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cazioni più degne di fede nazionali ed estere, le perdite furono grandissime e non minori di 10,000 feriti e 7000 morti tra i quali ultimi il celebre ras Gabejù, il vincitore di Amba Alagi, molti fitaurari e degiac tutti grandi capi militari, oltre ad un’infinità di altri capi e sottocapi minori.

Questi sanguinosi risultati avveratisi da ambo le parti, provano anzitutto che se l’esercito abissino, e nessuno lo può negare, era composto di gente forte, audace e coraggiosa, il corpo d’operazione italiano combattè con un accanimento e con un valore molto maggiore. Nessuno esempio offre la storia di un piccolo esercito di 17,000 uomini che, come il nostro, abbia resistito e sostenuto per parecchie ore un’urto così grande come quello dell’immensa orda scioana combattente ad Adua, e che anche restandone soprafatto e schiacciato, abbia tuttavia potuto produrre delle perdite così enormi. Da ciò risulta chiaro, a base d’aritmetica, che se coi nostri 17,000 uomini furono messi fuori di combattimento circa 17,000 nemici malgrado i coefficienti negativi dell’aggiramento e della disfatta, con altrettanti italiani quanti quasi erano i rinforzi allora in viaggio dall’Italia per l’altipiano etiopico, e coi coefficienti positivi di una vittoria in tal caso indubitabile, si avrebbe potuto distruggere quasi tutto l’esercito scioano.

Del resto che le perdite abissine sieno state rilevantissime e quasi disastrose, oltrechè dalle dichiarazioni, dagli scritti e dalle comunicazioni sopradette anche per parte dalle fonti