La Colonia Eritrea/Parte III/Capitolo XIX
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CAPITOLO XIX
BATTAGLIA D’ADUA
(1 Marzo 1896).
Dalle alture di Saurià, di Addi Dichi e di Zalà la sera del 29 febbraio 1896 Baratieri faceva avanzare il corpo d’operazioni in direzione di Adua, disponendolo su tre colonne parallele di brigata, ed un’altra di riserva, costituite nel modo seguente:
Colonna di sinistra
Brigata indigeni (Magg. Gen.le Albertone)
Quattro battaglioni indigeni (1.° Turitto, 6.° Cossu, 7.° Valli, 8° Gamerra) | Fucili | 3700 |
Bande dell’Okulè Kusai (Sapelli) | » | 376 |
Una batteria (1. Henri) e la 2.a sezione della 2.a batteria (Vibi) di artiglieria da montagna indigena | Cannoni | 6 |
Due batterie da montagna italiane (3.a Bianchini e 4.a Masotto) | » | 8 |
Colonna centrale
1.ª Brigata di fanteria (Magg. Gen.le Arimondi)
Un reggimento bersaglieri (1.º Stevani) con 2 soli battaglioni (1.º De Stefani e 2.º Compiano 1 | Fucili | 773 |
Un reggimento fanteria (2.º Brusati) con 3 battaglioni (2.ª Viancini, 4.ª De Amicis, 9.ª Bandini) | » | 1500 |
Una compagnia indigeni (1.ª Pavesi del 5º battaglione) | » | 220 |
Due batterie da montagna, italiane (8.ª Loffredo, 11.ª Franzini2) | Cannoni | 12 |
Colonna di destra
2.ª Brigata di fanteria (Magg. Gen.le Da Bormida)
Due reggimenti di fanteria su tre battaglioni ciascuno, cioè | ||
3.º reggimento (Bagni) coi battaglioni, 5.º (Giordano) 6.º (Prato) 10.º (De Fonseca) | Fucili | 1310 |
6.º reggimento (Araghi) coi battaglioni 3.º (Branchi) 13.º (Rayneri) 14.º (Solaro) | » | 1330 |
Un battaglione di M. Mobile indigeni (De Vito) | » | 950 |
Una compagnia del Chitet di Asmara | » | 210 |
Tre batterie da montagna italiane (Zola) cioè 5.ª (Mollino) 6.ª (Regazzi) 7.ª (Gisla). | Cannoni | 18 |
Colonna di riserva
3.ª Brigata di fanteria (Magg. Gen.le Elena)
Due reggimenti di fanteria su tre battaglioni ciascuno, cioè | ||
4.º reggimento (Romero) coi battaglioni 7.º (Montecchi) 8.º (Violante) 11.º (Manfredi) | Fucili | 1380 |
5.º reggimento (Nava) con un battaglione Alpini, (Menini) ed il 15.º (Ferraro) ed il 16.º (Vandiol) di fanteria | » | 1550 |
Un battaglione indigeni (3.° Galliano) | Fucili | 1150 |
Mezza compagnia del genio | » | 70 |
Due batterie a tiro rapido (De Rosa) cioè 1.a (Aragno) 2.a (Mangia) | Cannoni | 12 |
Erano dunque in tutto 14519 fucili e 56 pezzi d’artiglieria (con una forza complessiva di circa 17500 uomini, dei quali 10450 italiani ed il resto indigeni3 che andavano a sfidare l’intero esercito Scioano forte di più che 80000 fucili, 10000 cavalli e 42 pezzi d’artiglieria, senza contare lo sterminato numero di seguaci dissarmati ed armati di sole lancie, pronti a riempire i vuoti ed a prestar tutti i servizi indispensabili pei combattenti.
Il terreno che si stende tra Saurià e Adua è costituito da una serie intricata di alture e di avallamenti che si annodano allo spartiacque tra il bacino del Mareb e quello del Taccazzè.
Le acque del primo versante sono raccolte in questa regione dal Mai Cherbara od Unguio, e quelle del secondo dal Farras Mai, e dal Mai Ciò e da alcuni rami orientali del Gurungura, tutti tributari dell’Ueri.
Il suolo, sconvolto da antichi fenomeni tellurici, offre gli stessi caratteri fisici speciali e e lo stesso aspetto alpestre e selvaggio di quello in generale della regione etiopica: verdi valli coperte di una ricca vegetazione tropicale, e sul cui fondo spesso serpeggia e si perde qualche ruscello pantanoso; pendii scoscesi dirupati e brulli, cosparsi d’anfratti, di burroni e crepacci; strette e tortuose gole tagliate nella viva pietra, passi angusti, erti e difficilissimi, e sommità granitiche che s’elevano al cielo nelle più strane forme e dimensioni: la superficie sembra un mare tempestoso mosso dall’ira di Dio.
Pochi villaggi ma frequenti capanne s’incontrano sulle medie alture; spessi campi coltivati e verdi pascoli nei declivii e nei piani, folte macchie e boscaglie nei fondi, sparse intorno molte euforbie e mimose e ulivi selvaggi e ginepri e qualche gigantesco sicomoro.
Le strade che percorrono la regione sono poche e difficilissime, e quasi tutte serpeggiano sul fondo della vallata e dei torrenti, i quali durante la pioggia le allagano e le devastano ingombrandole di sassi e di ammassi rocciosi che ne tolgono perfino le traccie.
A circa 12 chilometri a est di Adua ed a 24 da Saurià, un ordine di tre ammassi montani disposti quasi ad arco verso la capitale tigrina, viene a sbarrare la maggior parte delle strade che ne derivano costringendole a passare sui fianchi dell’ammasso centrale.
Questo è il Raio e gli altri due sono il Semaiata a sud che spinge verso il Raio un suo contrafforte detto Monte Caulos, formando contro di esso un colle detto da Baratieri di Chidane Meret; e a nord sono i monti d’Esciasciò che serrano contre il Raio il così detto colle del Rebbi Arienni.
Questa, secondo gli intendimenti del Comandante in capo, avrebbe dovuto essere la linea di posizioni da occuparsi, come primo obbiettivo, dalle 4 brigate; ed è convinzione ormai generale che essa costituisse quanto di meglio poteva offrire quello scacchiere tattico, e che dalla stessa il nostro corpo d’operazioni avrebbe potuto resistere con certo successo all’urto dell’intero esercito scioano; tuttavia non era ottima.
Prima di tutto perchè il terreno ad essa antistante era troppo frastagliato e coperto e non offriva largo campo di tiro, e permetteva tra le ondulazioni ed i burroni ed i frequenti angoli morti l’avanzata nascosta anche per numerosi gruppi nemici; in secondo luogo perchè se l’aggiramento tanto usato dagli Abissini era difficile e quasi impraticabile da sud, girando intorno all’immenso Semaiata, sarebbe invece riuscito più facile da nord a traverso i monti d’Esciasciò, per quella via che fu più tardi tenuta dalla brigata Da Bormida in ritirata.
Ma se anche la posizione prescelta dal Baratieri, senza essere ottima, poteva ritenersi buona, la fatalità volle che in seguito ad una sequela di equivoci e d’errori non se ne potessero ritrarre quei vantaggi che essa offriva.
Le tre colonne di marcia iniziarono il loro movimento dalle rispettive posizioni contemporaneamente alle ore 21, percorrendo, quella di destra la via principale che dal colle di Zalà per quello di Guldam conduce al Rebbi Arienni; la centrale quella meno importante che da Addi Dichi per la conca di Gandapta conduce dietro il Raio; la colonna di sinistra la più difficile e tortuosa che da Saurià tra Addi Cheiras e Zattà conduce al colle a Sud del Raio stesso.
La riserva col Comando in capo seguirono la colonna centrale, partendo dall’accampamento un’ora dopo.
Ma dopo la mezzanotte, occorse a turbare l’ordine di marcia un improvviso disvio della brigata indigeni, la quale nel percorrere una strada tortuosa e difficilissima venne a trovarsi in testa alle due brigate centrali obbligandole a soffermarsi per più di un’ora e mezzo.
Albertone, fu sollecito a rimettersi nella buona via, ma nell’accelerare il passo per disincagliare le altre due brigate, perdette il loro contatto e non lo potè più riacquistare.
Avvenne così che alle tre e mezzo circa la brigata indigeni venne a trovarsi a sud del Raio, nella posizione detta da Baratieri colle Chidane Meret, completamente isolata dalle altre due che appena allora riprendevano la marcia.
