che sian pecore».
— «No — disse il vecchio soddisfatto — guarda meglio, non vedi?».
— «Sì, laggiù a sinistra...».
— «A sinistra, che sono? pecore?».
— «Così mi pare».
— «No, sono otarde!».
Era contento il signor Dinu di poter svelare al nipote i tesori della sua tenuta! Infatti, in fondo all’orizzonte, in una vailetta solitaria, uno stuolo di otarde se ne stava accampato, come se fosse un gregge di pecore. L’amor della solitudine così prepotente nei cacciatori, empiva il petto del giovane di un ineffabile sentimento di libertà, di rivelazione del proprio essere intimo, che tra gli uomini si perde e si trasforma in egoismo. Tacque, mentre il pensiero gli si perdeva nel tremolìo degli strati d’aria, trasparenti che si stendevano all’orizzonte. E lo stesso accadeva anche al vecchio.
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Un romanzo storico ch’è un piccolo capolavoro (ed è poi prezioso come documento dei costumi romeni sotto i fanarioti) scrisse (1863) Niculae Filimòn (1819-1865) intitolandolo: «Ciocoii vechi și noi, sau Cine naște din pisică șoareci manâncă» (Villani rifatti vecchi e nuovi o Chi di gallina nasce convien che razzoli).
Ne riportiamo una pagina, in cui si descrive un festino in casa del «boiaro» Andronache:
Da «Villani rifatti vecchi e nuovi» di Niculae Filimòn.
La stanza preparata per il ricevimento degli invitati al festino era una specie di sala quadrata imbiancata a calce con in mezzo al soffitto una ghirlanda di fiori di stile arabo-turco imbiancata a calce anch’essa, lavorata a rilievo, ma senza nè gusto nè arte. Il mobilio si componeva di due letti di tavole sfondate coperte di materassi e di cuscini ricamati a colori vistosi e a disegni geometrici, sui quali eran distese delle coperte di lana di Brussa bordate di merletti veneziani. Accanto al muro che dava sul giardino c’era un gran cassone ricoperto di pelle di daino e cerchiato di ferro, sul quale era posato un altro scrigno più piccolo di noce intarsiato con fiori di madreperla. Nel mezzo della stanza si trovava un treppiedi d’abete, su cui eran poggiati dei candelabri d’ottone colle loro candele ed un paio di smoccolatoi di latta, coi quali una graziosa zingarella smoccolava di tanto in tanto le candele per far loro dare più luce.
Finalmente, verso le dodici e mezzo, secondo l’ora turca, gli invitati incominciarono ad arrivare. Il primo a salir le scale della casa di Andronache fu il capitano Costache Cărăbuș, bel giovane, ma senza spirito e corrotto fino alle midolle, amico intimo e compagno di tutte le dissolutezze del «beizadeà» (24) Costache. Dopo di lui giunsero il Gran Palafreniere Dimache Pingelescu uomo che si sforzava del suo meglio a non ismentire (25) il suo nome; il Tesoriere Starnate Birlic (26), il Maggiordomo Ioniță Maturică (27), il Coppiere Dimitrache Mano-Lunga ed il Bano Nichita Kalicewski (28). Ultimo arrivò il «beizadeà» accompagnato dal Cancelliere Iordache Zlatonit, personaggio ben noto per il suo spirito mordace e stravagante.
Quando gli ospiti si furon sdraiati sui due letti, una zingara sfarzosamente abbigliata e con le spalle coperte da una corta mantellina di pelliccia dal collo rialzato, si presentò con un vassoio di confetture d’ogni sorta. Era seguita da un’altra zingara che portava un vassoio pieno di bicchierini di liquor di menta e di alcuni piattini di mandorle sgusciate o di ceci abbrustoliti. Subito dopo entrò il caffettiere del «boiaro» abbigliato con una specie di pastrano di drappo nero ricamato in oro, ma senza maniche per lasciar vedere le braccia bianchissime attraverso la camicia di finissimo velo di seta, ornata di leggieri merletti all’ago. La sua vita svelta e flessibile era avvolta in uno scialle di seta a fasce diversamente colorate, i cui capi ricadevano graziosamente sull’anca della gamba sinistra. I pantaloni ampi, alla turca, di seta color ciliegia ricamata d’oro, le pantofole scarlatte ed il gran fez rosso dal fiocco nero messo con molta civetteria un po’ di traverso alla moda dei fanarioti (29), facevano di questo giovane un Ganimede, che avrebbe potuto eccitar la gelosia degli Dei dell’antico Olimpo di Omero. Egli avanzava lentamente, portando un vassoio, sul quale si trovavano, nelle loro coppe di filigrana, molte tazze piene del più denso e più profumato caffè d’Arabia. Dopo di lui entrò l’accenditore dei «ciubùc» (30) del «boiaro» con delle pipe di legno di pruno profumato al gelsomino, che, riempite del più fine tabacco, sprigionavano una nuvola di fumo profumato. Il successivo entrare di codesti domestici formava uno spettacolo pittoresco. Conoscendo a perfezione le regole dell’etichetta e della gerarchia in quanto domestici di grandi famiglie, essi offrivano il vassoio in primo luogo al «beizadeà» Constantin, poi, a seconda del grado e della carica che ricoprivano, agli altri convitati, e servivan tutti con esattezza ed eleganza.
