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per segni di viltà. La forte tensione degli animi che per tante ore sfidarono il pericolo può aver prostrata la fibra di alcuni, ma non è su questi, ed in quel momento che si deve formulare il giudizio: è là sul Raio tra i 700 caduti coll’arme in pugno, là sul luogo dell’artiglieria d’Albertone donde le anime degli artiglieri italiani inneggiano un peana di gloria; là nella leggiadra valle di Maria Verde (Mariam Sciavitù) ove le ombre gloriose di Da Bormida e Airaghi conversano coi caduti della loro brigata; è là presso il colle del Rebbi Arienni ove intorno a Romero giacciono al suolo tante inanimate spoglie d’eroi, che ebbero la sublime audacia di sbarrare la via ad un’intera armata; è là, si ripete, dove bisogna guardare e dove parla il valore delle nostre truppe; e parla anche tra i superstiti in ritirata che, dopo aver compiuto strenuamente per tante ore il loro dovere, tra mille disagi e mille pericoli, malgrado l’abbandono, sia pure involontario, del comando in capo, si cercano, si congiungono, s’adunano, si difendono, si apprestano reciprocamente le più tenere cure e compiono atti di eroismo e di pietà che nobilitano e fanno santa anche una disfatta.

Parlano del valore d’Italia quei quattro cadaveri trovati in un’alta anfrattuosità del monte Raio, i quali prima della loro fine gloriosa davanti al nemico invadente, raccolte delle migliaia di cartucce dai compagni morenti, piuttosto che ritirarsi, si riducevano colassù, sostenendo per tutta la giornata e forse per più giorni una lotta tremenda e senza speranza, finchè esausti dalla fame, ed alle ferite morivano accennando gli ultimi conati della difesa.