Dal diario di una samaritana
Questo testo è stato riletto e controllato. |
ANTONIETTA GIACOMELLI
Dal Diario
DI UNA Samaritana |
Ai nostri Soldati e alle loro Infermiere
CON PREFAZIONE DI
S. E. VITTORIO SCIALOIA, Ministro di Stato
Presidente Generale dell’Unione degli Insegnanti.
Milano — A. SOLMI — Editore
Antonietta Giacomelli pubblica in questo «Diario di una Samaritana» una serie di impressioni dal vero, registrandovi una lunga preziosa esperienza di dolore e di carità.
Le pagine che essa ha scritto sono quindi più che una semplice narrazione; sono un alto insegnamento che viene dall’esempio.
Tutte le donne italiane le leggeranno con la certezza di trovarvi una fonte di alte ispirazioni e di forti impulsi nell’adempimento dei più rudi doveri che la guerra ha loro imposto.
Roma, 16 Aprile 1917.
VITTORIO SCIALOIA.
Ospedale Civile di..... - Zona di guerra.
Li 24 Gennaio 1917. — Dall’Ospedale Centrale di Riserva avevano annunziato un carico di quarantasei feriti per stasera alle cinque. Erano passate le sei. Nei cortili, ormai scuri e deserti, tirava un vento aspro di tramontana.
Le suore di contumacia aspettavano, raccolte nelle loro sale. Le samaritane andavano arrivando dai reparti. Si girava in su e in giù, un po’ infreddolite, un po’ nervose.
Passano anche le sette. Finalmente dal Comando di stazione telefonano che il treno attrezzato è partito da...., l’ultima fermata. Un’altra ora, dunque, o due, perchè lo scarico, per tutti gli Ospedali della città, sarà lungo.
Tutte ormai ci siamo raccolte negli uffici. La conversazione si anima. E’ un momento buono per affiatarci intorno al nostro lavoro, per comunicarci gli episodi e le osservazioni degli ultimi giorni.
Battono le otto. Io esco nell’oscurità del cortile, l’oscurità delle notti senza luna in zona di guerra, appena rotta da qualche lampadina azzurrata. E ascolto un gemito alto, insistente, che viene da una sala disopra, i rumori lontani, che vanno e vengono col vento, il fischio lungo di una vaporiera alla stazione.
Finalmente un rombo cupo si avvicina. E’ il primo camion. Il cancello si spalanca, suona la campana. Le samaritane balzano fuori, gli infermieri si precipitano dai reparti, tutte le accorrenti figure bianche si affollano intorno al gran carro chiuso, segnato della Croce Rossa, che s’è fermato alla porta della contumacia.
Si aprono gli sportelli, e s'intravvede un'esile figura di fantaccino pallida, col capo fasciato. Scende quasi da sè, e così, il colossale artigliere da montagna che lo segue, e altri, quali con un braccio al collo, quali zoppicanti, quali incerti per la fasciatura del capo che scende sugli occhi. Uno ha entrambe le braccia fasciate e assicurate al petto.
Quando sono scaricati tutti quelli che si reggono, un infermiere sale sul carro, e vengon calate le barelle, mentre noialtre accompagniamo su i soldati, reggendo i più malconci, salvo due che gli infermieri portano a spalle.
Lungo le scale è un concerto di scarpe chiodate, che si trascinano sulle pietre, e di tossi in tutti i toni. I feriti parlano poco, solo qualcuno accenna alla lentezza del viaggio, al freddo, alla debolezza; ma son lamenti piani, rassegnati, senza amarezza.
Vengono da Cormons, dove hanno passato due giorni, e dove erano scesi, quali dal Monte S. Gabriele, quali dal S. Marco.
In breve, nella gran sala vuota, coi letti bianchi che aspettano, i soldati ancora esitanti, confusi, guidati da qualcuna di noi, han preso possesso del loro letto. Fa pena doverli spogliare (per la disinfezione) di tutti i grossi indumenti che hanno addosso, e non dar loro in cambio che la fredda camiciola d’ospedale. Ma quei bravi figliuoli non si lamentano. Qualcuno dice: «Eh! sorella, ci vuol altro, siamo avvezzi al tutto». Altri fanno qualche timido tentativo, accennando alla bella maglia che hanno indosso, e alla biancheria nel tascapane. «E’ tutta roba pulita sa, ed è stata disinfettata a Cormons».
Ma non è permesso ragionare, bisogna essere inesorabili... con la maggior buona grazia possibile. Uno mi dice perfino, con aria ansiosa: «Questa è roba che mi hanno mandata da casa...» Tutto è inutile, il brutto sacco dovrà ingoiare ogni cosa.
Alcuni si trovano imbarazzati ad infilare la camicia, aperta anche di dietro. Uno deve trovarsi alquanto buffo, perchè esclama: «Se mi vedesse mia moglie!»
Aiutiamo i più sofferenti a spogliarsi. Conviene tagliare qualche fondo di manica. Essi si lasciano fare con una semplicità di bambini, mentre noi li trattiamo col rispetto commosso che viene dalla gratitudine.
Ma un altro camion è entrato nel cortile. Ci si precipita abbasso, con l’ansia di trovarne di più gravi. Infatti, stavolta son quasi tutti in barella. Ve ne sono di così immobili e pallidi, che quasi sembrano morti. Ma quando si trovano di sopra, nella luce, sul letto, fra mani delicate e sguardi fraterni, li vediamo sorridere... Grazie, Signore!
Il Direttore è venuto, e ha fatto il suo giro, occupandosi di quelli che gli segnaliamo, (sono stati tutti medicati al mattino a Cormons), fa qualche ordinazione, dice qualche buona parola. I soldati lo guardano, forse meravigliati di trovare un medico borghese, e chissà che cosa pensano d’ingenuo, guardando il suo viso di bontà? Dopo, più d’uno chiede, con occhi di fiducia: «La danno, qui, la licenza?»
Intanto le suore girano col brodo, col latte, con le uova, il cappellano passa dall’uno all’altro confortando, gli infermieri cominciano a mettere i termometri. Uno, sfinito, ha bisogno di un’iniezione di canfora. Noi, dalle tasche dei cappotti, delle giubbe, dei pantaloni, — squallida roba stinta, sudicia, talora insanguinata, gualcita, spesso lacera, che testimonia delle intemperie e dei lunghi strapazzi della trincea — , togliamo tutti i poveri tesori dei soldati: il portamonete, il portafogli, qualche volta l’orologio, la cartella clinica, che i soldati chiamano la base. Ma sopratutto si danno pensiero del portafogli: «Sorella, le mie cartoline!» Poi si caccia tutto nel rispettivo sacco, alla rinfusa, si lega col cartellino che porta il numero del letto, e si trascina via.
Poi si fa il giro dei letti, per vedere se tutto è in ordine, per sentire se qualcuno ha qualche desiderio da esprimere. Per lo più si accontentano della gioia di trovarsi in un letto, dopo mesi e mesi di trincea.
Buona notte, figliuoli, buona notte. E... grazie!
Li 25. — Stamane ero impaziente di vedere come stessero i nostri nuovi arrivati. Quando entrai, i più dormivano ancora o erano insonnoliti. Trascritte dalle tabelle nei diari le temperature, messe a posto le cartelle cliniche, cominciai a interrogare quelli che erano svegli. C’è un toscano che si lamenta nel modo più grazioso, un veneto che mi ha già raccontati mezzi i fatti suoi, un sardo taciturno, un milanese che fa lo spiritoso in meneghino, un siciliano ansioso per quella benedetta licenza, perchè da oltre un anno non vede li picciriddi, e uno non lo conosce ancora. Mi duole perchè non riesco a capire tutto quello che mi dice. V’è pure uno nato e domiciliato in Francia, che usa più volentieri del francese, e parla della patrie con quel convincimento che purtroppo difetta ancora nell’educazione del popolo italiano.
Viene il registrante a interrogare ognuno: nome, paternità, luogo di nascita, classe, corpo ecc., per il biglietto d’ingresso. Poi viene il dottore, accorrono le suore, portando la cassetta del cotone e delle fascie, i pacchi delle garze e dei drenaggi, il vaso dei tubi, le bottiglie e i vasetti degli emollienti e dei disinfettanti, le bacinelle e i ripari, versano nei rispettivi catini l’acqua e l’alcool. Gli infermieri e le samaritane cominciano a sfasciare.
V’è un ginocchio sfracellato da una scheggia di granata, v’è una pallottola di shrapnell, rimasta in un torace, v’è una gamba crivellata da sedici ferite, v’è una testa nella quale si vede pulsare il cervello, v’è una mano deformata da una palla esplosiva, v’è un femore fratturato. E molte congelazioni di 1°, 2°, 3° grado, qualche contusione, qualche ustione.
Si comincia dai più gravi. Il piccolo sardo morde il fazzoletto, si dimena un poco, ma tace. Quello del ginocchio urla disperatamente e mi chiama perchè lo tenga, perchè gli faccia schermo. Il dottore — il sig. tenente — lo conforta con voce di giovane papà. L’infermiere mastica un’imprecazione contro la guerra, che tronca ad una mia occhiata severa. Il ferito chiude gli occhi sul mio braccio, e geme piano.
Ma tutta la sala, ormai, è in moto. Da parecchi altri letti si levano lamenti, gemiti, grida, suppliche, proteste; il triste mucchio multicolore delle medicazioni levate e buttate va crescendo; s’incrociano, fra il personale assistente, le richieste e i servizi, — il dottore è già da un altro — allunga la mano per scegliere un ferro, porge il batuffolo alla bottiglia della benzina jodica, alza gli occhi per chiedere la doccia; strumenti, recipienti, pacchi di garze, falde di cotone, fascie, passano da un letto all’altro, rapidamente.
Poi, piano piano, tutto si va calmando. Si rimettono a posto gli archetti per i feriti alle gambe e i congelati di terzo grado, si rimboccano le coperte, si aggiustano i guanciali tormentati sotto le teste stanche e tranquille.
Immaginando che il povero ferito ad entrambe le braccia e le mani (lo scoppio di una bomba a mano gli ha, fra l’altro, amputate tre dita e ha il viso tempestato di escare), avesse da scrivere a casa, gli offersi di farlo per lui. Egli accettò felice, tanto più che doveva dare ai suoi la notizia d’essere stato ferito. Volevo mi dettasse. Cominciava: «Miei amatissimi Genitori! Una buona signorina si degna...» — «Niente, niente, figliuolo, di questa roba». Allora facciamo, invece, una piccola combinazione, per non spaventare i genitori: «Ferito alle mani...» No, meglio: «Oggi non posso scrivere io stesso, perchè ferito alla mano. Ma non è nulla di grave ecc.».