Su quel colle maledetto, che non si sa ancora come si nomini, si maturò la causa principale del disastro.
Quivi Albertone sostò per circa un’ora, aspettando invano sulla destra l’arrivo della brigata Arimondi, che era ancora molto indietro; poscia impressionato dal proprio isolamento, poco illuminato dallo schizzo inesatto e dall’ordine mal concepito, attenendosi alle informazioni di guide che affermavano essere il colle Chidane Meret ancora più avanti di circa 7 Km. in direzione di Adua, finì per avanzare colla sua brigata verso quella volta.
La responsabilità di questa avanzata fatale, che ebbe poi delle conseguenze così funeste, da alcuni e da Baratieri stesso venne attribuita esclusivamente al generale Albertone.
Però non mancano altri i quali ritengono che egli debba andarne esente, attribuendola invece alle imperfette disposizioni emanate dal comandante in capo.
Invero l’ordine del giorno e lo schizzo del comando sembrarono fatti a posta per generare l’equivoco.
L’ordine parla di occupare la posizione formata dai due colli Chidane Meret e Rebbi Arienni posti tra il Semaiata e l’Esciasciò e non fa parola che essi siano attigui al Raio; nello schizzo invece i due colli sono disegnati sui fianchi sud e nord del Raio e contro i due monti predetti.
Secondo invece lo schizzo ufficiale più recente, compilato con maggiore esattezza durante il seppellimento dei morti, e secondo anche quello pregevolissimo che in tale occasione disegnò ed illustrò con stupende levate fotografiche il valente scrittore ed artista E. Ximenes, non solo il famoso colle Chidane Meret non risulta a sud del Raio, ma neppure questo monte si trova proprio a contatto del Semaiata, il quale eleva la sua gran massa centrale a non meno di tre chilometri più a sudovest del Raio contro cui invece spinge soltanto un suo contrafforte orientale detto Monte Caulos, di cui non si fa parola nè sullo schizzo nè sull’ordine predetto.
Risulta parimenti dai predetti documenti che le pendici del Semaiata si protendono sovra un’immensa base, spingendosi anche in direzione nord-ovest verso un monte antistante al Raio di circa 7 Km. detto Enda Chidane Meret, sul cui fianco settentrionale sta il grande varco che sarebbe il solo ed il vero colle Chidane Meret, donde si sbocca nella conca d’Adua.
Chi considera queste circostanze e questi dettagli, chi si fa un’immagine del laberinto montano e degli strani contorcimenti delle vallate e delle vie e delle difficoltà di ben dirigersi e di discernere fra esse le località, dovrà senza dubbio andar cauto prima di incolpare Albertone, se seguendo uno schizzo ed un’ordine imperfetto, fu tratto ad avanzare verso una posizione che per la sua forma e la sua località poteva ancora ritenersi quella voluta dal Comandante in capo, e per la sua denominazione lo doveva.
Apparirebbe invece più evidente, se non dovuto ad ordini o disposizioni speciali ora non conosciute, il suo errore di aver perduto quel collegamento che è tassativamente prescritto dal regolamento sul servizio in guerra.
Qualunque sia stata la causa, l’effetto senza dubbio fu quello che mentre alle 5 1/2 circa la brigata Da Bormida giungeva senza inconvenienti al Rebbi Arienni, e verso le 6 anche quella di Arimondi con a tergo la riserva ed il Quartiere Generale, arrivava presso il Raio, il generale Albertone proseguiva cogli indigeni verso il lontano colle Chidane Meret. Precedeva la marcia il battaglione Turitto distaccato in avanguardia, il quale, alla sua volta essendosi spinto un pò troppo avanti, penetrava pel colle Chidane Meret fino quasi nella conca d’Adua, dove urtava cogli avamposti nemici.
*
Baratieri giungeva al Rebbi Arienni verso le ore 6; e v’incontrava il suo capo di stato maggiore colonnello Valenzano ed il Generale Da Bormida che erano preoccupati per non aver trovato il contatto della brigata Albertone. Però, sebbene dall’inconveniente già successo nella marcia e dalla grande mobilità delle truppe indigene, quella brigata dovesse ritenersi piuttosto avanti che indietro delle altre, ciò parve impensierire poco il Comandante in capo, che si limitò a mandare messi ed esploratori in giro per rintracciarla, senza ordini positivi di farla retrocedere alla posizione designata.
Se non che tutto ad un tratto mentre è intento a riconoscere il terreno intorno al colle, gli giunge all’orecchio un lontano crepitio di fucilate in direzione sud-ovest, che tradisce una distanza di oltre 5 chilometri almeno e che fa dubitare di uno scontro della brigata Albertone col nemico.
Questo primo indizio di lotta che fa palpitare tanti cuori e che richiama i pensieri e gli sguardi di tutti verso la sua direzione, mentre fa più vive le ansie intorno alla brigata indigeni non riesce a provocare disposizioni risolute dal Comandante in capo.
Egli non prevedendo i pericoli e le conseguenze che potevano derivare dall’enorme distacco ormai evidente di quella brigata, non seppe o non volle determinarsi a richiamarla in fretta sotto al Raio, od a farvela ripiegare gradatamente, combattendo ma senza esporsi troppo, e mantenendo il contatto del nemico, ciò che si era ancora in tempo tanto di ordinare, quanto di eseguire, e che avrebbe probabilmente attirato il nemico ormai impegnato, sotto le forti posizioni del Raio e dei due colli adiacenti, donde colle altre tre brigate fortemente appostate e schierate e munite di poderose artiglierie, sarebbe stato certamente soffermato e respinto.
Ma a questa decisione risoluta che avrebbe potuto trarre vantaggio anche dal disvio della brigata indigeni, Baratieri preferì per qualche tempo di aspettare che la situazione si rischiarasse.
Egli prima attribuì le fucilate a qualche pattuglia o centuria spintasi troppo avanti e non vi diede grande importanza; poscia quando s’accorse che il rumore delle fucilate si faceva più vivo ed insistente, piuttosto che pensare a delle misure di prudenza e di sagacità, facendo ritirare la brigata indigeni, preferì mandargliene un’altra in soccorso, e, ciò che è peggio, la diresse male.
Erano circa le 6 3/4 quando Baratieri chiamò Da Bormida e gli diede ordine di avanzare sulla destra per dar una mano ad Albertone.
Certamente l’avanzata anche isolata della brigata Da Bormida, quantunque assai arrischiata e pericolosa, avrebbe potuto arrecare un potente soccorso a quella indigeni e molto probabilmente concorrere, come si vedrà poi, a determinare il successo delle nostre armi; ma era destino che anche da quest’ordine di Baratieri dovesse derivare un equivoco fatale.
Il generale Da Bormida iniziò la sua marcia verso le ore 7 dal colle di Rebbi Arienni facendosi precedere dal battaglione di M.M. del maggiore De Vito, ma dopo qualche chilometro, invece di obbliquare a sinistra in direzione della brigata indigeni, fu attratto dalle condizioni del terreno e dallo svolto della via o forse anche dalle imperfette indicazioni ricevute, ad obbliquare verso destra, e venne a sboccare nella lontana valle di Mariam Sciavitù ove rimase isolato completamente dalle altre brigate, e sul cui fondo sboccante nella conca d’Adua ai piedi di un’amba solitaria vide biancheggiare ed agitarsi un vasto accampamento nemico.
Anche le cause che determinarono questo equivoco non sono ancora conosciute.
Baratieri, nel suo libro di memorie, afferma che l’ordine da lui dato a Da Bormida era di avanzare sulla destra per dare una mano alla brigata indigeni, e più specialmente di avanzare per quello sperone di Belàh sul quale il Da Bormida stesso era già stato ad esplorare.
A parte però che quest’ordine indefinito, per chi ignorava la vera posizione della brigata suddetta, non aveva sufficiente chiarezza, e considerando anche che nel davanti dello sperone di Belàh invece di strade e di terreni praticabili si ergeva la dorsale perpendicolare tra la valle del Latzate e quella di Mariani Sciavitù, dorsale che difficilmente poteva essere percorsa dai battaglioni bianchi e dall’artiglieria, può darsi che Da Bormida, abbia cercato di congiungersi ad Albertone tentando un aggiramento per la seconda delle predette valli; e che questa mossa sia poi stata fermata ed impedita dai nemici apparsi in fondo alla valle.
Riesce strano però, che gli ordini e le disposizioni emanate da Baratieri prima e durante lo svolgersi della battaglia, abbiano avuto il difetto capitale di generare tanti equivoci, ed abbiano avuto l’effetto di fargli sfuggire di mano due terzi di quell’esercito che il Re e la Patria avevano affidato al suo comando ed alla sua suprema ed assoluta responsabilità.