Terminatosi il cerimoniale del caffè, gli ospiti, da uomini preoccupati de’ loro affari, incominciavan già a discuter di politica e dei codici delle nuove leggi che il Principe Carageà e i suoi consiglieri preparavano ai sudditi; ma il «beizadeà», desiderando interrompere codesta conversazione, il cui tono serio mal celava la menzogna e l’adulazione cortigiana, disse improvvisamente:
— «Ascoltate, boiari, che siam venuti a far qui? A discuter di politica, o a divertirci? Lasciate a mio padre le cure dello Stato e attendiamo a bere e a mangiare!».
Poi, voltosi al Maggiordomo, gli disse:
— «Ionitză, di’ ai domestici di apparecchiare!».
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Prima di passare ad occuparci degli scrittori romeni contemporanei, bisognerà trattare ancora di quattro, che, pur essendo morti in giovane età, non per questo appartengono al passato. I quattro scrittori ai quali alludo sono i prosatori Calistrat Hogas, Emil Gârleanu ed i poeti Dimitrie Anghel e Stefàn Octavian Iosif.
Calistrat Hogàs (1847-1916) rappresenta un po’ il Panzini della Romania per la sua tendenza a descriverci viaggi a piedi o a cavallo, intramezzati da ogni sorta di considerazioni storiche, sociali e filosofiche e per l’elemento «libresco» che pervade quasi ogni pagina. Era infatti, come il Panzini, professore e innamorato dei classici di ogni nazione, ma soprattutto latini, che cita spesso con una lieve venatura d’humour per non sembrar pedante, ma che non basta a nascondere la sua passione per essi. La sua opera principale s’intitola: «Pe drumuri de munte» (Attraverso sentieri di montagna) divisa in due volumi: «Amintiri dintr’o călătorie» (Ricordi di un viaggio) e «In munții Neamțului» (Tra i monti di Neamtz), scritti in uno stile semplice, piano e, nello stesso tempo, elegante, che, purtroppo, non fu abbastanza apprezzato finché l’autore fu in vita, ma che oggi, per opera soprattutto di Lovinescu, che ne ha messi in evidenza i pregi non comuni, è molto gustato anche dagli scrittori giovanissimi (31). Soprattutto la squisita e dolce figurina di «Floricica» così profondamente romena nella delicatezza del sentimento e nella praticità e buon senso con cui interpreta la vita e la fa essere indulgente al curioso misto d’affetto paterno e di «amitié amoureuse» che lo scrittore e protagonista della deliziosa macchietta nutre per lei; resta indimenticabile per il lettore di buon gusto, che sa apprezzarne la delicata fattura e l’abilità, per cui, trattando un argomento che si presta facilmente ad esser volto in ridicolo, sa invece trarne fuori tanta squisita e dolce poesia.
Un altro tipo indimenticabile è quello di «Părintele Ghermănuță» (Padre Ghermanuzza), strana figura di monaco ortodosso, mistico e ghiottone al tempo stesso, da cui procede quasi tutta la produzione di Damian Stanoiu, abilissimo descrittore contemporaneo di comiche figure di preti e di frati e di ambienti di monastero, coi loro pettegolezzi, le loro lotte, il loro strano miscuglio di sensualità e di ascetismo, in un stile di satira bonaria e indulgente che ricorda talvolta quello dell’Hogàș.
