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lo avverte che è scampato dal pericoloso e che, prima di tornare colà donde è venuto, può farvi una tappa, per incontrare o attendere altri viaggiatori e non ripartirsene solo... Cinque croci stavano davanti ad esso: due di pietra e le altre scolpite in legno di quercia, decorate e dipinte d’immagini sacre; tutti segni che dicevano al viandante che quello era un luogo benedetto; che dove si vedeva una croce come questa, lì un uomo si era procurato una felicità o aveva scongiurato un pericolo.

Benedetto questo luogo fu quando vi giunse il nuovo oste con la sua giovane sposa e con la vecchia suocera: infatti essi non ricevevano il viaggiatore come un estraneo proveniente da un posto qualsiasi, ma come un amico atteso da tanto tempo in casa loro. Erano appena trascorsi alcuni mesi dal giorno di San Giorgio (1), e i viaggiatori più pratici non dicevan più di far tappa al Mulino della Fortuna, ma all’osteria di Ghitza: che tutti sapevano chi fosse Ghitza e dove avesse dimora: là in basso, dove la strada cominciava a salire, in quei posti pericolosi non c’era più il Mulino della Fortuna, ma l’Osteria di Ghitza.

Ancora una volta iter Ghitza, l’osteria era della Fortuna. Quattro giorni per settimana, dal Martedì sera al Sabato, questa era continuamente piena, tutti si fermavano all’Osteria di Ghitza, ognuno prendeva qualcosa e pagava onestamente.

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Qualche volta all’osteria di Ghitza venivano i porcai, uomini alti e ben fatti, con la camicia nera, i capelli lucenti di grasso e cadenti in trecce lunghe e ritorte intorno al collo nudo: erano uomini anch’essi, ma uomini rispettabili, uomini che mangiano, bevono e pagano.

Un giorno di Lunedì, ne giunsero tre in una carretta dalle assi di ferro, tirata da due cavalli, uno più alto dell’altro.

...Essi chiesero se fosse passato il «Samadău» (capo dei porcai), misero un servo a staccare i cavalli, per farli bere e dar loro l’avena, e se n’andarono con un saluto di «buona fortuna».

— Bene, ma non hanno pagato! — gridò la vecchia perplessa.

— Zitta, mi sono inteso io con loro — rispose Ghitza, e andò fuori perchè nessuno gli scorgesse il volto e perchè sua moglie non gli chiedesse che cosa aveva.

Poco dopo giunse al Mulino il famoso Lica il «Samadău».

Lica era un uomo di trentasei anni, alto, secco, dai lineamenti decisi, dai lunghi baffi, dagli occhi piccoli, verdi e dalle sopracciglia folte e ravvicinate al centro. Lica era porcaio, di quelli che portan la camicia fine e bianca coi fiorellini ricamati, il panciotto coi bottoni d’argento, la frusta di cuoio con l’impugnatura d’osso, ornata di fiori incisi e di ricami d’oro.

Egli fermò il suo cavallo davanti all’osteria, gittò un’occhiata su Anna quindi un’altra sulla vecchia: le due donne sedevano su di una panca presso la grande tavola all’ombra della tettoia; gittò ancora un’occhiata all’interno, poi domandò dove fosse il padrone.

— Siamo noi! — rispose la vecchia alzandosi.

— Lo so — rispose Lica — - ma credo che ci saranno anche degli uomini, qui, chiedo dell’oste; con lui voglio parlare.

Lica disse queste parole in modo da far capire che aveva fretta e non voleva dilungarsi a parlare; la vecchia allora se n’andò senza indugio