Non rimanevano ormai più a disposizione di Baratieri che la brigata di riserva Ellena e quella più piccola di Arimondi, la quale inoltre dovette assotigliarsi ancora distaccando a destra, sulle alture dei monti d’Esciasciò, il 4.° battaglione (De Amicis) e la compagnia indigeni (Pavesi), che attratti poi nella sfera d’azione della brigata Da Bormida non poterono più ricongiungersi alla propria.
Da un alto poggio dei monti d’Esciasciò il generale Baratieri, osservando col cannocchiale laggiù verso Adua, può alfine convincersi non solo che l’attacco nemico si è fatto più vivo e sta impegnando completamente la brigata indigeni, ma che anche in fondo all’ampia valle di Mariam Sciavitù si nota un forte brulichio di Abissini che minacciano la destra italiana.
Allora soltanto, ed era già troppo tardi, essendo circa le 8 1/4, Baratieri si decide di schierare in battaglia anche le due brigate centrali.
Ad ovest di monte Raio, si eleva una secondaria diramazione montana detta dei monti di Belàh, che ha origine contro il fianco meridionale del Raio e presso le falde del monte Caulos, contrafforte del Semaiata, e dopo aver pronunciato un ampio dosso quasi di fronte al Raio mantenendosi da esso distante circa 400 m., si deprime e ripiega verso nord-ovest risollevandosi poi nel largo sperone Belàh già nominato, che va a terminare contro la via del Rebbi Arienni a circa 800 metri dal detto colle.
Nella depressione tra le due prominenze, passa un sentiero che dipartendo dal Rebbi Arienni conduce traversando verso Abba Garima ed Adua; altro sentiero scorre nell’insellatura tra la linea dei Belàh ed il Raio congiungendo i due colli laterali a questo monte, mettendo cioè in comunicazione la via principale del Rebbi Arienni che conduce ad Adua per la valle di Mariam Sciavitù, con quella secondaria passante a sud del Raio, per la quale la brigata indigeni si era avanzata contro il nemico.
L’insellatura tra il Raio e la diramazione dei Belàh si apre vasta ed elevata verso sud e sud-ovest, dominando la via proveniente da Adua e i fianchi nord-ovest del monte Caulos; si restringe poi tra il dosso antistante al Raio e il Raio stesso, e si riapre poscia ancora più larga, ma più bassa, tra il Rebbi Arienni ed il secondo sollevamento o sperone dei Belàh. Il pendio occidentale di questi monti discende ripido e in certi punti quasi a picco nella valle ristretta e frastagliata del Mai Avollà, piccolo rigagnolo scorrente verso nord e che sbocca per una stretta gola sulla via del Rebbi Arienni.
E davanti al Mai Avollà, a destra s’erge il rosseggiante monte Derar che ne chiude quasi lo sbocco contro lo sperone di Belàh; e quindi si svolge verso sinistra il largo e basso ciglio di Addi Vecci che si protende fin contro il Semaiata, rinchiudendo verso ovest un’altra vallata parallela al Mai Avollà, ma scorrente in direzione opposta, detta del Latzate; la quale è limitata verso Adua dai contrafforti di Abba Carima, cioè dai monti Latzate ed Enda Chidane Meret, e da quelli di Amba Scelloda detti monti Gususò e Nasraui, e chiusa a nord dai fianchi di quest’ultimo e dal monte Derar che la separano da quella di Mariam Sciavitù, scorrente perpendicolarmente sulla destra verso Adua.
Il suolo che si stende tra queste linee di alture e queste valli è brullo e roccioso sulle vette e sui fianchi, rigogliosissimo e aquitrinoso nelle vallate dove crescono boscaglie macchie e cespugli, ed erbe foltissime aggrovigliate che impediscono la vista ed il cammino; i fianchi delle alture costituiscono frequenti angoli morti di tiro e la sinuosità del terreno e l’intrico degli avallamenti e dei declivii permette le avanzate al coperto, specialmente per truppe agili e di color terrigno come le abissine.
È questo, a brevi tratti, il territorio ove si svolsero le fasi dell’epica lotta.
La posizione prescelta da Baratieri per schierare la brigata Arimondi, fu la testata sud dell’insellatura tra il Raio e i monti di Belàh nonchè i fianchi dei monti stessi prospicienti verso la via di Adua.
La brigata Ellena venne invece disposta parte dietro il Raio e parte presso il colle Rebbi Arienni, in riserva.
Intanto che queste due brigate cominciavano ad eseguire il movimento ordinato dal comando in capo, laggiù oltre Addi Vecci e presso il colle Chidane Merot (tra questo monte e l’Amba Gususò) succedeva una lotta tremenda.
Il generale Albertone, quando si accorse che il 1.° battaglione (Turitto) si era avventurato nella conca di Adua e che si era impegnato colle truppe scioane, non stimò prudente di avanzare in suo aiuto, ma si dispose invece a sostenerlo, appostando la sua brigata sovra una linea di medie alture che guardano ad arco l’imboccatura del colle predetto a circa 2000 m. e che offrivano buone posizioni per l’artiglieria.
Questa (3 batterie con 14 pezzi in tutto) fu piazzata al centro; a destra dell’artiglieria prima l’8.° battaglione e poi il 6.°; a sinistra il 7.°. Alcune centurie indigeni e le bande furono spinte sui fianchi e sulle alture laterali al valico.
Le truppe d’Albertone erano appena schierate, quando verso le ore 8 1/2 si videro per l’insellatura tra i due monti ritirarsi gli avanzi disfatti del battaglione Turitto, il quale dopo aver sostenuto per oltre un’ora un accanitissima lotta cogli avamposti nemici era stato assalito da una grande massa, e costretto a ripiegare, inseguito alle calcagna da grossi stormi nemici che ne facevano strage.
In breve le truppe indigene del centro dovettero aprire il fuoco contro la massa degli inseguenti, la maggior parte dei quali fu costretta a soffermarsi e a ripiegare; ma dei nuclei di nemici riuscirono a sfilare coperti tra le sinuosità, i serpeggiamenti, e le fitte boscaglie del suolo, lanciandosi dietro ai superstiti del battaglione Turitto, ricacciandoli a tergo della brigata ed inseguendoli sulla via del Raio.
Quasi contemporaneamente, cominciarono ad apparire delle truppe nemiche sulle vette e sui fianchi laterali al colle, chiamando in lizza anche i reparti d’ala della brigata, la quale in breve tempo si trovò impegnata completamente contro il nemico.
La lotta si fa terribile e micidiale. I 14 pezzi d’artiglieria ed i tre battaglioni indigeni con tiri ben aggiustati respingono per ben quattro volte la grande massa minacciante dal colle, e ne fanno strage; ed anche gli altri reparti di ala si sostengono con successo.
Nel fitto della mischia cadono fulminati ras Gabeiù e molti altri capi scioani, determinando il panico e lo sgomento nelle file nemiche; e Albertone, raggiante, le rincalza e si dispone già ad inseguirle sperando di essere sostenuto dall’atteso arrivo delle altre brigate; ma la sua speranza rimase delusa. Gli Abissini apostrofati dai capi e incoraggiati dalla conoscenza ormai piena delle poche forze che hanno di fronte, si rinvigoriscono e ritornano all’assalto; e mentre con oltre 10,000 uomini ritentano di sfondare la posizione del colle, da Abba Carima e dal Latzate con una altra massa quasi doppia e sostenuta dall’artiglieria della regina Taitù, irrompono improvvisamente contro l’ala sinistra della brigata indigeni, respingendola fin contro le falde del Semaiata.
Poco appresso un’altra valanga nemica di oltre 35,000 uomini, da una depressione tra i monti Gususò e Nazraui, precipita in basso dalla destra, e rovesciando l’altra ala della brigata, va a puntare verso il Raio e verso il Rebbi Arienni.
All’urto improvviso di tante forze, la brigata indigeni oppone un’accanita resistenza tirando a salve ed a mitraglia e contrattaccando con spessi assalti alla baionetta; ma in questa lotta disperata subisce grandi perdite che cominciano a produrre qualche disgregamento e sbandamento tra le file. Il 7° e l’8° battaglione resistono ancora fin verso le ore 11, ma poscia, avendo perduti quasi tutti gli ufficiali, sono sopraffatti e travolti dall’immensa fiumana che li avvolge; lo stesso fa il 6.° battaglione qualche minuto dopo; l’artiglieria invece non vuol saperne di ritirata. Essa continua il suo fuoco micidiale finché i 14 pezzi hanno esaurito tutte le munizioni; e poscia lotta a corpo a corpo e non s’arresta e non li cede se non quando è rimasta quasi completamente priva d’ufficiali, di serventi e di quadrupedi.