Riporteremo una pagina, in cui l’autore si ricorda di un giorno lontano in cui era ancora giovane e «Fioricica» (Fiorina) non aveva ancora dieci anni:
Strinsi le palpebre per veder meglio... Una città piuttosto grande, situata fra colline verdi, si stendeva davanti a me, e sulle sue strade bianche, larghe e piene di sole, una gran folla si moveva in tutte le direzioni. Io, quello di una volta, stanco dopo una giornata di lavoro, cogli occhi spenti, colle guance infossate, coi baffi brizzolati prima del tempo, con dei calzoni troppo corti che a mala pena m’arrivavano alla caviglia e facevan vedere la gomma delle mie miserabili scarpe, colla giacchetta consumta a un gomito e con l’altro rappezzato, e in capo un cappello a forma di «armonica», scendevo a valle per una strada lunga, larga e diritta, colla testa china, piena di pensieri molesti e sotto il braccio un cocomero immenso, di quelli rotondi, a fasce verdi e gialle, che si dicon «turchi»... Entrai nel cortile piantato a fiori ed alberi fruttiferi di un gran fabbricato, che sporgeva dal fianco di una chiesa e subito uno stuolo di bambine tra gli otto e i dieci anni mi vennero incontro correndo. Una, piccola come un cucchiaio e irrequieta come una goccia d’argento vivo, le sorpassò tutte, mi gettò le braccia al collo, mi baciò, o, per meglio dire mi morse il viso e gli orecchi, saltò quindi a terra svelta come una cerbiatta, prese il cocomero ch’era più grande di lei, Io gittò a terra, sì che si fece in cento pezzi; prese quindi il più grande e cominciò a rosicchiarne la polpa, affondandovi fino alle sopracciglia il visino di bimba golosa. Di tanto in tanto, gittava verso di me, al disopra del margine dell’enorme fetta, uno sguardo de’ suoi occhi grandi, neri e pieni di gioia innocente; il succo le colava dal mento sul petto e dal petto a terra... Quando alzò la testa per riprender fiato, era tutta impiastricciata nel volto e un seme nero di cocomero le era rimasto appiccicato in punta al naso...
Una sola volta ho rimpianto in vita mia di non esser pittore...
Poi, svelta come una trottola, si slanciò verso di me e mi saltò in braccio; con una mano m’afferrò un baffo e con l’altra mi cinse il collo, sì che la scorza di cocomero mi arrivò proprio davanti alla bocca.
— «Mangia, fratellino maggiore, anche tu, vedrai quanto è buono — disse, e mi pose tra le labbra la scorza, in cui era rimasta appena un po’ di polpa.
— Ah, davvero che è buono! — dissi, dandovi un morso — si vede, Fiorina, che di qui è passato il tuo musino rosa e i tuoi dentini di sorcetto!
E, colpabilità di un «cow-boy», buttai la scorza sulla nuca di una ragazzina. Mi lasciò andare il baffo, mi circondò il collo con ambedue le braccia, ficcò la sua testina di rondinella sotto il mio cappellaccio e mi baciò rumorosamente sulla fronte.
— Ti voglio bene assai, fratellino maggiore! — disse tirandosi indietro un tantino, appoggiandosi a tutte e due le mie spalle e guardandomi negli occhi con una specie d’estasi strana per una bambina di appena dieci anni.
— Non è vero che anche tu mi vuoi bene?
Un sorriso amaro mi passò sulle labbra, gli occhi mi si inumidirono e la voce mi si spense nella gola.
— Di nuovo piangi, fratellino maggiore?
— No, Fiorina, mi batte il sole negli occhi...
— Sei un bugiardo, fratellino maggiore, il sole ti batte alle spalle; ti è successa qualche disgrazia?
— Ti dirò la verità, Fiorina: mi duole il capo.
Con tutte e due le sue piccole mani ancora umide del succo del cocomero, mi carezzò delicatamente e con grazia la fronte e... cancellò lei stessa e... per sempre il bacio che mi aveva dato con tanta innocenza.
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Con Dimitrie Anghel (1872-1914) e Stefan Octavian Iosif (1877-1913) usciamo definitivamente dalla corrente «juminista» e delle «Convorbiri Literare» per entrare in quella del «Semănătorul» (Il seminatore) rivista letteraria fondata nel 1901 dai poeti Gheorghe Coșbuc e Alexandru Vlăhutză, ma diretta in realtà da Niculae Iorga che ne fu il critico e l’orientò verso un sano tradizionalismo, anzi nazionalismo letterario.