Quando abbiamo finito, mi viene in mente che non s’è detto un’altra bugia, (povero figliuolo, aveva gridato fino allora per la medicazione), da dedicare in modo speciale alla mamma. E si fa un poscritto dicendo: «La mamma stia tranquilla, perchè non ho forti dolori». — «Già, dice lui, perchè la mamma... è una donna che ci vuole molto bene».
Li 26. — Oggi, giorno di poche medicazioni in contumacia. Perciò stetti di più in reparto, dove sono i nostri anziani. Fratti, povero corpo martoriato, che si contende alla mutilazione e alla morte, ma sempre così muto e rassegnato. Sollini, che trema al solo toccargli le coperte. Piccoli, invece, va riprendendo, e oggi girava felice per i corridoi, con le sue stampelle. Dopo sette mesi dacchè è qui, è diventato di casa, l’amico di tutti; e s’ingegna anche ad aiutare: rotola fascie, nel camerino dove Fanti fabbrica pantofole, facendo certe belle suole forti, a forza d’impunture in dieci strati di panno. (Oh! le pantofole, son sempre il gran bisogno e il gran sogno, specie nelle sale di contumacia).
Una delle cose che più mi fanno pena, è la condizione dei convalescenti che si annoiano. In certe sale sono agglomerati dodici, quindici, venti non gravi e anche quasi guariti, i quali, per lo più, non hanno, per passare il tempo, che le carte, la tombola, qualche giornale illustrato.
V’ha bensì, nell’Ospedale, una piccola biblioteca: ma non è una cosa abbastanza viva... Io sognerei d’avere i mezzi per arricchirla, e sopratutto per poter regalare a ciascun soldato qualche pubblicazione che piacevolmente innalzi gli spiriti, tempri i cuori, formi le coscienze.
Più sto coi soldati, più capisco che il loro contegno al fronte (almeno di gran parte fra essi), contegno che ci riempie d’ammirazione e d’orgoglio, è tanto più meritorio perchè questa guerra, nella grande maggioranza, non la sentono, non la possono sentire come noi. In parte sarà colpa di quegli ufficiali che non si son data la briga di efficacemente spiegarne loro le ragioni, e anche solo che non hanno saputo affezionarseli. (Oh! i soldati, come sanno amare i loro ufficiali, se questi li hanno amati, li hanno istruiti, li hanno educati... E quando rispettano ed amano i loro ufficiali, di che cosa non sono capaci?) In parte sarà anche perchè non erano preparati ad intenderle, le grandi, le alte, le sante ragioni della nostra guerra. E di questo abbiamo colpa un po’ tutti...
A tutto ciò devo pensare quando odo espressioni che mi fanno dispiacere... Li sento pure spesso parlare di imboscati. Ah! se tutti facessero il loro dovere, se non vi fossero nelle retrovie tanti giovani forti, che si sono umiliati a chiedere favori vergognosi, senza pensare a quelli che portano quasi tutto il peso della guerra...
Li 28. — Oggi la signorina portalettere è stata apportatrice ai nuovi arrivati di molta gioia, insieme ai soliti amari disinganni. Questi nostri soldati, che sopportano volentieri tante privazioni e tante fatiche, si esasperano spesso per la mancanza di notizie da casa. «Signorina, per il militare la posta è tutto», mi diceva uno l’altro giorno, con accento doloroso.
E come badano poco a spendere per la corrispondenza... Taluni vorrebbero ogni momento incaricarci di espressi, e magari di telegrammi. Il popolo, si sa, non conosce l’economia. E molti soldati spillano i quattrini ai genitori col pretesto che non hanno abbastanza da mangiare; e i genitori finiscono col fare sacrifici per i loro capricci e peggio...
Non è vero, ragazzi, che è così? E così non dovrebbe essere.
All’Ospedale, però, c’è poco da scapricciarsi, salvo che con lo scrivere a mezzo mondo, a gran disperazione dei poveri ufficiali di posta, e conseguente danno del servizio.
Una delle cose che più mi piace è scrivere per quelli che non sanno, o non possono. Per lo più, li faccio dettare. Ma ciò non toglie che si possa anche fare da buone ispiratrici di qualche sentimento, che forse sonnecchia nell’animo loro.
E come godono, gli analfabeti, nel farsi rileggere la lettera da casa... Vi sono specialmente lettere di mogli, che cominciano con: Mio caro sposo, e raccontano tanti semplici particolari, e fanno sentire l’umile ambiente, di campagna per lo più. Giacchè i nostri bravi soldati, che vengono dalla trincea, sono in massima parte contadini. Oh! la Patria non potrà dimenticarlo.
Li 31. — I miei ragazzi di contumacia son pieni di malanni. Chi ha una bronchite, chi ha i dolori reumatici, chi l’itterizia; pare quasi un reparto di medicina. Io interrogo tutti, e poi segnalo al dottore (ormai troppo occupato per poter visitare tutti in mattinata), i casi che mi sembrano più urgenti. Ma ieri avevo dovuto chiedere un permesso, e oggi sento questo e quello di nuovo. «L’avete detto al signor tenente?». Ma quasi nessuno aveva parlato. E uno di quei bambinoni mi fa: «Ma non siete voi, signorina, quella che gli si deve dire?»
I malanni però non impediscono l’allegria. In ogni sala, per lo più, ci sono due o tre più evoluti, che tengon desti i compagni, con ricordi della guerra, commenti sulle nuove notizie, ragionamenti politici, anche. E due cose, quando ascolto i nostri soldati, noto con piacere. Per lo più, raccontano con semplicità, senza vanterie personali e senza troppi lamenti; e quando accennano ai nemici, ne parlano, più che con odio, con pietà. I meno ben disposti, per lo più, tacciono. O parleranno quando non ci siamo noi?
1.° Febbraio. ― Oggi giornata più ripiena del solito per medicazioni, perchè gli infermieri principali erano in sala operatoria. Io mi son presi tre congelati di 3.° grado. Tutte le dita dei piedi, incancrenite, necrosate, si vanno staccando. E’ la medicazione più penosa... ma si fa tanto più volentieri. Che cosa non si farebbe per i nostri reduci dal fronte?
I soli che assisto con repugnanza son quelli che danno motivo di sospettarli simulatori, o il cui male si suppone procurato. Forse ne soffrono anch’essi, forse nel loro interno si vergognano. In questo momento ne abbiamo uno, che non mi piace. Ha una contusione sospetta, intorno alla quale si contraddice. E pare non avere la coscienza tranquilla. Lo compiango... più degli altri.
Li 2. — Tempo fa avevo ricevuta una lettera di un amico, che mi raccomandava un caporale degli Alpini, un piemontese, giacente in un altro reparto. Appena ne chiesi, mi raccontarono la sua storia. Egli aveva traversato, tagliandoli, dieci metri di reticolato, per mettere in salvo il suo tenente, e per ultimo era stato ferito lui stesso; e tuttavia aveva seguitato a portare l’ufficiale, finchè, ferito nuovamente e più gravemente, furono raccolti entrambi.
Giunti qui insieme, il tenente - che narrò il fatto - non aveva voluto essere separato dal suo salvatore. Ma poco dopo era stato trasferito. Alcune persone s’erano interessate per far avere all’eroico caporale una decorazione, e ne avevano ripetutamente scritto al tenente, il solo testimone possibile, giacchè il plotone era stato distrutto. Ma questi non aveva risposto.
Il ferito giaceva immobile, per frattura complicata del femore e della tibia; ma gli occhi sfavillavano. Gli chiesi se i suoi sapevano che cosa avesse fatto. Mi rispose: «Io no, non l’ho scritta a casa la mia assione».
Scrissi all’amico, ringraziandolo per avermi fatto conoscere un eroe. E quegli mi rispose che era andato a leggere la mia cartolina alla madre dell’alpino, e che aveva dovuto spiegarle che cosa vuol dire un eroe.
Pensavo che forse s’era fatto male a parlare di decorazione in presenza del ferito, mentre il perdurante silenzio del tenente la rendeva impossibile, e lui avrebbe potuto rimanerne amareggiato. Ma mai una volta lo intesi accennare al premio mancato. Era sempre sereno, nella sua immobilità dolorosa, (che avrebbe dovuto durare ancora per mesi), sempre grato per la minima premura.
Oggi è stato trasferito a Parma. Mentre la barella scendeva, io mi dicevo che la grandezza vera è quella che s’ignora... E quando troverò qualcuno che si lamenta per onori mancati, racconterò la storia umile e grande di Felice Oberto Tarena, il mio eroe non decorato.
Li 4. — Oggi avevo portato in una sala alcuni giornali. «Ah! brava, signorina, ci porta la notizia della pace?» Ogniqualvolta odo parlar di pace mi sento turbare, e a volte mi vien fatto di non rispondere. Per dimostrare come la pace non si possa fare ora, senza disonore, senza danno immenso, senza offesa a tutti quelli che son morti, converrebbe, forse, non essere una donna, non esser qui. Mi par sempre abbiano da pensare: «Ha un bel dire, lei che non c’è stata e non ha da andarci, lei che non ha nè marito, nè figli al fronte, lei che non ha a casa nessuno che piange, nessuno che ha fame...»
Come fare a far loro sentire quello che sento, a far loro capire quel di prezioso e di caro che i miei ed io abbiamo lasciato e sacrificato lassù, dove si combatte, si saccheggia e s’incendia, a far loro credere quant’altro sarei pronta a fare?... Giacchè, solo l’esempio vale.
Eppure, qualcuno indovina; lo leggo nei loro occhi.
No, non è il caso di fare dei bei discorsi patriottici. A volte — ho avuto occasione di notarlo, purtroppo — si fa peggio. Il popolo italiano non ha ancora le tradizioni nazionali di altri paesi, non conosce il patriottismo innato e ardente dei francesi, dei tedeschi, degli stessi inglesi, che pur sembrano freddi, e di tanti altri popoli. Perciò, coi pistolotti patriottici, in quest’ora di tanti sacrifici, si rischia a volte di provocare reazioni. Segno che altri non han saputo, parlando di patria, trovar la via delle loro anime. A volte — anche questo ho notato — giova più fare appello al cuore, con poche parole, che ridestino i sentimenti migliori, di giustizia, di carità, di fede.
Sì, anche di fede. S’ingannano coloro che credono la religione sia poco sentita dal nostro popolo, o in contrasto col sentimento patriottico. Ben sanno i cappellani militari di quale valido aiuto sia il sentimento religioso per spronare i soldati al dovere verso la Patria. Quando questo è dimostrato loro come messo nei nostri cuori da Dio, legato a quelli che abbiamo verso la famiglia e l’umanità, non per ingiuste conquiste, ma per rivendicazioni di giustizia, quando si parla di Cristo, che ha offerto la vita per tutti, essi accettano ogni cosa con maggiore rassegnazione, con maggiore convincimento.