Alle 11 1/2 la brigata Albertone era completamente disfatta ed i suoi avanzi laceri e scompigliati, privi del Comandante rimasto prigioniero in prima linea, e della maggior parte dei graduati, morti sul campo, seguirono le orme dei superstiti del battaglione Turitto verso il Raio e verso Saurià.
* *
Mentre la brigata Albertone sosteneva da sola l’urto delle masse scioane provenienti dalla conca d’Adua, intorno al Raio ed al Rebbi Arienni si stavano schierando le due brigate Arimondi ed Ellena.
Si è già detto che verso le ore 8 1/4 Baratieri aveva ordinato ad Arimondi di portarsi colla sua brigata per l’insellatura tra i monti di Belàh ed il Raio, ad occupare la testata di essa appoggiandosi alle alture laterali.
Questa piccola brigata disponeva soltanto di due battaglioni bersaglieri (reggimento Stevani) di due battaglioni fanteria (reggimento Brusati) e di una batteria di 6 pezzi (Loffredo), avendo già distaccato sui monti d’Esciascio il 4.° battaglione (De Amicis) e la compagnia indigeni del capitano Pavesi che non poterono più congiungersele, e non essendo allora ancora arrivata la batteria Franzini da Mai Maret assegnata alla stessa. Contava in tutto soltanto 1773 fucili e 6 pezzi d’artiglieria; e con questa esigua forza si apprestava a sostenere la ritirata della brigata Albertone e l’urto centrale delle enormi masse scioane.
In pari tempo la brigata Ellena forte di 4150 fucili e 12 cannoni a tiro rapido, prendeva posizione di riserva tra il Raio e il Rebbi Arienni col 4.° reggimento (Romero) presso questo colle, ed il 5.° (Nava) dietro le falde nord-est del Raio.
La fronte assegnata alle due brigate era di quasi tre chilometri; cioè la stessa fronte, che secondo il primitivo disegno di battaglia, avrebbe dovuto essere occupata dall’intero corpo di operazione.
La testa della brigata Arimondi giungeva all’estremo sud dell’insellatura predetta verso le ore 9 circa, ed era guidata dallo stesso Baratieri che faceva disporre il 2.° battaglione fanteria a destra sul pendio dei Belàh, ed il 9.° a sinistra sopra una scarpa prominente del Raio; quasi al centro tra essi prendevano posto la batteria ed il quartiere generale.
Era appena compiuto lo schieramento di questi pochi reparti, che si videro comparire sul davanti gli avanzi scompigliati del battaglione Turitto, inseguiti e cacciati in fuga da manipoli d’Abissini che sbucavano da tutte le parti, strisciando tra i massi ed i cespugli che coprivano il terreno, frammischiandosi ai vinti e uccidendoli senza pietà.
I due battaglioni e la batteria iniziarono subito il fuoco; ma il timore di colpire anche i nostri ascari rendeva il tiro debole ed inefficace.
Invano risuonarono nella vallata i segnali di tromba per soffermare e raccogliere i fuggiaschi, ed invano Baratieri spedì ufficiali e reparti ai piedi del Raio per richiamarli intorno a sè; quegli avanzi laceri e demoralizzati correvano all’impazzata imboccando il colle tra il Caulos ed il Raio, e si disperdevano in direzione di Saurià trascinandosi dietro dei nuclei di nemici, che riuscivano ad annidarsi nel piano di Gandapta, dietro il Raio.
Intanto sulla linea dei Belàh davanti al Raio veniva schierandosi anche il reggimento bersaglieri di Stevani, e l’inseguimento potè essere arrestato, ma per breve tempo.
Indi a poco ai fuggiaschi del battaglione Turitto cominciarono a far seguito i feriti e gli sbandati degli altri reparti indigeni; ed alle loro calcagna apparve furiosa la grande massa nemica di sinistra discesa da Abba Carima e dal Latzate, che in parte si precipitò contro il Raio ed in parte riescì ad annidarsi nella valle del Mai Avollà, minacciando il fronte e il fianco della nostra posizione.
Il combattimento si accende tosto vivissimo su tutta la linea, ma specialmente sulla sinistra. Quivi s’addensano le maggiori frotte nemiche, e in breve le condizioni del reggimento Brusati e della batteria si fanno critiche, così che Baratieri è costretto a chiamare in loro soccorso dalla riserva il battaglione Galliano e le due batterie a tiro rapido del maggiore De Rosa.
Ma, a far peggiorare le sorti italiane, ecco apparire improvvisamente da ovest e nordovest la grande valanga scioana discesa sulla destra dei nostri indigeni, la quale dopo aver urtato e distrutto un battaglione di Da Bormida (battaglione De Vito) sfilando sui fianchi del monte Derar, precipita quasi inosservata in fondo alla valle, donde muove all’assalto e all’aggiramento delle nostre posizioni e va ad impegnare anche il 4.° reggimento (Romero) allo stesso colle del Rebbi Arienni.
Invano a questa fiumana nemica s’oppone il colonnello Stevani, inviando il tenente colonnello Compiano con 2 compagnie ad occupare lo sperone di Belàh sulla sua destra e davanti al colle, ed invano anche il generale Ellena manda in aiuto dei bersaglieri il 15.° battaglione (Ferraro) del reggimento Nava.
Sull’altura maledetta e nei suoi fianchi è appostato già il nemico, e vi possono giungere soltanto una quarantina di bersaglieri col Compiano stesso e col capitano Fabbroni che, colpiti da tutte le direzioni e quasi a bruciapelo, vi lasciano miseramente la vita.
I resti delle due compagnie ed il 15° battaglione furono costretti a ripiegare.
L’occupazione di questo sperone per parte dei nemici ebbe un effetto disastroso per le nostre truppe, che si videro minacciate di aggiramento da tutte le parti, e costrette a rivolgere la fronte su tre lati, cioè sul davanti e sui due fianchi; ed anche a tergo di monte Raio si manifestavano già gli attacchi degli Scioani ivi penetrati nell’inseguire gli indigeni fuggenti, impegnando alcuni reparti del reggimento Nava.
Tuttavia si continuava a combattere strenuamente, specialmente sulla sinistra per parte del 2.° e del 9.° battaglione, del reggimento Brusati, e della batteria Loffredo. Quivi frattanto giungevano i rinforzi chiesti, cioè il grosso battaglione di Galliano, con circa 1150 fucili, e le due batterie a tiro rapido del maggiore De Rosa; ma mentre i battaglioni bianchi e le batterie si sostenevano eroicamente, e sul davanti i bersaglieri di Stevani facevano sforzi disperati di resistenza, il celebre battaglione indigeno di Makallè resisteva poco più di 20 minuti e poi si sbandava, lasciando i proprii ufficiali a morire sul Raio (ore 10 l/4 a 10 1/2).
Ignaro di quanto avveniva sul fianco e a tergo delle brigate, perchè l’aggiramento pronunciatosi rendeva difficili le comunicazioni fra i reparti, Baratieri chiedeva altri rinforzi alla riserva, ma potè solo ottenere 5 compagnie, cioè il 16° battaglione (Vandiol) ed una compagnia d’Alpini. Il colonnello Nava si pose bravamente alla testa di esse e le condusse ordinatamente combattendo verso la posizione di sinistra.
Ma questa frattanto si era fatta insostenibile. La disfatta già completa della brigata Albertone, verso le 11 1/2 aveva rovesciato contro le nostre posizioni un’altra massa nemica che premeva, assaliva ed avvolgeva da tutte le parti; nè gli eroici sforzi fatti dal 9° battaglione che rimaneva quasi distrutto e perdeva tutti gli ufficiali meno uno, e dal 2° battaglione e dalle tre batterie che lottavano ormai corpo a corpo col nemico, salito già sulle alture e penetrato tra i pezzi, erano insufficienti a trattenere l’urto dell’immensa orda scioana; ed anche sul fronte i bersaglieri di Stevani, sopraffatti dai nemici sbucanti dal vallone del Mai Avollà e colpiti di fianco da quelli appostati sullo sperone di Belàh, ripiegavano già. Baratieri, viste ormai disperate le sorti della battaglia, verso le 12 ordinava la ritirata.