Di questi due poeti così diversi e che pur collaborarono insieme per parecchi anni il solo Iosif può ritenersi appartenere veramente al movimento «seminatorista»; l’Anghel, più raffinato, deve invece considerarsi come un precursore del «simbolismo».
Le poesie di Iosif s’intitolano «Patriarhale» (Patriarcali) e «Poezii și Credinți» (Poesie e atti di fede). Sono quasi tutte ricordi d’infanzia (Nucul, Revedere, Adio) e rievocazioni di tempi passati (E mult de atunci, Bunica, Fusul, Cucoarele). Altrove (Icoane din Carpați) ci dà quadretti deliziosi di paesaggi. Descrive anche la vita e le occupazioni dei contadini, ma senza la profondità del Coșbuc, al quale somiglia anche per il suo amore per la poesia popolare, da cui, ripulendola e raffinandola, tolse spesso l’ispirazione. Tradusse anche molto da lingue straniere (dal Verlaine, Bürger, Goethe, Schiller, Lenau, Uhland, G. Keller, Shakespeare, ecc.). Dall’italiano tradusse qualche poesia del Carducci delle meno importanti. In collaborazione coll’Anghel scrisse «Legenda funigeilor» (32) e la commedia in versi «Cometa» di sapore rostandiano. In esse, come anche nel «Caleidoscopul lui Mirea» (Il caleidoscopio di Mirea) e nel «Cireșul lui Lucullo» (Il ciliegio di Lucullo) l’influsso di Anghel è da considerarsi preponderante.
Le poesie di Anghel apparvero da principio in due volumi intitolati rispettivamente: «In gradină» (Nel giardino) e «Fantazii» (Fantasie), ma ora si possono leggere nel primo volume delle sue «Opere complecte» pubblicate dalla «Cartea românească», sotto il titolo di «Poezii».
Ne togliamo quella intitolata «Vezuviul» (Il Vesuvio), che il Lovinescu («Istoria Literaturii Române Contimporane», vol. III: «Evoluția poeziei lirice») considera a ragione come il suo capolavoro:
IL VESUVIO
Chiomato fui un tempo come il biblico Sansone: |
Per crearle miraggi, all’alba, quando il cielo |
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Note
- ↑ Mantengo questo giudizio perchè tale volle essere e tale seppe sempre apparire, benché il primo volume del suo giornale intimo recentemente pubblicato dal Rădulescu-Pogoneanu ce lo riveli nel suo intimo ben diverso e in un certo momento della sua vita meditante persino il suicidio!
- ↑ In italiano. Questa espressione come l’altra: tutti frutti ha preso in romeno il significato: ogni sorta di gente, o di cose (di poco valore) messe alla rinfusa.
- ↑ Personaggio della mitologia popolare che, insieme con Tândală e
Păcală, suoi degni compagni, rallegra eolie sue sciocchezze e buffonerie
(non prive di accenti satirici) i conviti dei Re. - ↑ Alla lettera: il suocero maggiore e cioè il padre della sposa, per distinguerlo dal suocero minore, ch’è il padre dello sposo.
- ↑ Specie di rustico mandolino, ma più grande, con dieci corde, che, toccate con una penna, produeon solo cinque note, sicché lo strumento non può servire che di accompagnamento.
- ↑ Quartieri alla periferia della città, che conservano ancora il pittoresco disordine orientale.
- ↑ Venditore bulgaro di braga: una specie di birra leggiera e dolciastra fatta di miglio fermentato e di miele.
- ↑ Pugnale a lama ricurva.
- ↑ Conosciuto da noi col nome di lucumi, dolce orientale di una pasta consistente ed elastica fatta di farina e zucchero, cui si aggiungono talvolta mandorle, nocciole, pistacchi e vaniglia.
- ↑ Un gruppetto di «frondeurs» nemici della letteratura a base di filosofia.
- ↑ Il Panu, spirito freddamente caustico, non ebbe mai troppa simpatia per Eminescu e il resoconto che fa della lettura del Povero Dionisio è, più che altro, una parodia, che vale però a mostrarci come, neppur nel cenacolo del Maiorescu, l’opera del grande poeta fosse sufficientemente apprezzata dai contemporanei.
- ↑ Soprannome del Prof. Melik, uno dei membri della «Junimea».
