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a cercar Ghitza ed Anna rimase, guardando come un bambino timido l’uomo che le stava davanti a cavallo diritto come una colonna di marmo.

— È morto l’ungherese? — domandò non appena vide Ghitza.

— Sì.

— Sei qui dal giorno di S. Giorgio?

— Sì — rispose Ghitza, gittando uno sguardo furtivo sulle donne per vedere se fossero agitate.

— È Ghitza mio genero — disse la vecchia, — e sia ringraziato il Signore, le cose vanno bene da quando siamo qui.

Lica si lisciò sorridendo i baffi tra le labbra.

— Qui — disse — va bene per tutti coloro che son saggi. Non son passati di qui alcuni uomini?

— Certo — rispose Ghitza pensieroso — siamo sulla strada e passa molta gente.

— Si tratta di tre uomini...

— Come no? — strillò la vecchia — quei tre porcai che han bevuto e mangiato e non han pagato!

— Se non han pagato — gridò Lica passandosi ancora i mustacchi fra le labbra — era perchè sapevano che sarei venuto io a pagare per essi.

Dicendo ciò, egli discese di sella e fece segno a Ghitza di entrar con lui nell’osteria per pagare il debito.

— La vecchia è sempre più saggia di me — pensò Ghitza ed entrò ben disposto dietro l’altro.

— La vecchia avrebbe potuto tacere — disse Lica, quando si vide solo con l’oste — Mi conosci?

— No — rispose Ghitza divenuto di ghiaccio in tutto il corpo.

— Allora mi conoscerai di nome. Io sono Lica il «samadeu». Si dicono molte cose intorno alla mia persona, e tra queste molte ce ne saran di vere e molte di inventate... Avrò fatto quello che ho fatto, non si tratta di questo, ma, ho sempre fatto così e ognuno può credere quello che vuole... Ho una gran responsabilità: debbo render conto di ventiquattro branchi di porci. Mi hai capito? Io voglio sapere chi passa di qui, che dice e che fa, e voglio che nessun altro all’infuori di me ne sia informato. Credo che ci siamo intesi!

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Ghitza era intelligente e capiva quello che accadeva.

Lì, al Mulino della Fortuna, non poteva rimanere alcuno senza il beneplacito di Lica; oltre il fittavolo e la polizia, c’era anche lui, Lica, a spadroneggiar sulle strade e invano ti saresti inteso col fittavolo, invano avresti fatto buon viso al Commissario; per poter restare al Mulino della Fortuna bisognava esser della banda di Lica. E Ghitza aveva assolutamente bisogno di restare al Mulino, perchè gli affari gli andavano bene.

(Trad. di Cesare Rubetti, Perugia-Venezia,
«La Nuova Italia», 1930, pp. 5 sgg.).


Uno scrittore che del culto della forma, inteso non come vano artifizio stilistico, ma come freno e laboriosa ricerca dell’espressione più chiara e più concisa, si fece un vero tormento,