Li 5. — Stanotte Bertini (il ferito al braccio), ha avuto una grave emorragia. E’ stata arrestata dalla brava suor Placidia. Ma come è pallido e sfatto, povero figliuolo... Il dottore teme. Hanno mandato ai suoi il telegramma. Arriveranno in tempo?
Li 6. — Stamane all’alba Bertini ha ricevuto i sacramenti. Lo trovai col crocifisso sul guanciale, calmo, quasi sereno. Mi disse: «Ne ho visti tanti restare lassù. Qui almeno siamo assistiti».
Stetti un po’ senza poter parlare. Intanto vedevo che la sua debole mano pareva cercare qualchecosa sotto il guanciale. Feci per aiutarlo. Era un piccolo gruppo di due vecchi contadini, dal costume abruzzese. Il morente lo accostò alle labbra; poi me lo porse. «Quando arriveranno, signori, dite che li ho baciati».
Vedevo il pallore farsi cadaverico, il respiro più breve. Alzai la voce per chiamare, ma tosto capii che, ormai, era finito.
Gli occhi vitrei erano fissi nel vuoto. Tolsi dal guanciale il crocifisso, lo posi sulle labbra bianche, che fecero, lieve, l’atto del bacio. Gli occhi parvero sorridere e poi, così, rimasero immobili.
Inginocchiata, li chiusi mormorando: «Per la Patria nostra, grazie!»
Li 7. — Sono arrivati in tempo di vederlo nella bara. Il padre è come istupidito. La madre è una figura che ha una certa composta grandezza di antica razza. Per ore stette là, nel triste luogo, pregando con una dolce cantilena straziante. Poi, quando fu l’ora del funerale, essa seguì, senza una lacrima, appoggiata al mio braccio, con lo sguardo afono, fisso sul carro.
Quando, riuscendo di chiesa, le Autorità le cedettero il passo e i soldati all’umile bara presentarono le armi, ebbi come una visione di ciò che dovrebbe essere il domani della Patria.
Li 9. — Oggi il nostro buon primario, dopo tanti sforzi perseveranti per salvarla, ha dovuto decidersi ad amputare la gamba di Fratti. E’ stata un ora penosa... Ma lui, destato dalla narcosi, era felice, come per essere liberato da un nemico. Il suo vicino, il povero Sollini, pareva invidiarlo.
Li 10. — Fratti è di nuovo abbattuto. Egli comincia a sentire di essere un mutilato. Perciò gli andiamo parlando della rieducazione professionale e dell’ottima posizione che può farsi un mutilato, spesso molto migliore di quella di prima, e delle soddisfazioni che può avere. Gli parliamo delle Scuole di rieducazione professionale, nelle quali possono addestrarsi, tanto a seguitare nel proprio mestiere, come ad esercitarne un altro, e nelle quali potrà imparare a leggere e scrivere, (il che ora sa a mala pena) e tante altre belle cose.
Sulle prime pareva diffidente. In lui pure è sorta l’idea, invalsa nei mutilati, che la rieducazione, il lavoro, sieno a danno della pensione, mentre invece, per quanto avesse a guadagnare, il mutilato mai la potrebbe perdere o vedersela diminuita. E’ questo un punto sul quale conviene battere assai.
Penso sempre con spavento e tristezza a quei mutilati che avran preferito accontentarsi della pensione, e i quali certamente, per l’ozio, diverranno dei frequentatori di bettole, degli alcolizzati, dei miserabili, che finiranno a limosinare per le strade.
C’è un bellissimo opuscolo, edito dal Comitato pro Mutilati di Torino, intitolato: Tre anni dopo, del quale il Comitato nostro fa propaganda. E’ un dialogo fra due mutilati, che avevano combattuto assieme, e s’incontrano tre anni dopo la guerra. Uno, che s’è fatto rieducare, ha seco la moglie e un bambino, e s’è creato un’ottima posizione; mentre l’altro, che non ha voluto saperne della rieducazione, è uno sciagurato, che si vergogna dello stato nel quale s’è ridotto, e troppo tardi invidia il camerata d’un tempo.
Oh! sì, i nostri invalidi di guerra — siano mutilati, storpi o ciechi — noi tutti dobbiamo aiutarli a ridiventare dei lavoratori, pieni di dignità e di serenità, che possano essere sempre da ognuno onorati e benedetti.
Li 11. — Oggi è partito Castelli, una delle glorie del nostro bravo primario. Quando rammento in quale stato pietoso è arrivato sei mesi fa... Pareva un caso disperato.
Egli mi ricorda una mattina emozionante della scorsa estate, nella quale ero stata destata dall’allarme degli aeroplani. M’ero vestita a precipizio ed ero andata all’Ospedale di corsa. Della gente che abita incontro, usciva correndo verso il rifugio vicino. Uno mi gridò appresso: «Imprudente!» Un’altro: «L’arresteranno!» Ma chi oserà arrestare uno che va a compiere il proprio dovere?
Intanto s’era udito lo scoppio di parecchie bombe. Quando salii le scale dell’Ospedale, vidi traccie di sangue. Corsi nella sala operatoria. Stavano terminando di staccare una gamba di un contadino che schegge di bomba avevano quasi completamente amputata. Trovandomi là, ormai, superflua, entrai in una sala. Vidi un cappellano che raccomandava l’anima ad un giovane che pareva morente; un altro, con una mano fasciata, sorreggeva il suo bambino, al quale una scheggia, aveva asportato un occhio.
Tutti i feriti e malati dell’ultimo piano erano stati portati abbasso, i più gravi nei letti vuoti del primo piano, gli altri nei rifugi. Nessuna confusione, nessuna diserzione: il panico era stato vinto dal sentimento del dovere.
Solo Castelli, non trasportabile, era rimasto disopra, con suor Blandina. Salii per darle il cambio. Traversando le sale, vidi le traccie della furia con la quale erano state sgombrate; dai letti vuoti pendevano le coperte, quà e là eran vesti trascinate per terra, oggetti caduti o rovesciati.
La suora non volle muoversi. Rimanemmo entrambe, mentre nel cielo seguitava il fragore della lotta aerea, e ogni tanto si distingueva lo scoppio di una bomba. Il ferito voleva mandarci via. «Voialtre, sorelle, non siete soldati», diceva. Suor Blandina sorrise dolcemente.. Io risposi: «Sì, siamo soldati anche noi, figliuolo; e siamo così contente di condividere un briciolino dei vostri pericoli».
S’udiva sul tetto passare il rombo d’un motore. Una bomba, in quel mentre, scoppiava vicino. Suor Blandina fece il segno della croce, il ferito ebbe un lieve sussulto. Poi disse: «Strano, qui fa impressione; ma lassù è un’altra cosa. Là, in certi momenti di combattimento per la conquista di una quota, par che vivere o morire sia tutto lo stesso».
Sì, vivere o morire, non importa: purchè sia per compiere il dovere.
Li 12. — Oggi c’è stato, da parte di una benefattrice dell’ospedale, larga distribuzione di dolci, di sigarette, e, per quanto lo permette il regolamento, di liquori. Benefattrice... ma se quel danaro lo avesse speso in qualche cosa di più utile? E’ certo che domani avremo delle nuove temperature, e che tutte le tossi saranno peggiorate.
Ma, sopratutto, è triste che chi intende far del bene non pensi che a soddisfare le debolezze ed i vizi, e non cerchi piuttosto di dar cose ben altrimenti rinforzanti, sollevanti lo spirito, che non l’alcool e il tabacco.
Con quel centinaio di lire, noi samaritane avremmo potuto fare tante belle cose, che ci avrebbero molto aiutate nel nostro lavoro fraterno e patriottico. E scommetterei che anche parecchi dei nostri soldati, in fondo, l’avrebbero preferito.
Di queste occasioni, se non altro, mi valgo per far loro un po’ d’istruzione antialcoolica. I veneti, in genere, si dura fatica a persuaderli; e poi c’è sempre qualche convalescente dei reparti borghesi, coi quali passeggiano in cortile, che fa da guastamestieri. Ma, tuttavia, mi par d’essere riuscita a convincere parecchi, di tutti i pericoli e i danni, non solo dei liquori, ma anche dell’abuso del vino, per le gravi malattie che procurano: al cuore, al fegato, allo stomaco, ai polmoni, al cervello, tanto che molti diventano pazzi o cattivi, e finiscono all’ospedale o in carcere. Li faccio pure riflettere su tutte le conseguenze di discordie in famiglia, di scandalo ai figliuoli, e sulla miseria alla quale condanna la sua casa un padre di famiglia che beve; oltre poi al fatto gravissimo che i figli che nascono da un alcoolizzato, o generati in istato di ubbriachezza, sono soggetti a tristissime eredità... E all’ospedale non mancano esempî di bambini disgraziati, vittime dei vizi, di qualsiasi genere, dei genitori...
Per lo più obiettano che il vino è necessario, (mentre è provato che i pretesi benefici del vino non sono che un inganno del momento), e che basta non eccedere. Ma si sa come si comincia, e non si sa come si vada a finire. Si dice che l’appetito viene mangiando, e per le bevande alcooliche si potrebbe dire che la sete viene bevendo. Non vi pare, figliuoli? Ho paura che qualcuno di voi ne sappia qualchecosa, anche per esperienza.
Li 13. — Stamane mi sono occupata di due soldati che son guariti dalla ferita, ma hanno bisogno di massaggi, perchè l’arto irrigidito riprenda i movimenti.
Entrambi si lasciarono fare senza resistenza, per quella disciplina che i soldati serbano anche all’ospedale. Eppure mentre eseguivo il mio lavoro, andavo accorgendomi della diversità dei loro animi. Uno, evidentemente, tende a tirare in lungo... egli non ha davvero fretta di guarire. L’altro, invece, lo si vede onestamente pronto. Non voglio dire con questo che tornare in trincea sia il suo sogno; ma non farà nulla per ritardarne il momento; e quando sarà venuto, ripartirà semplicemente, senza lamenti.
E’ un buon figliuolo, desideroso di leggere e d’imparare...
Che bella cosa sarebbe, se il tempo dell’ospedale fosse, per ciascuno dei nostri soldati, una scuola. Perchè non la faremmo? E tanto più che quasi tutte le mie compagne sono maestre, e già a qualcuno hanno insegnato, con risultati addirittura brillanti. Non sarebbe un giusto ricambio verso i nostri combattenti, e un mezzo di più per preparare il domani della Patria?