- ↑ A. D. Xenopol, il celebre storico rumeno, autore di una Teoria della Storia, menzionata anche dal Croce.
- ↑ Stava dunque tessendo.
- ↑ Miscredenti, cristiani.
- ↑ Un amico che gli aveva chiesto una prefazione a un suo trattato di caccia.
- ↑ Casa di campagna di un «boiaro». Qui è usato nel significato di «padiglione di caccia».
- ↑ Le stufe dei contadini rumeni hanno di fianco una specie di largo gradino, su cui si dorme.
- ↑ Parodia scherzosa dei versi dell’«Incubo» di Heliade-Rădulescu:
Ma il lavoro della terra stanca il contadino,
e, dopo una parca cena, ecco che il sonno lo vince. - ↑ Traduzione quasi letterale della descrizione della steppa maio-russa nel romanzo storico di N. Gogol: Taras Bulba. Maliziosamente l’Odobescu afferma di volersi fermar qui per resistere alla tentazione di tradurla tutta e darla per sua, come ha fatto un certo autore rumeno (allusione a] Carageale) che non si è accorto che una certa sua commedia (allusione alla Lettera dispersa) era stata scritta prima di lui in russo dal Gogol (L’Ispettore Generale!). L’accusa dell’Odobescu è però infondata perchè la commedia del Carageale, pur essendo del medesimo tipo di quella del Gogol (e di Rabagas di Sardou) non ha nulla a che fare nè coll’una nè coll’altra ed è assolutamente originale.
- ↑ Nel 1907 commemorò con una nobile orazione Giosuè Carducci.
- ↑ Cfr. N. Iorga: Storia dei Romeni e della loro civiltà. (Milano, Hoepli, 1928, p. 400): «L’ambasciatore moldavo, alludendo alla sconfitta di Valea-Alba, mostrò nel nome del Principe che quel che è seguito non seria intervenuto s’el avesse intexo che li principi christiani et visini soi non havesse tractà come l’hano tractà... Io cum la mia Corte hò fato quel che potè, et è seguido ut supra; la qual cosa zudego sia stà voluntà de Dio per castigarme come pecator, et laudato sia el nome suo... Non solamente non me hano aiutato, ma forsi alcuni hano havuto piacer del danno fatto a mi et al dominio mio da Infedeli... Per esser impedito el Turco con mi zà anni IV, so remaxi molti christiani in reposso”». Queste parole del documento veneziano sono state abilmente messe a contributo dal Delavrancea nella scena che abbiamo riportata, e che perciò è assai più storica di quanto non sembri a prima vista.
- ↑ Come ai tempi in cui i «boieri» amministravan la giustizia sulle loro terre dall’alto della terrazza cui faceva capo la scala esterna per cui si accedeva alla casa. Ai piedi di questa scalinata, tra due «arnauti» (specie di guardie albanesi) stava l’incolpato che, dopo la sentenza del «boiero», era punito con un certo numero di colpi di bastone a seconda della gravità della colpa.
- ↑ «Beizadeà» (dal turco «beyzadé») vuol dire «figlio del Principe».
- ↑ «Pingelescu» rappresenta uno di quei nomi caricaturali allusivi al carattere del personaggio, di cui han tanto usato ed abusato i romanzieri del primo Ottocento. «Pingeà» infatti (pl. «pingéle»), dal turco «pengé», vuol dire «mezza suola» ed il verbo «a pingelì» (lett. «risolare») si usa nel senso figurato per «ingannare».
- ↑ Termine di giuoco; asso.
- ↑ Da mătură=scopa, granata.
- ↑ Da calic=pezzente. Allusione all’«avara povertà» dei nobili pòlacchi.
- ↑ Greci di nobile famiglia abitanti il quartiere di Costantinopoli detto del «Fanàr» (fanale), che, per la loro conoscenza delle lingue (interdetta dal Corano ai veri credenti), occupavano alte cariche alla corte del Sultano ed eran mandati nei Principati rumeni di Muntenia (Valachia) e Moldavia come governatori.
- ↑ Pipe orientali dalla cannuccia molto lunga.
- ↑ Una recene biografìa ne è apparsa a Bucarest per i tipi della «Cartea Românească» (1936) per opera di Dimitrie I. Stahiescu, col titolo di: Calistràt Hogaș. Viata și opera lui.
- ↑ Funigei si dicono in rumeno quei filamenti bianchi che volan per l’aria a primavera.