Un urlo tremendo e feroce si leva allora da tergo; il nemico imbaldanzito e trionfante si lancia tosto all’assalto delle posizioni e dei pezzi (tra i quali cade gloriosamente il generale Arimondi) e se ne impadronisce; e perfino l’11a batteria (Franzini) giunta in quel momento da Mai Maret, dopo aver fatto un sol colpo e perduto subito il suo comandante, viene nelle loro mani; si getta poi all’inseguimento dei superstiti e di Baratieri, che tenta di riannodare qualche resistenza pugnando bravamente, ma è costretto a ripiegare dietro il Rebbi Arienni, inseguito e fulminato da presso, e trascinando seco le 5 compagnie del colonnello Nava accorse in suo aiuto4.
Quivi rimaneva ad ultima difesa l’eroico reggimento Romero, che malgrado le grandi perdite subite in più di 2 ore di accanito combattimento, facendo sforzi disperati di valore, permise che la ritirata avvenisse per qualche chilometro ancora in buon ordine. Ma verso le 12 1/2 anche quest’ultimo conato della gran lotta doveva cessare: il bel reggimento già sopraffatto e mezzo distrutto, e privato dell’eroico suo comandante, venne anch’esso travolto.
Allora l’aggiramento fatto completo, essendo preclusa ogni altra via di ritirata, costringeva i laceri avanzi delle due brigate ad aprirsi un varco verso nord-est, e ad internarsi lungo il triste vallone di Jehà dove aspettate al varco ne succedeva un efferato macello, e donde dopo infiniti stenti e perigli e tra continue lotte, agguati e rappresaglie di nemici e d’insorti e mille episodi strazianti di valore, di cameratismo, d’affetto e di pietà, ben pochi potevano riparare entro i vecchi confini della Colonia, dirigendosi a Adi Caiè, ad Asmara, o ad Adi Ugrì.
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Intanto che la brigata indigeni e quelle centrali combattevano eroicamente e poscia soccombevano schiacciate dall’enorme preponderanza scioana, isolata sull’estrema destra la brigata Da Bormida sosteneva una lotta brillante contro poderose forze nemiche.
Si è già detto che questa brigata verso le ore 7 si era avanzata oltre il Rebbi Arienni collo scopo di appoggiare quella di Albertone, e che dopo circa due ore di marcia, attratta dal terreno e dallo svolto della via era penetrata in un’ampia valle, in fondo alla quale presso un’amba solitaria, apparvero vasti accampamenti nemici.
La strada percorsa dalla brigata Da Bormida è la così detta grande via di Adua, la quale discende ripida e rocciosa dal colle di Rebbi Arienni dirigendosi prima tortuosamente verso ovest rinserrata tra i monti di Belàh e quelli d’Esciasciò, e poscia giunta contro i fianchi orientali di monte Derar, ripiega verso nord risalendo e fiancheggiando le alture di destra, donde per un altro colle ridiscende e sbocca, ancora verso ovest, nella bella vallata di Mariam Sciavitù.
Questa vallata dista di circa 6 Km. ad ovest del Rebbi Arienni, è larga dai 700 agli 800 metri e lunga circa tre Km; sulla sinistra, sud, è limitata da fianchi ripidi e scoscesi dei monti Derar, Nasraui e Gususò terminanti a speroni a balze e nude creste, che li rendono quasi impraticabili; e a destra dalle diramazioni occidentali dei monti d’Esciasciò. Il fondo della vallata è più basso verso sinistra ove è percorso da un piccolo rigagnolo, a tratti paludoso, e coperto da folte macchie; a destra invece, nella sua parte più larga si innalza a leggero pendìo di gradini sovrapposti. Il suolo è fecondissimo e coperto, specialmente in basso, di folte erbe alte più di un uomo; nella zona più elevata è sparso di piante e di cespugli; e ne abbondano anche sulle alture di destra.
La brigata verso le 9 1/2 si era appena ammassata in posizione d’aspetto sul principio della vallata, quando un vivo crepitìo di fucilate dalle alture di sinistra venne a scuoterla.
Era il battaglione di milizia mobile del maggiore De Vito, già distaccato in avanguardia insieme alla compagnia del Chitet di Asmara, che aveva urtato contro gli Scioani.
Questo battaglione aveva preceduta la brigata nella discesa dal Rebbi Arienni, ed arrampicandosi pei fianchi di Monte Derar aveva proseguito lungo la dorsale delle alture che rinchiudono verso nord la vallata di Mariam Sciavitù, appoggiando ad essa la compagnia del Chitet. Quindi, mentre questa spintasi quasi nella conca d’Adua, veniva assalita e ricacciata quasi distrutta nella vallata, si era diretto, attratto dal cannone, verso la brigata indigeni; ma nell’eseguire il movimento urtò nella grande massa scioana che proprio allora irrompeva sul fianco destro di detta brigata; e dopo una lotta accanita in cui caddero eroicamente il Maggiore stesso e la massima parte degli ufficiali, fu costretto a ritirarsi precipitosamente disordinato ed inseguito, cercando rifugio verso la valle di Mariam Sciavitù.
Il generale Da Bormida intuì subito la situazione e dispose che il 3° reggimento (Ragni) muovesse in soccorso del battaglione d’avanguardia, intanto che il 6° reggimento (Airaghi) e le batterie rimanevano in riserva al principio della vallata.
Il Colonnello Ragni prese con sè 6 compagnie del suo reggimento (6.° battaglione e 1a e 4a compagnia del 10°) e salì con esse arditamente sulle alture di sinistra, facendosi secondare nel movimento dalle altre 6 compagnie lasciate nel piano (5° battaglione e 2.a e 3.a compagnia del 10.°). Egli era appena giunto alla sommità, ove erano sparsi alcuni tucul o capanne abbandonate, che potè vedere nell’altro versante i tristi avanzi del battaglione De Vito ritirarsi, inseguiti dai nemici furenti che ne facevano strage. Senza por tempo in mezzo Ragni ordina l’assalto, e ponendosi alla testa delle sue sei compagnie, per ben due volte le guida imperterrito alla baionetta, riuscendo ad arrestare il nemico, e costringendolo poi col fuoco a riparare dietro ad uno sperone diagonale, protendentesi verso lo sbocco della vallata nella conca d’Adua.
Così i pochi superstiti del battaglione De Vito poterono rifugiarsi sulle alture di destra della vallata, congiungendosi cogli avanzi della compagnia del Chitet quivi raccolti.
Ma frattanto anche verso il fondo della vallata, tra le folte erbe ed i massi, cominciò a notarsi l’avanzare insidioso e nascosto di gruppi nemici tra cui scorazzavano anche numerosi cavalieri.
Da Bormida fece tosto avanzare l’artiglieria ed un battaglione (14°) del reggimento Airaghi all’altezza della posizione del colonnello Ragni, e quivi li schierò bravamente in battaglia, mentre il 3° e 13° battaglione rimanevano in riserva.
Erano circa le 11 e questo schieramento era appena terminato che il nemico appiattato nel fondo e sui fianchi della vallata, scoprendosi e urlando ferocemente, si avventava in massa contro le nostre truppe, preceduto da qualche centinaio di cavalieri che minacciavano più specialmente le artiglierie.
Ma nè l’assalto numeroso e compatto, nè le grida furenti e selvagge, valsero a smuovere di un passo le nostre truppe bianche che alzatesi in piedi e secondate anche dalle truppe di Ragni sui fianchi delle alture, accolsero gli Scioani con ripetute scariche a salve ed a mitraglia, costringendoli a ripiegare decimati.
Un fremito di gioia percosse l’intera brigata; quel primo successo infiammava gli animi alla vittoria ed eccitava fra le nostre truppe il più grande entusiasmo.
Il combattimento proseguì ancora, ma si fece più lento e poco micidiale, quantunque il nemico avesse appostato ed impiegasse da un’altura di sinistra alcuni pezzi d’artiglieria.
Ma frattanto un altro serio avvenimento si pronunciava da tergo.
Quivi il maggiore De Amicis, col suo 4.° battaglione e colla compagnia indigena del capitano Pavesi, era stato distaccato dalla brigata Arimondi a guardia del fianco destro sui monti d’Esciasciò, ed aveva occupato un poggio dominante sulla via del Rebbi Arienni; ma vistosi isolato dalla sua brigata, aveva pensato di secondare il movimento scendendo nella vallata e ponendosele in riserva. Se non che, appena compiuta la discesa, si accorse che numerosi gruppi nemici giravano attorno a quella posizione per occuparla e minacciare da tergo la brigata.