Li 14. — Oggi è arrivata alla signorina Riva una lettera di Palumbo, uno dei partiti del mese scorso. Egli la incarica di ringraziare «tutte le persone che appartennero alla sua guarigione», e aggiunge espressioni di gratitudine davvero esagerate, povero figliuolo. Ma sopratutto m’hanno fatto piacere queste parole, con le quali termina: «Buone sorelle, non trovando altra parola migliore per chiamarle, ho creduto bene dare sfogo al cuore. Mando di nuovo i saluti dal fronte di guerra, e mando le migliori impressioni sul buon umore dei nostri vecchi soldati. Non potete averne un’idea come qui si soffre con pazienza e serietà».
Son proprio questi i nostri buoni, gentili, valorosi soldati.
Ho letto queste ultime righe in sala due, dove c’è qualcuno che, quando crede nessuna di noi senta, dice cose indegne di un soldato italiano.
Li 15. — Oggi visita del Colonnello, la visita tanto desiderata e tanto temuta..... Noi siamo depositarie di molti desiderii, ma solo su alcuni dei petenti s’è fermato il «signor tenente», il quale li ha presentati al Colonnello per la visita. Il sogno, si capisce, per gli ancora ammalati, è il trasferimento nell’ospedale più vicino a casa, e per i convalescenti, la licenza. Taluni dicono: «Mi basterebbe vedere i miei figliuoli, poi tornerei in su volentieri!» Uno aggiunse: «Mi darebbero forza per morire volentieri...»
Ahimè, forse egli si inganna. Ma come comprendo tutti... Dicono che per taluni è un tentativo d’imboscamento; sarà, ma nei più è ben naturale sia per amore vero della famiglia. E sento che guai se fossi io il Colonnello... E siccome egli è d’animo assai buono, ammiro tanto più la forza con la quale, in molti casi, compie il suo duro dovere.
Quand’è passato, si vede qualche faccia mortificata, qualche lacrima anche. A volte dico qualcosa, a volte faccio mostra di non accorgermene. Ma più tardi, ripassando, sento che si parla più che mai d’imboscati.
Ah! in quanto agli imboscati, avete ragione, figliuoli. Ma non lo sapete ancora che la giustizia non è di questo mondo? Vi basti pensare che codesti devono sentirsi svergognati, e che voi potete tenere la testa alta, perchè avete fatto e tornerete a fare — non è vero? — il vostro dovere.
Li 16. — Oggi, giorno di medicazioni gravi. Quella povera grossa gamba di Sollini, alla quale è un affar serio togliere la ferula, e che non si tiene mai abbastanza ferma... Eppure son così bravi questi nostri buoni infermieri, che, oltre a saper fare, hanno anche il dono di distrarre i feriti con le loro barzellette e di persuaderli che tutto procede bene. Beppino fa rintronare la sala dei suoi «benissimo!», e più uno grida, più gli fa cenni d’amore: «Tu sei una stella!», e qualche volta anche — chissà perchè? — : «Tu sei un cespuglio!»
Quasi mai, però, da queste bocche spasimanti, si ode una bestemmia, o una imprecazione. Per lo più, è un continuo chiamare mamma! Anche gli uomini maturi, anche gli ammogliati, non hanno altra invocazione, salvo qualcuno, che chiama pure Madonna, l’altra madre. E quando hanno qualchecosa sul cuore, benchè sappiano che siamo le «signorine», ci chiamano spesso, come le suore, sorelle.
E non è un richiamo, questo, alla grande missione fraterna che abbiamo? E come accade che tante donne, nella vita, rinunciano a questa santa, a questa dolce missione, per farsi tentatrici, demolitrici, della coscienza e della forza dei fratelli?
Soprattutto mi rattristano certe cose che si sentono dire a carico delle cosiddette «dame infermiere». Purtroppo, per una minoranza di incoscienti, vanno di mezzo le molte che fanno, in ogni senso, il loro dovere. In quest’ora nella quale tutto dobbiamo alla Patria e a coloro che la difendono, come è possibile disimpegnare il sacro ufficio d’infermiera, se non con l’anima pura e compresa di dignità, senz’altro pensiero che per i nostri infermi, senz’altro sentimento che quelli che potrebbe avere una madre, una sorella? E come si può, questa missione di pietà, prenderla come uno sport alla moda da disimpegnare con le minori brighe possibili, — o lasciarsi andare a tristi gare ambiziose e gelose, alla preoccupazione di primeggiare, di dominare, o di conquistare qualche gingillo?
Lungi lungi dai nostri soldati (come son felice di non aver mai potuto notare un’ombra su alcune delle mie compagne) quante possano dimenticare quella serietà, quella elevatezza d’animo, quella carità a tutta prova — anche a quella dei sacrifici d’amor proprio — che devono essere la nostra divisa, candida come la nostra veste. Dall’ospedale i nostri soldati devono uscire, non solo risanati nel corpo dalle nostre cure, ma altresì elevati nell’anima dall’anima nostra.
Li 17. — Per il sopraggiungere d’una eresipela hanno dovuto portare abbasso, in un camerino d’isolamento, Lucci, uno dei nostri più gravi. Povero ragazzo, è figlio d’ignoti. Avevo notato fin dal principio la sua tristezza, silenziosa e cupa. Lo stesso soffrire intenso, che gli strappava ogni tanto alte grida, sembrava lasciarlo quasi indifferente. La posta non recava mai nulla per lui.
Oggi lo trovai sfatto, coi grandi occhi sbarrati e inquieti. Mi chiamò piano. Mendicava le parole, più ancora chè per la debolezza, per l’imbarazzo, mi pareva. Cercai d’incoraggiarlo. Con frasi rotte, mi narrò di avere degli obblighi verso una ragazza che sta per divenir madre, disse che voleva sposarla per procura. Aggiunse: «Dal paese m’hanno scritto che non mi è stata fedele. Ma non voglio che venga al mondo un altro... come me».
Ho interrotto il servizio per occuparmi subito del compito sacro. Non v’è tempo da perdere!
Li 18. — Il povero Lucci non ha potuto compiere il suo dovere. L’eresipela, salita rapidamente, lo ha finito iersera, dopo un lungo vaneggiare, e violenti tentativi per balzare dal letto. Nel delirio tornava sempre quel pensiero. Nè il cappellano, nè suor Fabiola, nè io eravamo riusciti a calmarlo. Egli si aggrappava con forza convulsa alle mie braccia. Nè fu possibile trovare un momento di tregua per il Viatico. Mentre il cappellano amministrava l’Estrema Unzione, invocando sulle membra peccatrici il perdono di Dio, io pregavo anche per la donna sciagurata, alla quale ormai era stata data la spinta verso il precipizio, per la creatura che forse sarebbe stata gettata nel mondo come un triste imbarazzo.
De profundis clamavi ad Te, Domine.
Li 19. — I miei poveri piedi di 3° grado non finiscono mai di perdere il pollice. Il dottore ha preso una decisione. Per Bacci converrà fare addirittura il taglio di mezzo piede. Ma egli sa che avrà il suo apparecchio e che potrà camminare benissimo, e non si sgomenta.
E’ un tipo fine, intelligente, simpatico. Evidentemente, appartiene ad una classe superiore a quella della comune dei soldati. Ma, fuorchè nella scelta dei libri e degli opuscoli, cerco di non far notare che l’ho capito. Guai a fare distinzioni. Una delle nostre preoccupazioni principali dev’essere di non mostrare preferenze o trascuranze, nè simpatie o antipatie. La sola differenza deve essere determinata dai maggiori o minori bisogni. Ed è facile riuscirvi quando non si abbia altro movente che la carità.
Li 20. — Dovevamo seguitare a tenere gli ultimi arrivati in contumacia per mancanza di posto in reparto. Ma oggi se ne son potuti trasportare parecchi. Ce n’era uno, Rotilli, che non avrebbe voluto, per quanto gli si dicesse che in reparto è molto più bello stare. Temeva di perderci... Gli abbiamo detto che facciamo servizio anche là, e allora si è rasserenato.
Egli era in ritardo, perchè oggi stesso doveva essere operato. L’altro giorno gli han fatto la radioscopia, e hanno scoperto il proiettile, al quinto spazio intercostale.
Mentre accompagnavo, con la sua roba, la barella attraverso il cortile, il buon ragazzo ebbe un’esplosione di gioia per trovarsi all’aperto, e diventò espansivo come non mai. «Ah! esclamò, troppo presto son venuto all’ospedale. Non ho fatto che cinque combattimenti». Uno dei portatori accennava a dargli dello stupido. Perciò tanto più mi affrettai a dirgli: «Bravo, così va bene! Lei è un vero soldato d’Italia». - «Ah! sì, mi è dispiaciuto, sa, di andar via, sebbene che in trincea ci si stava male. Era tutta una musica, e poi, in certi giorni mancava da mangiare, e in certi altri da bere. Ma noi si faceva sagra lo stesso». — «Come oggi, che sei digiuno per l’operazione?» disse l'infermiere.
La barella saliva, e disopra suor Terenzia chiamava: «Presto, chè i dottori hanno a momenti finito di lavarsi le mani».
Finalmente siamo in alto. Beppone, l’altro infermiere, lo avvolge nella coperta, e lo porta in braccio verso il gabinetto operatorio. Io seguivo così distratta dalle parole generose di Rotilli, che, a tutta prima, non notai il gesto del primario il quale, sulla porta del lavabo, mi porgeva la nuca perchè gli legassi la maschera. Poi, mi misi a reggere il capo del ferito, finchè fu potuto abbandonare sul letto operatorio.
Suor Plautilla, la specialista delle narcosi, cominciava il suo lavoro col cloroformio. Dopo pochi gesti di ribellione, il bravo figliuolo è vinto, il grosso respiro s’è fatto regolare.
Il primario e il «signor tenente», nella loro lunga veste d’incerato giallo, le braccia nude, i guanti lunghi, e la maschera, che li fanno sembrare sacerdoti di qualche rito orientale, lavorano con calma sicura; le suore e gl’infermieri circolano silenziosi, obbedendo ad un cenno, ad un’occhiata; io reggo le vaschette dei ferri e dei tamponi, che vanno e vengono rapidamente.
