Pagina:Ortiz - Letteratura romena, 1941.djvu/122


— 122 —

Dallo «Pseudokineghetikòs» di Alexandru Odobescu.

Anch’io son cresciuto nella steppa del Baragàn (et in Arcadia ego!). Ed ho visto le frotte delle otarde attraversare a passi lenti e con la testa in attitudine di guardarsi da possibili pericoli quelle pianure sterminate, in cui l’aria rarefatta in onde diafane sotto i raggi cocenti del sole estivo rispecchia le erbe ed i cespugli lontani e li trasforma davanti agli occhi meravigliati in castelli, città con migliaia di minareti e palazzi incantati.

Fin dalla fanciullezza son vissuto in compagnia di cacciatori di otarde da padre in figlio, che sempre, a generazioni intere, hanno errato per la vasta steppa del Baragàn, rannicchiati nei loro carretti coperti di stuoie, e conducendo al passo i loro ronzini piccoli e veloci, si sono aggirati per ore, giornate e mesi interi intorno alle superbe otarde — cui danno il nome di «Metropoliti» — sia che a primavera si battan tra loro in duelli d’amore, sia che in autunno conducano al pascolo frotte di pulcini tra le zolle indurite.

Non ho dimenticato nè la buon’anima di Caraimàn, l’allegro e abile capo dei cacciatori di Tamadaieni, che poteva versar nel suo ventre capace tante mezzette di grappa e una botte di vino di Dealu-Mare, nè il bravo Zio Vlad, nel cui carretto anche tu hai schiacciato tanti dolci sonnellini, mentre lui (1), cogli occhi suoi volpigni, spiava il sorger di tra le alte erbe della steppa della testa delicata dell’otarda, che faceva muovere i campanellini delle graminacee, nè il povero Gheorghe Gianta, quello che, con un suo fucilacelo rugginoso che qualsiasi altro cacciatore avrebbe buttato nel mondezzaio, colpiva la cacciagione meglio che non avrebbe fatto un altro col più perfezionato dei fucili inglesi, e che tante volte mi ha trasportato nel suo carretto (me, indegno, e la cacciagione che aveva fatta) al «conàc» (2) dalla parte di mezzogiorno.

Nel tuo libro pieno di regole tecniche e di ammaestramenti dottrinali, tu parli, amico mio, con un superbo disprezzo di tutte quelle gesta cinegetiche, in cui il cacciatore non ha bisogno di andare a piedi a cercar la selvaggina, aiutato solo dal cane, e di colpir la lepre o l’uccello in piena corsa o a volo. Non nego tutto ciò. Forse, in principio, ha ragione. Ma che farci col proprio temperamento? Poi che, per parte mia, debbo confessarti, che, se mai un genere di caccia mi è piaciuto, questo è stato proprio quello in cui i piedi e le mani han poco da stancarsi.

E invero mettiamoci un po’ una mano sul petto e diciamo la verità: forse che ci può essere un piacere più intenso, più sereno e più, direi, cullato in dolci e teneri sogni, di quello che si prova quando, tra le solitudini della steppa, ce ne stiamo distesi sul fieno d’un carretto, che avanza lentamente su quelle strade deserte? Davanti a noi si stende lo spazio infinito; ma le onde d’erba, qua rigogliose di un verde intenso, là riarse dal calore del sole, non ci danno alcun senso di diffidenza dell’instabile oceano. Lontano, profilantisi distinte sull’orizzonte, sorgon, simili a formicai colossali, dunette tondeggianti, la cui origine è nascosta nelle nebbie del passato ed ora forman l’ornamento della steppa. Dalla dunetta di Neașul sulle sponde della Ialo-

  1. Un amico che gli aveva chiesto una prefazione a un suo trattato di caccia.
  2. Casa di campagna di un «boiaro». Qui è usato nel significato di «padiglione di caccia».