Ritornò allora il maggiore De Amicis sui suoi passi, ma quando stava per giungere al poggio, fu accolto da fucilate per parte di Scioani che lo avevano già occupato, e dovette riparare obliquando e combattendo dietro un recinto a secco di un’altra altura, dove malgrado coraggiosi sforzi, venne ben presto a trovarsi in critica condizione.
Questa prima minaccia a tergo della brigata impressionò il generale Da Bormida, il quale per disimpegnare il battaglione De Amicis ed assicurarsi la via della ritirata, gli spedì in aiuto tre compagnie del 13° battaglione (Rayneri).
Gli sforzi riuniti ed i vivaci assalti del 4.° e del 13.° battaglione riuscirono allora a sloggiare dalle alture dominanti i grossi stormi nemici che vi si erano annidati, ed a ricacciarli verso il Rebbi Arienni.
E fu buona ventura, perchè se il nemico riusciva a rafforzarsi in quella posizione a tergo, mentre di fronte e sui fianchi si pronunciavano già dei poderosi attacchi avvolgenti, la brigata da Bormida sarebbe rimasta rinchiusa in un cerchio di fuoco senza alcuna speranza di salvezza.
Il combattimento che dopo i primi assalti parve languire fin verso il mezzo giorno, fu dopo quest’ora ripreso più forte ed accanito.
Una parte della nostra artiglieria si è spinta sulle alture di sinistra dove ha trovato un’ottima posizione pei suoi tiri e donde produce nel nemico che si fa più fitto delle grandi perdite. Anche il 3° battaglione già di riserva è chiamato in linea verso il centro; sulle alture di destra seconda il movimento e comincia ad impegnarsi contro masse aggiranti anche la compagnia indigena Pavesi, alla quale si sono uniti un centinaio di superstiti della compagnia del Chitet e del battaglione De Vito.
Incominciano i brillanti assalti.
Airaghi del piano e Ragni dalle alture, ponendosi alla testa delle rispettive truppe e preceduti dal generale stesso, sempre in prima linea, le trascinano con mirabile slancio alla baionetta, e l’artiglieria li segue di posizione in posizione fulminando con colpi bene aggiustati le masse nemiche, le quali però non vogliono cedere. Da Bormida ordina un secondo assalto generale verso le ore 13 e questa volta riesce a spaventarle ed a metterle in iscompiglio ed a costringerle a ritirarsi precipitosamente al fondo della valle decimate dal fuoco ed in alcuni punti dalla lotta corpo a corpo.
«Vittoria Vittoria» si grida tra i nostri col più grande entusiasmo; ed i reparti si riordinano, si fanno più compatti, riempiendo i vuoti fatti dalle perdite, e riversano impavidi delle tremende scariche sul nemico fuggente che lascia il suolo coperto di cadaveri.
Fu questo il momento più bello e più solenne per la brigata, ma fu breve.
Gli animi erano ancora esaltati dall’entusiasmo del successo quando si manifestò improvviso un poderoso attacco nemico da tergo.
Erano le grandi masse vittoriose del Raio e del Rebbi Arienni che dopo l’eccidio delle brigate italiane del centro venivano a riversarsi contro quella di Da Bormida, impegnando fieramente i battaglioni De Amicis e Rayneri ed aggirando il fianco del colonnello Ragni.
Davanti a questo evento pericoloso e improvviso Da Bormida, che nulla ancor sapeva del comando in capo e delle catastrofe delle altre brigate, dovette pensare a cambiare la fronte di combattimento della sua.
A tale scopo fece ripiegare due batterie ed il 3° battaglione mandandoli ad occupare un altura a cono elevantesi sul fianco destro, (nord) della vallata, coll’incarico di fronteggiare l’imboccatura di questa e di difendere un’altra valletta ad imbuto che s’apriva lateralmente ai piedi dell’altura stessa, e per la quale si poteva trovare una seconda via di ritirata a traverso i monti Esciasciò.
Anche il colonnello Ragni dovette ritirare l’ala sua sinistra e fronteggiare le masse nemiche provenienti da sud.
Così la linea di combattimento della brigata venne a disporsi su tre fronti: cioè verso ovest contro la conca d’Adua, verso sud contro i monti di sinistra della vallata, e verso est contro l’imboccatura della stessa.
Contemporaneamente dalle alture a nord della vallata, costituenti il tergo della nuova fronte di combattimento, gli indigeni del capitano Pavesi erano costretti a ritirarsi davanti a masse aggiranti di ras Alula.
In breve la mischia si fa tremenda da tutte le parti. Dai fianchi dell’altura a cono le due batterie sostenute in basso dal 3° battaglione ed in alto dal 4° e 13° riescono a battere le orde nemiche ed a far sgombrare per un buon tratto l’imboccatura della vallata; ma sul fronte sud, verso le alture di sinistra, e su quella ovest, verso Adua, il nemico si addensa sempre più ed imprende anche uno spostamento aggirante verso le alture di destra per minacciare l’unica via che sia rimasta di ritirata. Da Bormida, Ragni ed Airaghi tentano ogni mezzo per difendersi e romper il cerchio di fuoco che li avvolge e li bersaglia da tutte le parti, e la vallata rimbomba di scariche assordanti, di grida bellicose, e di comandi e segnali, offrendo lo strano spettacolo di un esile brigata ridotta a poco più di 3000 uomini, che resiste e tiene a bada tenacemente, efficacemente, per lungo tempo un nemico dieci volte maggiore.
Ma le condizioni si fanno sempre più critiche, e Da Bormida, sentendosi ormai isolato dalle altre brigate ed avendo perduto ogni speranza di aiuto dal comando in capo è costretto a provvedere alla ritirata. Prima però di iniziarla egli tenta uno sforzo disperato.
Mentre le truppe di Ragni ripiegano, combattendo, in basso, e mentre dall’altura a cono e dal poggio d’Esciasciò l’artiglieria, il 3° il 4° e il 13° battaglione tengono a bada il nemico loro di fronte con un fuoco formidabile, nel piano Da Bormida percorrendo tra le truppe fronteggianti verso lo sbocco della valle, le anima, le scuote, e con parole vibrate, le incuora all’assalto; quindi postosi alla loro testa, coll’elmetto in mano e colla sciabola sguainata, seguito da Airaghi, le trae impetuosamente all’assalto facendo ancora una volta ripiegare verso Adua la massa nemica.
Aprofittando allora del largo fatto. Da Bormida ordina la ritirata, e la gloriosa brigata che ha già perduto quasi metà de’ suoi combattenti e la maggiore parte degli ufficiali, inizia ordinatamente questo movimento per la valletta laterale ad imbuto che sale ai monti d’Esciasciò.
Sul ripido sentiero che tra massi e gradoni si inerpica dalla valletta all’aspra giogaia, preceduti dal 3° reggimento, ed inseguiti da numerose frotte nemiche aggiranti, a poco per volta si incolonnano a scaglioni tutti i reparti, difendendosi di appostamento in appostamento e contrattaccando spesso colla baionetta; ed intanto dall’alto provvidenzialmente il 4° ed il 13° battaglione resistono ancora.
Durante la salita l’artiglieria riesce ancora per due volte a prendere posizione ed a fulminare il nemico, che ormai ha compiuto il suo aggiramento da tutte le parti; ed Airaghi in coda compie prodigi di valore per coprire la ritirata; ma tutti gli sforzi sono vani.
Come belve assetate di sangue e di vendetta, le orde abissine si lanciano in massa sulle tristi pendici d’Esciasciò, e dopo aver oppresso il 13° e quasi distrutto il 4° battaglione, si avventano ai fianchi ed alla coda della vinta brigata, fulminandola da tutte le parti, investendola ad arma bianca e producendovi lo sfacelo.
Airaghi, Da Bormida, De Amicis e la maggior parte degli ufficiali muoiono da eroi sul campo; le artiglierie, orbate di graduati di serventi e di quadrupedi, divengono preda del vincitore, ed il triste spettacolo dei vani sforzi e degli efferati eccidii prostra gli animi ed affievolisce le resistenze.
Sopraggiunta la sera ed un provvido acquazzone, cessarono gli estremi conati della gloriosa brigata Da Bormida e incominciava il triste esodo dei pochi superstiti, che in parte sotto Ragni si dirigevano fra mille stenti verso Zaià, ed in parte calcarono le altre vie già percorse da quelli delle brigate sorelle.
Tutto era perduto.