Un quarto d’ora, mezz’ora, quaranta minuti... finalamente la scheggia è sul vassoio. La ricucitura procede sollecita, è finita. Presto, il letto si snoda, si solleva sul troccolo il torso, presto la garza, il cotone, la fascia, presto la barella. Io precedo di corsa per spalancare le porte e far togliere dal letto il calorifero. Tutti gli altri infermi sono in attesa, quasi in apprensione. «L’endòrmia», dicono i veneti. La barella è stata posta a terra; s’innalza il piano fra i parapetti, le molle non s’incontrano; si insiste con ansia. Finalmente è fermato; e Beppone può sollevare il corpo inerte e accostarlo al letto. Insieme lo posiamo piano, col capo a livello. Il volto congestionato, dagli occhi torbidi e smarriti, posa sul lenzuolo; dalle labbra cominciano ad uscire le bolle della salivazione. Uno dei soldati, che sà, si offre per star lì ad asciugare la bocca del compagno. Gli altri si avvicinano a guardarlo incuriositi, tanto più che è un nuovo.
«Quando si sveglia salutatelo, ragazzi: è un valoroso».
Li 21. — Oggi c’era abbasso, in uno dei camerini, un alcoolizzato che urlava come un ossesso. I soldati che tornavano in su dalla passeggiata nel cortile, si chiedevano che cosa fossero quelle grida. «E’ uno che ha il delirium tremens, il delirio dei bevitori. Serva di avvertimento a voialtri giovani, chè non vi lasciate prendere da quel vizio». — «Oh! signorina, rispose uno, i mali che vengono a stare in trincea son peggio di quello lì!» — «No, replicai, non è vero. Ma ancorchè fosse vero, il male che viene dai vizi fa disonore, e i mali che pigliate in trincea vi fanno onore, onore per tutta la vita».
Mi avevano ascoltata tutti, compreso il mio contraddittore, con aria di compiacenza. Se si sta attente a cogliere tutte le occasioni per parlare al fondo delle loro anime, è certo che si persuadono, almeno i migliori.
Li 22. — Stamane si sentiva più che mai cantare in sala tre. Eppure è la sala che si traversa (io non vi sono adibita) con la pena maggiore, perchè vi sono i feriti al capo, al viso, agli occhi... E son proprio i ciechi che cantano. E’ singolare come, fra tutti i feriti, i ciechi sieno di solito i più sereni, taluni perfino allegri.
E’ una delle cose che più commuovono e più fanno sentire il trionfo dell’anima su tutte le disgrazie del corpo, — giacchè, perchè questo avvenga, bisogna essere buoni. Solo i buoni meritano quella luce interiore, che non solo compensa della mancanza della luce del sole, ma che, alle volte, dà dei conforti ancora più grandi di quelli che possono avere coloro che vedono con gli occhi del corpo.
Li 23. — Avevo trovato ieri, nelle mie scansie, ancora due copie di un bellissimo opuscolo del generale Turletti, (ora purtroppo esaurito) Lettere da casa. Furono accolte con gran gioia, come quasi sempre, quando si offre qualchecosa da leggere, anzi ancor più, perchè la copertina è bella e il titolo suggestivo.
Oggi domandai ad uno di sala sei: «E così, le è piaciuto quel libretto?» Aveva l’aria disillusa. «E’ per la guerra» disse, quasi mortificato. Risposi dicendo come l’Italia abbia dovuto entrare anch’essa in guerra, per la necessità e il dovere di aiutare le nazioni alleate contro la prepotenza e la barbarie della Germania e dell’Austria, alleate della Turchia, di riprendere i propri confini, liberando le terre irredente, d’impedire un’invasione fra qualche anno, di salvare il suo onore. E aggiunsi: «Tutto questo ve l’avran detto i vostri ufficiali, e anche i vostri cappellani. Ma forse non ancora abbastanza. Perciò è bene si scrivano dei libri, per far meglio capire ai soldati il perchè dei sacrifici che vengono loro imposti: perchè così si portano maggiormente da valorosi, e fanno tutto più volentieri, da veri coscienti. Non è vero?»
Il mio interlocutore non replicò, anzi disse piano: «E’ vero!» E il secondo al quale avevo dato l’altra copia del libretto, e che leggeva sdraiato sul suo letto, in fondo alla sala, saltò su: «Eh! quanti lamenti si risparmierebbero, signori, se le cose ce le spiegassero sempre per bene...»
Allora sorsero a parlare altri; chi ricordando un discorso del signor Capitano, chi una predica del Tenente cappellano, chi un fatto d’armi sul Sei Busi, chi le avanzate sul Sabotino, chi le azioni sul Podgora, chi la presa di Gorizia, chi la lotta sul S. Marco e sul S. Gabriele: chi esprimeva voti per la presa della tal quota, chi litigava a proposito del tal reggimento e del tal altro, nel combattimento della Vertoibizza. Un po’ alla volta entrarono nella discussione quasi tutti gli altri. In breve fu un tale incrociarsi dei nomi che si leggono nei comunicati, delle date più note, di giudizi e di pronostici contraddittorî, che pareva il finimondo.
Insomma la scintilla era messa alla miccia; e io, lungi dal pensare a frenare quei discorsi proibiti, (che ormai, per la confusione delle voci, neanche si capivano più) godevo di quegli echi della nostra guerra, vibranti nell’ambiente, di solito depresso e pigro, di una sala d’ospedale.
In principio, notando il morale non molto elevato dei nostri infermi, provavo un senso di gran pena. Ma, un po’ alla volta, ho capito che conviene, in un modo o nell’altro, alimentare in essi il sacro fuoco, che li sostenga fra tanti sacrifici.
Non sanno davvero quello che si fanno coloro, (per lo più son donne) i quali non sanno che compiangere i soldati, sia che passino per andare al fronte, sia che tornino, feriti o malati, senza mai saper unire, al naturale e giusto sentimento di pena per i pericoli e le sofferenze loro, il pensiero della causa che son chiamati a servire.
Mi dicono (per verità io non ne ho intese mai, poichè qui siamo tutte unanimi nel pensiero e nel sentimento), che vi son perfino delle infermiere e delle visitatrici d’ospedale, le quali esprimono ai soldati l’augurio che il male vada in lungo, che vengano riformati, e perfino si fanno sentire a maledire la nostra guerra e quelli che l’hanno voluta.
Ma non capiscono, codeste, che commettono un delitto? E non solo verso la patria e la causa della giustizia per tutti i popoli, ma più ancora verso i nostri soldati, che non meritano, no, d’essere depressi e sconfortati e demoralizzati. Piuttosto che fare, negli ospedali o fuori, un lavoro simile, vorrei la morte.
Oh! soldati nostri, possiate sempre trovare, al fronte, e nelle retrovie, e al paese vostro, chi vi aiuti a conoscere e a sentire la verità, a fare il vostro dovere sino alla fine con animo pronto, a meritare sempre più — in questa lunga prova, così dura e così grande e piena d’onore — l’ammirazione, l’amore, la gratitudine della Patria.
Qualcuno parla ai soldati di gloria... E’ ridicolo. Essi non la sentono, e per loro... è un lusso. Conviene, invece, fare appello alla parte più nobile, più buona, più generosa dell’animo loro, sia pure sonnecchiante. Per questo oggi ho salutato i miei feriti dicendo: «Voi siete la nostra salvezza, il nostro orgoglio e la nostra speranza».
Li 24. — Stamane lavoro arido di trascrizione dei diari nelle cartelle cliniche, di uscite e di scarico. Non mi sento fatta per la burocrazia. A volte, poi, quando scrivo in mezzo alla sala, mi pare quei ragazzi che mi guardano dal loro letto, o mi passeggiano intorno, sbirciando nelle mie carte, abbiano da ridere in cuor loro, o da seccarsi.
Eppure, mai ho notato, in nessun caso, per nessuna cosa, una parola o un gesto men che rispettoso e gentile. Quando sono alzati, cercano sempre di usare qualche cortesia, oppure uno che è a letto la suggerisce ad uno che è alzato. Ma che dico? anche dal letto: mi capita spesso di dover chiedere il calamaio a qualcuno che sta scrivendo; ed è sempre con un’aria premurosa e contenta e con un buon sorriso che smettono per cederlo.
Ieri che c’era da fare una medicazione un po’ difficile, io, che diffido alquanto della mia capacità (le mie compagne son tutte più brave di me), chiesi al paziente se preferiva farsi medicare dall’infermiere. Mi rispose: «Perchè? Lei lo farà con maggior gentilezza».
Noto pure in quasi tutti una grande delicatezza d’altro genere. E’ raro che un soldato vi dia da impostare una lettera senza francobollo o, anche se siamo restie ad accettarlo, senza l’equivalente. Perfino quel povero ragazzo dalle due mani fasciate che sembrano due palloni... Io avevo intascato la lettera scritta per lui, e m’ero messa ad occuparmi d’altro. Quando fui per andarmene, egli mi chiamò; e vidi un francobollo da venti posato sopra uno di quei palloni...
A volte mi rimprovero di passare troppo rapidamente da un letto all’altro, da una sala all’altra, in cerca di lavoro, mentre forse sarebbe meglio fermarsi un po’ di più, per l’assistenza morale.
Il guaio, spesso, è che, fintanto sono a letto, sono in troppi riuniti. Chissà che cosa passa in certi animi? A volte ve ne sono di così taciturni, che vengono canzonati dai compagni e ritenuti stupidi. Eppure rammento uno di questi, un calabrese, che amava andare nella sala dei bambini, e aiutare a reggerli durante le medicazioni. E, per calmare le loro grida, ritrovava la parola.
Quando, abbasso, mi domandano le cartelle cliniche del tale e del tal altro, (segno che la commissione ha ratificato il parere del colonnello, e che la partenza è imminente) provo sempre un senso come di rimpianto per qualchecosa di mancato.
Li 25. — Ierlaltro il Presidente ci aveva convocate per dirci che i nuovi richiami rendono più difficile il servizio, e chiederci di venire più presto e di assumere anche i cosidetti bassi servizi.
Naturalmente, accettammo di tutto cuore. E così, da ierlaltro, in talune sale facciamo il servizio intero. Per fortuna, anche i soldati trovano ogni cosa naturale, (siamo le sorelle) e così non vi è imbarazzo nè da una parte, nè da l’altra.
Quello che ancora non mi riesce è lavare il viso a quelli che hanno un braccio o una mano impedita. Per quanto mi sembri sempre d’aver che fare con bambini, non oso strofinar forte, come quelli che fanno da sè. Ma loro si mostrano sempre contenti lo stesso.
Mi fa piacere perchè non vi è nessuno che non desideri di lavarsi. E son felici quando ci occupiamo anche dei loro piedi. Poveri piedi, che han sofferto tutti gli strapazzi, e pei quali tante mani solerti hanno lavorato.
Li 26. — Oggi ho avuto da presentare al primario per la firma due biglietti d’uscita per due convalescenti. Lo farei tanto volentieri se fossi sempre sicura che dell’uscita usano onestamente. Come è triste il pensiero di ciò che guasta, sfibra, avvelena, questa forte, buona, cara gioventù, della quale la Patria ha bisogno, ora alle sue frontiere e dopo per un migliore domani.
