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ca» così profondamente romena nella delicatezza del sentimento e nella praticità e buon senso con cui interpreta la vita e la fa essere indulgente al curioso misto d’affetto paterno e di «amitié amoureuse» che lo scrittore e protagonista della deliziosa macchietta nutre per lei; resta indimenticabile per il lettore di buon gusto, che sa apprezzarne la delicata fattura e l’abilità, per cui, trattando un argomento che si presta facilmente ad esser volto in ridicolo, sa invece trarne fuori tanta squisita e dolce poesia.

Un altro tipo indimenticabile è quello di «Părintele Ghermănuță» (Padre Ghermanuzza), strana figura di monaco ortodosso, mistico e ghiottone al tempo stesso, da cui procede quasi tutta la produzione di Damian Stanoiu, abilissimo descrittore contemporaneo di comiche figure di preti e di frati e di ambienti di monastero, coi loro pettegolezzi, le loro lotte, il loro strano miscuglio di sensualità e di ascetismo, in un stile di satira bonaria e indulgente che ricorda talvolta quello dell’Hogàș.

Riporteremo una pagina, in cui l’autore si ricorda di un giorno lontano in cui era ancora giovane e «Fioricica» (Fiorina) non aveva ancora dieci anni:

Strinsi le palpebre per veder meglio... Una città piuttosto grande, situata fra colline verdi, si stendeva davanti a me, e sulle sue strade bianche, larghe e piene di sole, una gran folla si moveva in tutte le direzioni. Io, quello di una volta, stanco dopo una giornata di lavoro, cogli occhi spenti, colle guance infossate, coi baffi brizzolati prima del tempo, con dei calzoni troppo corti che a mala pena m’arrivavano alla caviglia e facevan vedere la gomma delle mie miserabili scarpe, colla giacchetta consumta a un gomito e con l’altro rappezzato, e in capo un cappello a forma di «armonica», scendevo a valle per una strada lunga, larga e diritta, colla testa china, piena di pensieri molesti e sotto il braccio un cocomero immenso, di quelli rotondi, a fasce verdi e gialle, che si dicon «turchi»... Entrai nel cortile piantato a fiori ed alberi fruttiferi di un gran fabbricato, che sporgeva dal fianco di una chiesa e subito uno stuolo di bambine tra gli otto e i dieci anni mi vennero incontro correndo. Una, piccola come un cucchiaio e irrequieta come una goccia d’argento vivo, le sorpassò tutte, mi gettò le braccia al collo, mi baciò, o, per meglio dire mi morse il viso e gli orecchi, saltò quindi a terra svelta come una cerbiatta, prese il cocomero ch’era più grande di lei, Io gittò a terra, sì che si fece in cento pezzi; prese quindi il più grande e cominciò a rosicchiarne la polpa, affondandovi fino alle sopracciglia il visino di bimba golosa. Di tanto in tanto, gittava verso di me, al disopra del margine dell’enorme fetta, uno sguardo de’ suoi occhi grandi, neri e pieni di gioia innocente; il succo le colava dal mento sul petto e dal petto a terra... Quando alzò la testa per riprender fiato, era tutta impiastricciata nel volto e un seme nero di cocomero le era rimasto appiccicato in punta al naso...

Una sola volta ho rimpianto in vita mia di non esser pittore...