Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/109


— 109 —


stilo della vanga e si rifinivan l’occhi a furia d’aocchia’ se da qualche parte veniva la colazione.

Alla fine eccomi sull’ora di desina’, di su un poggio, colla roba diaccia e assegata, che faceo du’ passi, uno avanti e uno ’ndietro a sentilli canta’ di quella forza. Allora tutti li zingari mi saltarono addosso e ci scommetto che m’avrebbero fatto a pezzi, se una zingara più giovana non li avesse ripresi:

— Su, su, lasciatelo sta’: o che ve l’avete a piglia’ con lui? Rifativela con su’ padre e no con lui!

Allora li zingari, senza più bada’ a me, si messen a mangia zitti zitti. E io, con la mi’ brava faccia tosta, ripiglio ’l canestro co’ piatti a m’avvio al villaggio: lo stesso, mi ritrovo sotto ’l tiglio, ci rimonto su, accosto l’orecchio alla bocca del foro e sento di dentro qualcosa che ci si scote: allora pian pianino levo la pietra, allungo una mano, e tiro fori l’upupa tutta sfinita, da tanto che ci s’era sbatacchiata drento; ma quando arrivai a piglia’ l’ova, n’era fatta una frittata. Dopo questo, vo a casa, lego co’ un filo l’upupa per una zampa e la rimpiatto per du’ giorni in soffitta fra le botti sfasciate, perchè mi’ madre non se n’avvedesse; e da tutt’i momenti andavo su, che i mia non capivano che ci avessi mai da anda’ tutte le volte in soffitta.

Ma, du’ giorni dopo, eccoti a casa mia la mi’ zia Mariuccia, quella dello zio Drea, che smaniava e sbraitava e se la pigliava con mi’ madre per via di me:

— O cognata, ma di’ la verità, se n’è udita una di peggio? Il tu’ Gianni ha rubato l’upupa; l’upupa — dicea co’ un fare tutto’impietosito — che tutte le mattine ci chiamava al lavoro!

Era tanto sconvolta, che a momenti avrebbe pianto; del resto, pôra donna, la su’ ragione ce l’aveva anco lei, perchè l’upupa gli era come l’oriolo del villaggio; ma mi’ madre, poveretta, che ne sapeva di lei?

— O che dici, cognata? Ma lo sai che, se avesse preso l’upupa per farla soffrire, lo finirei di botte? Hai fatto bene a dirmelo; lasciami fa’ a me, che l’accomodo io!

— È stato lui, positivo, cognata Smaranda, perchè nessuno pol’ave’ pace con quel tu’ discolo; ma bada un po’! Eppoi me l’ha detto proprio chi l’ha visto, che è stato lui a piglialla; è una cosa che mi scombussola tutta!

Io, che m’ero rimpiattito nella dispensa, quand’ebbi capito di che tonava, salto su in soffitta, tiro fori l’upupa, salto giù dal tetto e via di trotto al mercato delle bestie coll’idea di venderla; s’era per l’appunto di Lunedì, giorno di mercato. Arrivo e, come fossi venti, perchè ormai mi parea d’esse’ un omo di grand’affari, mi metto a bazzica’ fra l’omini coll’upupa in mano. Un vecchio zuzzurullone che si tirava dietro per un cappio un vitello — si vede proprio che non ci avea di meglio da fa’ — mi dice:

— O bimbo, ma che la vendi codesta pollastra?

— Sì, nonno.

— E quanto voi?

— Datimi quel che vi pare.

— Sentiamo un po’ quanto pesa.

E intanto che ni do in mano, quel vecchio dannato fa vista di vede’ se ha l’ova, e mi scioglie il filo al piede; e poi la butta per aria e dice: — To’! che peccato: la m’è scappa!

L’upupa, che dite, vrrr! vola e si posa sul tetto d’una bottega; e, dopo