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L’inseguimento degli Abissini contro i superstiti del corpo d’operazione italiano non durò più di 10 o 15 chilometri; poscia questi in sul far della notte furono abbandonati a se stessi ed alle feroci rappresaglie delle popolazioni insorte e dei ribelli, per avvertire i quali furono accesi dei grandi fuochi su tutte le alture circostanti.
Mentre poi il grosso dell’esercito scioano sostava a tripudiare ed a gozzovigliare colle proprie megere sul campo di battaglia infierendo barbaramente sui caduti che eviravano e bruciavano ancora caldi e vivi, portandone in trionfo le vesti, le armi e le carni lacere e sanguinanti, altri stormi di fanti e cavalieri, unitamente ai ribelli dell’Agamè davano l’assalto alle salmerie raccolte dietro il colle di Zalà.
Quivi il maggiore Angelotti nel pomeriggio del 1.° e nella notte seguente coi pochi armati disponibili tentò bravamente di difendersi; ma tradito e abbandonato dai conducenti indigeni, che scaricando i muli fuggivano sovra di essi, ed in breve sopraffatto e minacciato da tutte le parti, fu costretto a ripiegare disordinato verso Mai Maret, perdendo uomini e quasi tutto il carico. Nè alcuno aiuto potè quivi avere dal reggimento del colonnello Di Boccard, il quale dopo aver appresa la disfatta del corpo d’operazione essendo rimasto senza ordini e senza notizie del comando in capo, ed ignorando la via di ritirata dei superstiti, per evitare il pericolo di rimaner circondato e bloccato, verso le 12 del giorno 2 si era ritirato verso Adi Caiè.
Prima di compiere questo movimento il colonnello Di Boccard propose al maggiore Prestinari l’uscita dal presidio e l’abbandono del forte di Adigrat, per ritirarsi insieme; ma la proposta non fu accettata perchè, unanimamente, il consiglio di difesa del forte e tutti gli ufficiali vi si dichiararono contrari, non volendo abbandonare i numerosi feriti ivi esistenti, che sarebbe stato impossibile di trasportare.
Nei giorni 3 e 4 del mese di marzo, la maggior parte dei superstiti, compreso il Comandante in Capo ed il generale Ellena, ferito, nonchè la colonna Di Boccard, ed il battaglione Ameglio proveniente da Adiqualà, ed il 17.° battaglione già distaccato a Barachit si concentravano ad Adi Caiè, donde veniva telegrafato all’Italia la notizia della tremenda catastrofe.
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La battaglia d’Adua fu uno dei più grandi fatti d’arme coloniali che sieno mai avvenuti.
La storia offre ben pochi esempi di una lotta che, in relazione al numero dei combattenti, abbia dato dei risultati così micidiali.
Sopra 10,450 italiani e 7000 indigeni circa, di cui componevasi il corpo d’operazione italiano, restavano morti circa 4600 dei primi e 2000 dei secondi. Si ebbero inoltre 461 feriti bianchi e 958 indigeni, e oltre a 1500 prigionieri presi colle armi alla mano sul campo di battaglia. Furono tra i nostri morti i generali Da Bormida e Arimondi e i colonnelli Romero, Airaghi e 264 altri ufficiali.5
Tra i feriti, ad eterna infamia di Menelik e dei ras suoi seguaci, si ebbero 30 italiani ed alcuni indigeni evirati, e 406 altri di questi, fatti prigionieri, per sentenza del Negus stesso, furono mutilati della mano destra e del piede sinistro, e quindi lasciati in libertà senza alcun soccorso tra i più atroci spasimi6.
Insieme alle perdite d’uomini si ebbero anche quelle di molte armi e munizioni, di 56 pezzi d’artiglieria e di quasi tutte le salmerie.
Ma anche dalla parte del nemico, secondo le risultanze più attendibili, le informazioni raccolte dai nostri prigionieri e dai rappresentanti esteri allo Scioa, e secondo le pubblicazioni più degne di fede nazionali ed estere, le perdite furono grandissime e non minori di 10,000 feriti e 7000 morti tra i quali ultimi il celebre ras Gabejù, il vincitore di Amba Alagi, molti fitaurari e degiac tutti grandi capi militari, oltre ad un’infinità di altri capi e sottocapi minori.
Questi sanguinosi risultati avveratisi da ambo le parti, provano anzitutto che se l’esercito abissino, e nessuno lo può negare, era composto di gente forte, audace e coraggiosa, il corpo d’operazione italiano combattè con un accanimento e con un valore molto maggiore. Nessuno esempio offre la storia di un piccolo esercito di 17,000 uomini che, come il nostro, abbia resistito e sostenuto per parecchie ore un’urto così grande come quello dell’immensa orda scioana combattente ad Adua, e che anche restandone soprafatto e schiacciato, abbia tuttavia potuto produrre delle perdite così enormi. Da ciò risulta chiaro, a base d’aritmetica, che se coi nostri 17,000 uomini furono messi fuori di combattimento circa 17,000 nemici malgrado i coefficienti negativi dell’aggiramento e della disfatta, con altrettanti italiani quanti quasi erano i rinforzi allora in viaggio dall’Italia per l’altipiano etiopico, e coi coefficienti positivi di una vittoria in tal caso indubitabile, si avrebbe potuto distruggere quasi tutto l’esercito scioano.
Del resto che le perdite abissine sieno state rilevantissime e quasi disastrose, oltrechè dalle dichiarazioni, dagli scritti e dalle comunicazioni sopradette anche per parte dalle fonti più avverse all’Italia è stato comprovato dal fatto che il Negus, malgrado i risultati decisivi di una vittoria, non si trovò poi in grado di aproffittarne, e fù impotente a proseguire nell’inseguimento dei vinti e nella sua marcia d’invasione nella nostra colonia, ciò che fatto subito, in quelle disastrose condizioni, e mentre che poche altre truppe sarebbero state pronte a difenderla, avrebbe cagionato l’estrema sua rovina.
Fu dunque biasimevole ed ingiusto il successivo procedere del generale Baratieri (ed egli stesso poi se ne pentì) quando nel telegramma con cui annunziava all’Italia il disastro, incolpava le nostre truppe di poco valore e di poca resistenza.
Ed invero non meritava una tale offesa quel piccolo esercito che, seguendo i suoi comandi, e tratto senza giusti criteri tattici ad una lotta cotanto disuguale, aveva lasciato, pugnando disperatamente, quasi 7000 morti sul campo di battaglia, mentre altri 1500 de’ suoi languivano tra gli spasimi e le torture di una prigionia più angosciosa che la morte, e tanti ancora affluivano ai luoghi di cura a medicare dolorosissime ferite.
Può darsi benissimo, ed è naturale, che dopo la disfatta quando le sorti erano già precipitate, quando tutti gli sforzi per la difesa riuscivano ormai vani, che lo spettacolo doloroso degli eccidi e le grida ed i gemiti dei morenti ed il pazzo e feroce infuriare dei nemici abbiano prodotto tra i superstiti dei segni di sfiducia e di scoramento giudicati erroneamente per segni di viltà. La forte tensione degli animi che per tante ore sfidarono il pericolo può aver prostrata la fibra di alcuni, ma non è su questi, ed in quel momento che si deve formulare il giudizio: è là sul Raio tra i 700 caduti coll’arme in pugno, là sul luogo dell’artiglieria d’Albertone donde le anime degli artiglieri italiani inneggiano un peana di gloria; là nella leggiadra valle di Maria Verde (Mariam Sciavitù) ove le ombre gloriose di Da Bormida e Airaghi conversano coi caduti della loro brigata; è là presso il colle del Rebbi Arienni ove intorno a Romero giacciono al suolo tante inanimate spoglie d’eroi, che ebbero la sublime audacia di sbarrare la via ad un’intera armata; è là, si ripete, dove bisogna guardare e dove parla il valore delle nostre truppe; e parla anche tra i superstiti in ritirata che, dopo aver compiuto strenuamente per tante ore il loro dovere, tra mille disagi e mille pericoli, malgrado l’abbandono, sia pure involontario, del comando in capo, si cercano, si congiungono, s’adunano, si difendono, si apprestano reciprocamente le più tenere cure e compiono atti di eroismo e di pietà che nobilitano e fanno santa anche una disfatta.
Parlano del valore d’Italia quei quattro cadaveri trovati in un’alta anfrattuosità del monte Raio, i quali prima della loro fine gloriosa davanti al nemico invadente, raccolte delle migliaia di cartucce dai compagni morenti, piuttosto che ritirarsi, si riducevano colassù, sostenendo per tutta la giornata e forse per più giorni una lotta tremenda e senza speranza, finchè esausti dalla fame, e dalle ferite morivano accennando gli ultimi conati della difesa.