E’ triste il pregiudizio che fa credere ai giovani che il vizio sia necessario e legittimo. Quanti, venuti di campagna, da ambienti abbastanza sani, hanno trovato, fin dal primo giorno, come coscritti, gli stolti compagni che li han trascinati in luoghi di vergogna, che ancora non conoscevano, e dai quali sono usciti con disgusto e rimorso... Salvo a ricominciare, perchè così fanno gli altri, e perchè ormai la via è sdrucciola, e l’abitudine si fa tiranna.
E per i vizi degli uomini, sempre più cresce il numero delle donne sciagurate che si vendono, e che alla loro volta li trascinano, li rovinano, nell'anima e nel corpo.
Oh! soldati nostri, pensateci, pensateci, prima di abbandonarvi a cose delle quali non osate parlare con una persona che rispettate. Pensate che tante fra quelle donne che trovate, purtroppo, ormai dappertutto, sono state, in principio, trascinate, tradite... o abbandonate, o mal consigliate da genitori senza coscienza, e che di quelle, se altrettanto sfortunata, potrebbe essere vostra sorella. Pensate che del danno che loro è venuto dagli uomini esse si vendicano sopra di essi con malattie terribili, dalle quali è illusione la sicurezza di salvarsi; malattie terribili per voi, per la vostra sposa e per i vostri futuri figliuoli... Guai a chi fa male, ragazzi, perchè male avrà, e seppure potrà parere tra i fortunati, non potrà avere mai la tranquillità della coscienza.
Voi siete buoni, in fondo, voi amate la vostra famiglia, voi sentite il rispetto per la donna, (la quale, anche se caduta, non si deve mai calpestare, spingendola così sempre più in basso) voi sentite la responsabilità verso le creature che un giorno metterete al mondo; voi, nella grande maggioranza, vi professate cristiani, e pregate, e vi accostate all’altare. Tutto questo deve darvi virtù a resistere alle basse inclinazioni, a vincere le cattive suggestioni dei compagni, con la forza dell’onestà che s’impone ai tristi ed ai fiacchi: da veri cristiani e da buoni soldati della Patria, in guerra e in pace, nel combattimento contro tutti i nemici, esterni ed interiori.
E dopo aver concorso alla difesa d’Italia, alla sua sicurezza avvenire, e alla rivendicazione dei diritti dei nostri fratelli, compirete in tal modo un altro sacro dovere: quello di preparare sane, forti, virtuose le nuove generazioni della Patria.
Li 27. — Sempre per la diminuzione degli infermieri, abbiamo, noi più anziane, assunto anche un servizio notturno.
A me è toccato stanotte, per due sale contigue dei più gravi, con suor Serena.
Dopo la visita del cappellano e la breve preghiera, si fece silenzio, ma per poco. Diminuito l’effetto della morfina, i più sofferenti cominciano a lamentarsi piano. Qualcuno rivorrebbe l’iniezione. Conviene trattare, temporeggiare. Quando suor Serena è del parere, prendo la siringa.
Poi è la volta della canfora per Failli, il quale nei giorni scorsi ha avuto due volte l’emorragia dalla ferita al braccio. Purchè non si ripeta stanotte! Ora l’una ora l’altra, spiamo la fasciatura.
E’ suonata mezzanotte. Suor Serena s’è seduta in fondo, vicino alla porta di comunicazione, e sgrana il lungo rosario, appeso alla sua cintura. Io prego mentalmente, per tanto dolore che è nel mondo, per tanto amore che ci vorrebbe a sanarlo.
Nella luce tetra della lampadina velata dal paralume verde, i letti bianchi si allineano, col loro carico di sofferenze, di ricordi, di desideri, di inquietudini. Qualcuno chiama piano, qualcuno tosse, qualcuno geme, qualcuno sospira. Di fuori geme e sospira il vento. Ogni tanto un rombo di treno che passa.... Va in su, recando soldati al fronte? Viene in giù, con un altro carico di feriti? Andiate o torniate, sull’aspre vie lungo le quali vi ha chiamati il dovere, salve, o fratelli!
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
Comincia il sonno, il freddo delle ore antelucane. Vado a prendere dalla mia borsa la boccetta del caffè, e lo metto a riscaldare in cucinetta, dove si fa bollire il brodo e il latte per quelli della dieta austera. Poi facciamo la distribuzione.
Poi il sonno prende anche i più sofferenti. Il silenzio è ora quasi assoluto. Mi pare che il capo di suor Serena vada leggermente piegandosi. Io ho un momento di assenza.
Chi ci ha chiamate? D’un tratto ci troviamo entrambe al letto di Failli. Egli dorme; ma la fasciatura è arrossata. Con angoscia caccio la mano in tasca per le forbici, e aiuto la suora, che ha già cominciato a tagliare. Fuoresce sangue venoso. Nel mio smarrimento, penso al laccio. Ma la rottura è troppo alta, e la suora, pronta, preme la vena giugulare.
Il ferito s’è destato tra smarrito e svenuto. Ma l’emorragia è già fermata. Presto i drenaggi e il resto, per rifasciare. Presto la siringa, il cordiale. In dieci minuti il ferito riprende. Pare aver fatto un brutto sogno.
Intanto il sonno è passato, e l’agitazione si calma riprendendo la nostra passeggiata silenziosa.
Battono le quattro — battono le cinque. Un gallo canta. Suona l’Ave Maria.
L’uno e l’altro si va destando, si lamenta, domanda qualchecosa. Non sempre possiamo accontentarli. Ma cerchiamo di confortarli piano, per non destare gli altri. Qualcuno ha nominata la mamma, qualche persona cara. Li facciamo raccontare di casa, cerchiamo di far loro ricordare le care voci, accanto al letto del loro sacrificio per la Patria, affinchè sentano che anche la Patria è una madre.
Poi, il sonno li riprende, il sonno del mattino di chi ha male dormito.
Suor Serena comincia piano a disporre per il servizio mattutino. Io riprendo i miei giri in su e in giù, per le corsie. A un certo punto mi par di vedermi venire incontro una visione, quella della Signora della lampada.
E’ Florence Nightingale, la quale, in Crimea, fra gli orrori degli ospedali di guerra d’un tempo, nei quali l’abbandono, la cancrena e la morte mietevano i più, recò i prodigi della sua carità onnipossente, santa origine della Croce Rossa.
Per la sua costante vigilanza notturna, che la portava, infaticabile, dovunque, facendosi lume da sè, i soldati, che l’adoravano, l’avevano denominata «la Signora della lampada». Noi non siamo che miserrime discepole dell’eroina inglese: ma possa ciascuna di noi, vigilante nella carità, tenere accesa sempre la propria lampada.
Li 28. — Oggi, in sala sette, ho avuto una lieta sorpresa. Mentre uno dei nostri soldati, Gecchi, (un romagnolo che, fin dai primi giorni, m’era parso fra i più intelligenti) apriva il portafogli per estrarne una lettera che desiderava leggessi, scôrsi entro quello un opuscoletto tricolore, che ben conoscevo. Era una specie di lettera, firmata Donne italiane, che era stata diretta Ai Soldati d’Italia appena scoppiata la nostra guerra, e che era stata largamente distribuita nelle stazioni del Veneto, a quelli che andavano al fronte.
Il soldato notò il piacere che mi faceva quella scoperta e disse: «Me lo tengo caro questo librino, perchè mi ha accompagnato sempre, e alle volte mi ha aiutato a fare il mio dovere».
I vicini di letto intesero, e si mostrarono curiosi di sapere che cosa dicesse il librino tricolore. Cecchi non se lo fece chiedere due volte, e cominciò a leggere, correntemente e con sentimento.
Soldati d’Italia!
«E’ con un pensiero pieno di amore e di voti che in questi giorni la Patria vi accompagna nel viaggio verso la frontiera. E noi donne, sopratutto, pensiamo commosse al sacrificio vostro e dei vostri cari, e da Dio imploriamo ch’esso non sia vano, e che per voi l’Italia compia, con fortezza concorde e disciplinata, tutto il suo dovere nel mondo».
(Alcuni, qua e là, s’erano rizzati in atto di ascolto. Uno degli alzati s’andava avvicinando).
«Molte cose sono state dette contro l’intervento dell’Italia nella guerra. Ma a quest’ora voi saprete — anche per la volontà, con tanto slancio d’entusiasmo e di sacrifici, espressa dal paese — ch’esso non è un capriccio, che esso è veramente necessario, per la rivendicazione di diritti sacrosanti, per l’integrità e per l’onore della Patria, e per le più alte ragioni di umanità.
«I vostri bravi ufficiali vi avranno già detto quali doveri abbiamo verso i nostri fratelli irredenti, che da tanto tempo soffrono, lottano e aspettano, — verso la patria nostra, sempre minacciata, alle sue malsicure frontiere, dagli infidi prepotenti lusingatori, verso tutti i popoli i quali da questa guerra, che deve risolversi in castigo di coloro che l’anno provocata, aspettano la redenzione. (Voi certamente non ignorate le condizioni del Belgio straziato, della Polonia divisa, della Serbia ancor malsicura, e d’altre nazioni e provincie alle quali lo sforzo contro gli Imperi centrali e la Turchia, loro alleata, recherà la liberazione da odiose schiavitù, da massacri e da violazioni d’ogni genere.)»
(L’opuscolo, purtroppo, non è abbastanza popolare... Osservavo taluno che pareva fare uno sforzo per capire; altri, però, si andavano sempre più interessando, e mormoravano fra loro qualche parola di assenso, mentre il lettore continuava, accalorandosi):
«Per questo voi sopporterete da forti tutti i sacrifici che la Patria ora vi chiede, e saprete infondere rassegnazione e coraggio alle vostre famiglie. Voi porterete al campo lo stesso spirito di volonterosa obbedienza e lo stesso slancio generoso coi quali foste sempre soliti andare in ogni luogo in cui, per aiuto fraterno fra disastri e pericoli, vi chiamava il dovere. E in pari tempo porterete al di là dei nostri confini la coscienza di difensori della terra che fu la culla della civiltà».
(Un lampo di compiacenza negli occhi di taluno).
«E perciò lascierete cianciare coloro i quali pensano che in guerra sia tutto permesso, odio e ferocia e licenza, e vi aizzano credendo di spronarvi in tal modo alla vittoria: e vi guarderete dal commettere di quegli eccessi e di quelle turpitudini che disonorano gli eserciti o le nazioni. Voi cercherete di vincere, non con le inutili crudeltà e con le violenze vigliacche, ma con la disciplina ed il valore, e con quella temperanza che del valore, come dell’onore, è la migliore custode. Voi, soldati d’Italia, non dimenticherete — neppure fra le dolorose necessità della guerra — i sentimenti e i doveri di umanità, per quanto altri, purtroppo, li abbiano dimenticati. Nè vi lascierete trascinare dall’esempio di tali, che non mancheranno neppure tra voi, giacchè dovunque si trovano degli sciagurati».
