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Ho avuto la curiosità di vedere come si presentasse questo brano tradotto in dialetto ed ho pregato un mio bravo studente, il Signor Dino Rosellini di Pistoia, di volercisi provare. Eccolo dunque in dialetto pistoiese:

Dalle «Storie di quand’ero ragazzo» di Ion Creanga:

L’UPUPA.

Una mattina, come Dio volse, mi’ madre mi svegliò e mi disse:

— Levati su, dormiglione, avanti che sia giorno; sennò vien l’upupa, ti bacia, t’imbratta e ti fa andare a male tutta la giornata!

Mi’ madre, per facci paura, ci dicea così d’un’upupa che da un fottìo di tempo s’era annidiata nel ventre d’un tiglio stravecchio e tutto gretole addoss’a una rampa in quel dello zio Drea, fratello minore di mi’ madre. D’istate per fin dal leva del sole non si sentia altro: pu-pu-pup! pu-pu-pup! e tutto ’l paese d’intorno rintronava.

Dunque, quella mattina, appena mi levai, mi’ madre mi mandò subbito ne’ campi a porta da mangiare a certi zingari, che zappavano e s’eran presi a opre in Vaisecca vicino a Topolizza: e cammina cammina col canestro sottobraccio, sentio sempre: Pu-pu-pup! pu-pu-pup!

C’era verso che potessi tira diritto pe’ fatti mia? Macché! Sfianco verso il tiglio coll’idea d’ave’ l’upupa in mano: perchè proprio, con quella bestiaccia mi ce l’ero presa a morte, e mica solo pel bacio che dicea mi’ madre, ma perchè, per via di lei, mi toccava levantini sempre cogli occhi tra’ peli. In d’un attimo arrivo al tiglio, poso il canestro sul viottolo in cima alla rampa e pian pianino m’aggrampino sull’albero che mandava un profumo da andanne in visibilio: e t’agguanto l’upupa proprio sull’ova.

Tutto contento dico: — Ah, t’ho agguantata, bella mia! e ora zitta: va’ un po’ all’inferno te e il tu’ bacio!

Ma, in quel mentre che la tiro fori, io che non aveo mai visto un’upupa, chi lo sa come, piglio paura della su’ girandola di penne e me la lascio scappa’ nel covo. Ma, ripensandoci bene che di serpe colle penne non ce ne poi esse’, (perchè m’avean detto che delle volte le serpe covano nelle piante), mi fo coraggio e allungo la mano coll’idea di tira’ fori l’upupa... o quel che diavolo era; ma lei, poverina, dalla paura si vede, s’era riampiattata in fondo, chi lo sa dove, e io non la potei trova’ in nessun lato, come se fosse sprofondata sotterra. — Mah, dico fra me e me, stamani le mi van tutte a rovescio, e la bile mi rodeva. Piglio il berretto e lo caccio nel buco; scendo, piglio una pietra grossa tanto, mi riaggrampino sul tiglio, ripiglio il berretto e ci metto la pietra, persuaso che l’upupa avesse a sgusciar fori da qualche lato, intanto che io tornavo da’ campi; eppoi scendo e mi ravvio di trotto verso l’opre col canestro sottobraccio. Ma sì! per quel che trottassi, da tanto che bighellonavo intorno al tiglio, del tempo n’era corso; e in quel mentre l’opre, manco a dillo, dalla fame avean lo stomaco a’ calcagni. Lo sapete il detto: «Lo zingaro, quando ha fame, canta; il signore cammina su e giù colle mani dietro la schiena, e il nostro contadino fuma la pipa zitto zitto». Altrettanto facean quell’opre: cantavan come tanti dannati, appoggiati allo