I soldati del genio che tre mesi dopo andarono a compiere il pietoso ufficio del seppellimento dei morti, trovarono i quattro cadaveri ancora intatti tra un monte di bossoli sparati, ed uno di essi in atto di suprema lotta era ancora avviticchiato al cadavere di un abissino che si era avventurato fin là, e col quale aveva incontrato la morte nell’ultima lotta a corpo a corpo.
No, la perdita della battaglia d’Adua non si può attribuire al poco valore delle truppe; ma piuttosto a quella temeraria decisione che trasse un piccolo corpo di circa diciassette mila uomini ad attaccare centomila agguerriti nemici; e poi più specialmente, ed anzi forse assolutamente, a quegli altri malaugurati errori che fecero scindere il piccolo corpo predetto in tre parti slegate fra loro, e ad una alla volta le esposero contro l’intera massa nemica, in tre distinti momenti ed in tre separate località.
Questi errori non furono certo commessi dalle truppe; ma anche se fossero derivati in parte, ciò che non è ancora provato, da capi in sottordine, risalgono invece a chi le guidò, il quale doveva evitarli o almeno ripararli.
Infatti è opinione generale che la battaglia avrebbe avuto un esito differente e forse lieto per la nostra patria, non soltanto se le quattro brigate fossero state ben dirette e ben condotte sul luogo dell’azione; ma anche se Baratieri avesse saputo approfittare del disvio della brigata Albertone disponendo in tempo, chè tempo c’era, di farla ritirare sotto il Raio, dove avrebbe certamente attratto il nemico già corso alle armi e dove questo sarebbe stato molto probabilmente battuto dalle quattro brigate riunite e ben appoggiate alle forti posizioni; e forse sarebbe stata ancora rimediabile se egli, omettendo la predotta disposizione, avesse almeno curato che la brigata Da Bormida avanzasse poi non obbliquamente a destra nella lontana valle di Mariam Sciavitù, ma dalla parte opposta, cioè obbliquamente a sinistra verso Addi Vecci, ove verso le 9 Albertone stava per trionfare, ed ove, secondo le affermazioni di superstiti e di scrittori autorevoli, e secondo le notizie raccolte di poi da prigionieri, l’apparizione in quel momento di una forte brigata bianca avrebbe potuto concorrere a strappare al nemico la vittoria.
Così invece come andarono le cose, cioè con una brigata di 4000 uomini presso Adua che combatte da sola nel mattino contro l’intero esercito etiopico; con altre due brigate di circa 6000 uomini in tutto intorno al Raio, che ne vengono poi sorprese ed urtate non ancora completamente schierate verso il meriggio; e con un’altra brigata di poco più di 4000 uomini isolata a 7 chilometri nell’estrema destra che è costretta a lottare verso sera contro tutto il predetto esercito nemico vincitore e trionfante, non solo era impossibile il vincere, ma anche il fare di più, tanto da truppe italiane che da francesi, tedesche, inglesi o di qualsiasi nazione la più belligera del mondo.
Note
- ↑ Il 2.º battaglione bersaglieri (Compiano) contava solo 350 fucili, avendo lasciato 115 uomini presso le salmerie.
- ↑ Questa batteria era distaccata a Mai Maret e potè giungere sul teatro delle operazioni nel mezzo giorno riuscendo a fare un sol colpo.
- ↑ Presso le salmerie raccolte tra il colle di Zalà ed Entisciò furono lasciati 235 uomini di fanteria e bersaglieri e 1400 conducenti (metà italiani) tutti armati di fucili, non che altri 200 conducenti italiani armati di pistola, e 900 indigeni quasi tutti disarmati in tutto 2735 uomini ed una cinquantina di ufficiali compresi gli ammalati.
- ↑ La successiva rapida ritirata di Baratieri su Adi Caiè fece da taluni biasimare la sua condotta anche come soldato. Però le testimonianze concordi di superstiti affermano che egli sul campo di battaglia si comportò da valoroso.
- ↑ Lasciarono la vita sul campo di battaglia i seguenti ufficiali:
Maggiori generali — Arimondi, Dabormida.
Colonnelli — Romero, Airaghi.
Tenenti colonnelli — Menini, Compiano, Galliano.
Maggiori — Giordano, Branchi, De-Amicis, Prato, Montecchi, Baudoin, Manfredi, Solaro, Bolla, Ferraro, Vandiol, Viancini, De-Vito, Turitto, Valli, De-Rosa.
Capitani — Bassi, Cella, Bianchin, Fabbroni, Marradi, Casardi, Pacca, Fiori, Cotta, Minucci, Rossi, Cristofoli, Segrè, Piazzini, Frigenti, Cerrina, Serventi, Cancellieri, Marchisio, Sini, Messaglia, Sbarbaro, Ciccodicola, Laurenti, Rossi, Passarotti, Castrucci, Aghem, Castellazzi, Ritucci, Palumbo-Vargas, De-Crescenzio, Guerritore, Cunietti, Elia, Pallotta, Cossu, Ghinozzi, Bonetti, Barbanti-Silva, Maggi, Benucci, Long, Bignami, Ragazzi, Zanetti, Verdelli, Cattaneo, Mazzi, Oddone, Olivari, Rossini, Pinelli, Sandrini, Cesarini, Mantini, De-Marco, Bianchini, Mangia, Henry, Aragno, Mottino, Franzini, Fabbri, Masotto, Ferrero, Acerbi, Orefice, Demicheli.
Tenenti — Alessandri, Golfetto, Grassi, Mola, Cora, Gaggiani, Gallarini, Guerini, Gonnella, Riva, Del-Cioppo, De-Concilis, Cimberle, Benini, Odero, Nastro, Sansone, Radici, De-Luca, De-Giovanni, Veggi, Becchini, Izzi, Cappetta, Albino, Doneddu, Giliberti, Filippi, Putti, Cossio, Lamberti, Brizio, Gillio, Queirolo, Caravaglia, Taxil, Galimberti, Mula, Peratoner, Dagnino, Migliavacca, Dotto, Pugliesi, Mangot, Benincasa, Lucca, Sansoni, Parodi, Cybeo, Molinari, Albanese, Gastini, Magliocchini, Guareschi, Bessone, Centa, Vischia Compagna, Dina, Mazzoni, Vitali, Valle, Storaci, De-Bonis, Moeali, Vecchi, Carraro, Benedetti, Moschini, Pratesi, Macola, Ugenti, Caputo, Cerimele, Gammarelli, Spacca, Sbrignadello, Rosso, Romagnolo, Pieri, Banti, Bonora, Casalini, Cosa, Schiavon, De-Campora, Landi, Rizzi, Testa, Fusa, Viti, Sostegni, Grazioso Poeti-Marentini, Cucchi-Manni, Rivi, Pacilio, Schellembrid, Cavazzini, Vassallo, Corsini, Sbruzzi, Niccolini, Ferrari, Caffagini, Mora, Emanueli, Uccelli, Pennazzi, Bassi, Maccari, Perle, Pastore, Sironi, Rasponi, Graziadei, Buono, Bastianelli, Boretti, Ainis, Pontani, Saya, Vibi, Garezzo, Grue, Cavallazzi, Ardisson, Chevalley, Barmaz, Cupelli D’Andrea, Maglio, Pucci, Pistacchi, Chigi.
Sottotenenti — Quadrio, Vernazzi-Fondulo, Monina, Stockler, Zucchi, Cappa, Marchisio, Baglivo, Biancheri, Beltrami, Ferrari, Zampieri, Vulpiani, Ponzo, Camuzzi, Dania, Trojano, Guerrini, Gagliardini, Lamberti, Pellacani, Della-Torre, Bianchi, Rosati, De-Sanctis, Castano, Ghirelli, Gola, Malagoli, Della-Chiesa d’Isasca, Bertone, Piccinini, Mazzoleni, Cuccati, Castelli, Frigerio, Lombi, Altamura, Micicchè, Viglione, Cuccs, Dorato.
Si ebbero pure tra i morti il giornalista Del Valle rappresentante del Popolo Romano, ed il giovane Luigi Bocconi di Milano che accompagnava in touriste la spedizione italiana, e che pugnò con grande valore insieme alla brigata Da Bormida per tutta la giornata. - ↑ Questa barbara pena fù proposta dall’Abuna Matheos, in applicazione dei codice abissino detto Feta Nheghest (libro dei re).