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capitolo xv. 53


gliava all’Amina e il parpaglione a lui, e non gli increbbe.

All’Amina sembrò le si fosse posato in grembo, come il cigno a Leda, un magnifico fagiano dalle piume dorate, che ella senza ceremonie si mise subito a pelare; e pelava e pelava con un gusto che era un desio a vederlo; quando di un tratto, quasi le piume del fagiano si fossero convertite in aghi, senti pungersi le dita; gittò un urlo, si destò e rinvenne che nel cacciarsi le mani dentro i capelli una forcina l’aveva trafitta. Per quietare la paura che le durava nel lago del cuore, rischiarata dal lume della lampada che ardeva dinanzi la immagine della purissima Vergine, sua santa avvocata, si mescè un bicchierino di liquore della Certosa (ah! quei benedetti frati dove mettono le mani fanno tutto bene), e dopo il primo un altro mezzo. Le parve essere rinata; recitò una avemmaria e si ripose a giacere, gustando le beatitudini del sonno dei giusti.

Se Amina si sognò di essere convertita in Leda, all’Elvira toccò sognarsi di essere mutata in Danae, e standosene a pancia all’aria esultava pel rovescio dei marenghi che le pareva le ci piovesse sopra: a romperle cotesta contentezza sopraggiunse un fischio come di macchina a vapore; declina lo sguardo, e mira un boa sterminato, che, postosele ai piedi, fa prova di risucchiarla, e pur troppo si sente attratta