(Io pensavo tra me, con commozione, che così veramente fanno, per lo più, i soldati nostri).
«O soldati d’Italia, pensate che in quest’ora la Patria è nelle vostre mani. Non dipenderà sempre da voi di darle la vittoria, ma dipenderà da voi di serbarle l’onore, di serbare, sia pure lacerata, alta ed immacolata la sua sacra bandiera».
(Qui la voce del lettore ebbe una velatura).
«E nei momenti più angosciosi, quando la fatica è al colmo, e le privazioni son più sensibili, e le sofferenze più gravi, e quando vi sentirete lontani, forse isolati fra molti, pensate che la Patria vi segue palpitante, che milioni di cuori battono per voi, che d’ogni parte d’Italia per voi si levano a Dio voti ardenti e fervide preci. Pensate che il dovere verso la Patria e la Giustizia e il vostro sacrificio hanno affratellato i partiti e le classi, che con voi si batteranno i giovinetti e gli uomini anziani, d’ogni fede e d’ogni casta, che partono volontarî, e che, dietro al suo esercito c’è tutta l’Italia, la quale, unita nell’oblìo d’ogni divisione e d’ogni egoismo, combatte con esso, e per esso soffre, lavora e dà...
(A questo punto non osai guardare in faccia nessuno).
«Pensate che — come diciamo in altre pagine, destinate ai vostri cari, — la Patria non dimenticherà le famiglie di coloro che restassero in qualsiasi modo sacrificati, e che quelli fra voi che dovranno essere ricoverati negli ospitali vi troveranno cure sapienti ed amorevoli e assistenza spirituale. Quelli poi che saran destinati a cadere, saranno considerati e benedetti come martiri, giacchè per essi la causa della giustizia e della libertà, della democrazia e della fraternità umana farà un gran passo sulla via delle sue sacre conquiste. E quelli che torneranno saranno onorati e festeggiati da tutti, e potranno sempre ricordare con orgoglio ai loro figliuoli quanto avran fatto e sofferto».
(Parecchi occhi lucidi; le grosse labbra di un piccolo calabrese tremano).
«O soldati d’Italia, ora più che mai ricordatevi che siete cristiani e che, insieme alla legge di giustizia, di purezza e di bontà, Cristo ci ha lasciato una Fede che ci fa vincere da forti molte passioni, e ci consola in ogni dolore. Nei momenti di tentazione pensate a vostra madre e a vostra sorella... e in pari tempo alzate a Dio i vostri cuori, purificati dai ricordi. E nelle ore del pericolo invocate chi vi vede nell’intimo e vi accoglie fra le grandi ali di un amore infinito, nel quale il credente riposa, in questa vita terrena che passa, e nell’altra che non ha fine».
(Qualche cenno di consenso, qualche espressione compunta).
«O soldati d’Italia, abbiate pure in cuore coloro che ci hanno preceduti lungo l’ardua via di nostra redenzione, e siate sicuri ch’Essi vi guardano e vi benedicono, e vi sorreggono nel cimento. Sono i martiri che stettero fra i duri ceppi dell’Austria e dei Borboni, e, sereni e fidenti, salirono il patibolo; sono i caduti sulle barricate del ’48, nelle disperate difese ad ogni costo, sui campi delle battaglie di nostra indipendenza, e quanti, gloriosi o oscuri, per la Patria e per la Giustizia, hanno pensato, lottato e sofferto.
«E il Dio di giustizia e di verità, il quale condanna i despoti mentitori che osano invocarlo, il Dio che vuole la fraternità umana, vi aiuterà in questa guerra contro la guerra, in questo tanto atteso e contrastato sforzo per la giustizia. E se tutti avranno fede, incrollabile fede, la vittoria sarà nostra e dei nostri Alleati, per la libertà, per la giustizia, per la fraternità dei popoli e delle classi, che deve venire.
«E allora tutte le bandiere d’Italia sventoleranno nell’aria purificata dall’amore e dal sacrificio, sventoleranno finalmente anche là ove il tricolore era il sogno e sta per diventare realtà.
«O soldati d’Italia, il nostro saluto commosso vi raggiunga, il nostro pensiero benedicente, di madri e di sorelle, vi accompagni...»
Il soldato romagnolo ripiegò con cura l’opuscoletto. I radunati si riallontanarono in silenzio, i degenti erettisi a sedere si ricoricarono.
Io sentivo nel mio intimo un contrasto doloroso fra quei giorni d’entusiasmo del maggio 1915 e l’aria greve di questo febbraio 1917, e mi dirigevo pensosa verso la porta. D’un tratto, sento una voce piana: «Sorella!» Era il sardo taciturno, quello che soffre senza gridare. Mi avvicinai, chiedendo che volesse. «Nulla» rispose.
Aveva inteso — chissà? — di compendiare in quel nome il sentimento buono suscitato nell’animo suo dalla lettura, forse non bene capita, ma, in certa guisa, sentita. Ed è così che i nostri soldati, i quali poco sanno, o intendono, dei perchè, i quali a volte sembrano ribellarsi ai sacrifici, al momento buono son sempre pronti... nel maggio 1915, e adesso.
1° Marzo. — Oggi altra sorpresa, anche più lieta. Quel soldato che cercava di sottrarsi ai massaggi (e che si trova nella sala della lettura d’ieri) stamane mi porse il braccio, sfasciato, e al quale aveva già fatto il bagno. Io non dissi nulla, e lui neppure. Ma credo che, ormai, il massaggio quotidiano sia assicurato.
Li 2. — Il fervido voto è esaudito. Il nostro bravo Presidente ha concesso — pur con qualche sacrificio, per la deficienza dei locali, tanto l’Ospedale è gremito, ― che si apra una sala di lettura-scuola. Ora speriamo che tutti ci aiuteranno un po’ a farne una cosa viva. Ci dev’essere un briciolino di tutto quanto può parlare agli animi educando. Fra tante brutture del mondo, anche un po’ di bellezza. E la primavera, insieme ai nuovi carichi di dolore, vi porti — porti ad ogni sala — anche i fiori.
Quale ricordo! Nei tragici giorni di maggio dell’offensiva dal Trentino, giorno e notte, senza tregua, dalla stazione passavano treni e per le vie polverose volanti camions, gli uni e gli altri carichi di tante balde giovinezze, accorrenti alla difesa e alla morte. Era un continuo incrociarsi di saluti e di voti, era un continuo gettito di fiori, per la morte e per la vittoria. Ed erano loro che li chiedevano, loro che li volevano — i fiori — e, infiorati come per nozze, ripartivano i treni e le automobili, accorrenti sui contesi spalti della Patria. E le voci di saluto, d’augurio e di grazie volavano, si spegnevano, nello spazio.
Oh! a voi che non siete tornati e non tornerete, a voi che l’Austria ha seco travolti lassù, e, languenti e frementi, aspettate, a voi che la guerra ha segnati di stimmate sacre, tutti i fiori d’amore delle nostre terre, difese, salvate. E ai vecchi, e alle spose, e ai figliuoli vostri, tutti i fiori di bontà che il vostro sacrifizio ha meritato.
Li 3. — Oggi ho molto sofferto. Un soldato, in sala trentanove, raccontava di un’ingiustizia che gli hanno fatta al fronte, e ne traeva argomento per mettere la diffidenza e lo sconforto nei compagni circa gli impegni del Governo, i quali, secondo lui, non saranno mantenuti.
Io feci del mio meglio per controbilanciare; ma non m’è riuscito. Quando i soldati dicono il Governo, fa sempre l’impressione che parlino di un nemico. Il Governo per loro è l’esponente di tutti i mali, giusti o ingiusti, dei quali hanno a soffrire. E’ triste. Ma io penso che se tutti quelli che lo rappresentano, e anche gli altri, di condizione superiore alla loro, fossero sempre col popolo giusti e buoni, questa impressione deplorevole non esisterebbe.
Ingiustizie, cari soldati, ve ne son tante, è vero, dappertutto; ma uno dei benefici di questa guerra sarà il passo verso la giustizia che verrà fatto anche per voi, popolo nostro, che tanto dolore, che tanto sangue ci avete dato. Ed è proprio dagli uomini del Governo che la più solenne parola di gratitudine e una sacra promessa sono venute. E sarà debito d’onore e d’amore per quanti cittadini hanno cuore e coscienza, debito suggellato dal sangue.
Li 5. — Ho passato la sera scorrendo vari pacchi di lettere di soldati nostri, scritte, quali da altri ospedali, quali da casa, quali dal fronte, ad alcune delle mie compagne. E vi trovo sì vera e viva l’anima del popolo nostro, che m’è caro di trascriverne qui qualcuna.
Uno ringrazia la sua infermiera «delle cure opportune che mi avete fatte con esattezza e garbatezza, e perciò non mi posso proprio scordare di voi... Mi avete fatto come una madre, e Iddio ve ne renderà il doppio, che io quando vi trovai dissi nel pensiero mio: forse sarà l’anima di mia madre che mi ha fatto trovare questa signora così gentile, che avete un cuore generoso, e non mi basta mandarvi delle benedizioni».
Un caporale scrive: «Mai oblierò il dolce conforto procurato al mio dolore per mezzo dei giornalieri sacrifici e della nobiltà e squisitezza dei loro modi. E non cesserò di far voti al Cielo che possa venir remunerato tutto il bene fatto ad un umile militare».
Frequenti sono le ambasciate di riconoscenza vivissima ai medici, alle suore, agli infermieri. Uno scrive: «E più che tutto alla signorina portalettere».
Alcuni, più colti, parlano della guerra. Un mitragliere scrive:
«Dalle balze del Trentino, con le nostre orgogliose macchine, che sterminano il nemico, La ringrazio ancora della sua opera di carità, che fa per noi soldati, e che Iddio la benedica. Ho trovato in Lei una sorella, una cara sorella, che con amorevoli cure e gentili parole m’è stata di conforto in momenti di tristezza. Ne serberò eterno grato ricordo, anche quando sarò tornato alla pace domestica».
E un altro: «... Come vede, i miei pronostici si sono avverati, e gli austriaci continuano la ritirata abbandonando in nostre mani ogni sorta di materiale e rendendo così inutili i loro sanguinosissimi sacrifici per la loro effimera avanzata. Così, ancora una volta abbiamo saputo opporci alle violenze austriache. La pianura veneta non è pane per i loro denti, e quando avessero potuto passare per i monti, non avrebbero potuto passare per i difensori. Ora, continuando energicamente la nostra offensiva, speriamo farla finita con questi Re degli impiccati».
Un altro dice: «... Benchè lontano non potrò mai dimenticare quelle care persone che si prestarono per mio conto in quei tempi e mi usavano molte gentilezze, che nemmeno meritavo, e confortarmi nei giorni lunghi e dolenti dove mi trovavo solo come una pecorella smarrita in mezzo alla campagna».
Un altro: «Quando il ferito si trova alquanto scoraggiato, eccoci pronta una signorina che con affabili parole cercava tutto il modo possibile che il loro cuore dettava, dandoci speranza e coraggio, cosa che per noi feriti è di molto sollievo.
«Dunque lascio pensare a Lei quando mi trovai in questo Ospitale, in mezzo a tanta gente estranea... Lei che rifiuta ogni elogio dichiarandosi di essere in suo dovere d’infermiera di far ciò».
Un alpino: «Gli giuro, Signorina, che finchè avrò un’ora di mia vita, il mio pensiero sarà sempre rivolto su di lei che mi amò per amor di fratellanza». Lo stesso annuncia di essere stato promosso caporale per merito di guerra, in un assalto alla baionetta.
Poi c’è un biglietto, scritto ad uso di epigrafe, che la destinataria trovò a capodanno nel suo cappello:
«Gentil Signorina — Noi tutti raccolti avemo — inalzatto una prece — Al Signore Iddio, aciochè — ascolti benignamente — le sue Preghiere — assegnandoci suoi devotissimi
Sala N. 10.
E una cartolina: «Saluti e ricordi alla brava infermiera M. F., e un saluto ancora speciale per i suoi sentimenti patriottici, riconoscentissimo alle signorine che porgono alla Patria il loro braccio, e facendo augurî, augurî, augurî.
Mutilato F. F.»
Uno manda una lieta partecipazione: «... Le dico pure che sono sposo e mi sposerò ai 2 Dicembre. La mia sposa è felicissima di avermi vicino, sebbene alquanto rovinato, è orgogliosa perchè anch’io ho fatto quel poco che ho potuto per la grande causa di cui combattiamo, sicuri di presto riuscire vittoriosi».
E un altro, dal convalescenziario: «Avanti partir da qui per là... dove il dovere ci chiama, vogliamo darle un caldo saluto.
«Ricordiamo perennemente il suo sapere saggio e il suo contegno modesto, noi tutti pregheremo Iddio che la colmi delle grazie del Cielo, così glielo desideriamo tutti noi, assegnandoci di Lei devotissimi, ecc.».
E un altro: «Riguardo alla mia ferita per adesso non intende migliorare, ma speriamo che l’aria del mio prediletto paesello possa guarirmi in breve tempo, onde poter ritornare al campo dell’onore, per poter aiutare di nuovo la nostra cara Italia e rivendicare i nostri fratelli caduti da eroi».
Un altro, dopo avere espressa la propria gratitudine, dice: «In una cosa sola sbaglia: e cioè in quello di chiamar me col nome di eroe. Le dico francamente che tanto non ho fatto da chiamarmi tale, colla speranza che si persuada che tutti possono fare quello che ho fatto io, perchè nulla di straordinario ho fatto»
(E’ un mutilato di ambedue le gambe).
E infine queste due, di uno stesso, che mi sembrano le più caratteristiche:
Gentilissima e Rispettabile Signorina,
Sempre ricordo. E col pensiero la raggiungo e voglio esprimere il mio cuore verso di Lei, e non dimenticherò mai e mai più la Sua bontà e la Sua generosità che ha avuto verso di me... La voglio ringraziare e ringrazierò sempre delle cure che ha avuto verso di me. E mi ricorderò anche delle altre rispettose Signorine. Credo che il mio scritto le farà molto piacere, ed io aspetterò con tanto desiderio una bella risposta.
Dunque lascio la piuma con salutarla di vero cuore, e mi saluterà ancora tutte le altre Signorine, e mille ringraziamenti alle sante Suore, che non dimenticherò mai, e con gioia ringrazio ancora infinitamente, e mi dichiaro io stesso
G. G. B.
Rispettabile Signorina,
Con grande pensiero ho ricevuta la mia fotografia, e subito ho fatto vedere alla mia famiglia, dicendogli che queste rispettosissime Signorine sono quelle che stanno curando con intusiasmo e con precisione noi soldati, reduci delle patrie battaglie. Ma però con grande dispiacere non ho trovato Lei nella fotografia, ma però mi ricorderò sempre, perfino il mio ultimo sospiro, della cura che ha avuto verso di me, e un profondo ricordo anche delle altre Signorine. Le auguro a tutte un buon Natale, assieme a un buon principio d’anno, e con gran desiderio insieme tutti aspetteremo una bella e prossima Vittoria per la nostra cara Italia, che è il primo Giardino dell’Europa.
Salute e Pace per Sempre.
Li 6. — Ho letto dianzi, nell’ultimo numero della Nuova Antologia, un articolo di Magda Sindici, intitolato La guerra nelle Fiandre, vista da un’ambulanza. E’ una donna la quale visse eroicamente i primi mesi eroici del Belgio. Invidiabile sorte — recare il conforto e la vita là ove il dolore e la morte regnano sovrani, condividendo coi combattenti pericoli, sofferenze e fatiche.
Non parlerò qui di quel lavoro, denso di ricordi tragici e di pensiero profondo. Solo accenno l’episodio di un giovane disertore belga, che la donna animosa e pietosa aveva salvato dalla fucilazione, ottenendo fosse rinviato in prima e disperata linea, e d’onde le tornò morente. A vent’anni egli moriva felice, perchè la morte lo salvava dalle debolezze della vita e gli ridava l’onore.
Li 7. — Ieri avevamo finito di arredare la nostra sala di ritrovo. La biblioteca è stata — con libri, opuscoli e periodici, in parte comprati, in parte regalati — arricchita di molto, — sulle pareti alcune oleografie rappresentanti fatti storici, dalla battaglia di Legnano fino alla presa di Gorizia, una carta geografica, parecchi cartelli con motti morali e patriottici, — sui tavolini quaderni, penne e calamai, qualche giuoco.
E oggi inaugurazione alla chetichella, con alcuni soldati e alcuni ragazzini, desiderosi d’imparare, e una brava maestra, la quale, con molto slancio, s’è offerta d’insegnare. — Tanto i soldati quanto i ragazzini malati adoperano le grucce o il bastone; ed è commovente la piccola processione che traversa il cortile, e sale, faticosamente ondeggiante, e con aria ansiosa, la scala...
Vi sono due soldati analfabeti che si vergognano, ma ardono dal desiderio di provare. (Uno credeva di non poter venire perchè, diceva: «Nun saccio»). Due hanno fatto la prima o la seconda; un altro è desolato perchè presto «passerà la Commissione». «Ah! se si cominciava prima!»
E mentre qualcuna di noi fa circolo con qualche soldato e i fanciulli, leggendo ad alta voce La piccola vedetta lombarda, la scolaresca militare ha preso posto intorno alla tavola di mezzo, e la maestra detta alcuni periodi a quelli che hanno qualche famigliarità con la penna e fa fare le aste a quelli che per la prima volta la prendono in mano. Uno fa subito benino, ed è raggiante; un altro suda per la fatica enorme e sfortunata.
La maestra va allungando ed elevando i periodi del dettato: «Io sono orgoglioso di essere un soldato d’Italia». — «Io ho fatto il mio dovere di buon soldato». E i volti, allora, si atteggiano ad un’espressione di compiacenza.
Dopo viene la coniugazione del verbo essere, per dare un’idea del passato remoto la maestra dice: «Fra parecchi anni, quando racconterete ai vostri figliuoli quello che avete fatto per la patria, direte: «Io fui nel Trentino, io fui sul Carso ecc.» Qui la compiacenza si fa anche più viva. E qualcuno comincia già, timidamente, a raccontare... Allora si smette, e conduciamo grandi e piccini nella soprastante terrazza, dalla quale si scorge l’anfiteatro delle Prealpi, con lo sfondo delle dolomiti cadorine, dall’Altipiano d’Asiago agli ultimi contrafforti della Carnia...
Li 8. ― Serata triste. Dall’ala di contumacia, nella quale erano rimasti i meno gravi, sgombero di due sale per far posto ad altri, annunziati per domani, sgombero ordinato due ore prima.
Chi è già tornato a letto, chi non ha ancora riavuto tutta la propria roba (molti erano arrivati in cattivo arnese) a chi manca il cappotto, a chi i pantaloni, a chi le scarpe, a chi le fascie. E’ una confusione di domande alla povera suor Speranza disperata, un chiamare insistente della signorina incaricata del controllo, uno smettere e ricominciare l’appello.
E mentre i più lesti scendono, andiamo vestendo, seduti sui letti, quelli che non si reggono. Uno deve rimanere disteso.... Egli mi dice, con un sorriso malinconico e bonario: «Signorina, la vestizione dei morti». — «No no, la vestizione dei vivi. Ci scriverà non è vero? e buone notizie». Allora, scambio d’indirizzi, che si moltiplicano attraverso le sale, coi saluti e gli auguri, e i ringraziamenti, e le scuse, e i rimpianti.
Alcuni son contenti d’andarsene, perchè sperano di andar vicino a casa. Tutti domandano: «Dove si va?» Ma ancora la notizia non è arrivata fino a noi. Altri si mostrano dolenti, e tanto più per la partenza precipitosa. «Per i militari è così», dice uno con tristezza rassegnata. Noi cerchiamo di alzare il tono. «Voialtri siete quelli che devono essere sempre vigili e pronti». — Uno dice: «Noi siamo dappertutto a casa nostra». — «Sì, figliuoli, tutta l’Italia, ormai, è casa vostra».
Intanto, il primo camion è arrivato, in mezzo alla folla di soldati addensati davanti alla porta della contumacia. Si rinnovano i saluti e tutto il resto. I primi salgono, bene o male, nell’antro scuro. Poi arrivano quelli in barella.
I soldati che non han da partire salutano a gran voce. Si scambiano motti in tutti i dialetti. Uno dei rimanenti grida: «Noi andremo a trovar la vittoria in trincea!» «Addio, bersaglieri!» «Addio, artiglieria!» Da una finestra lontana arriva come un soffio un’esile voce di donna: «Viva l’Italia!»
II primo camion è partito, arriva il secondo. Ricominciano i saluti, gli auguri, i rimpianti. Il nuovo antro scuro ne inghiotte altri quindici.
Scende il crepuscolo. I rumori diminuiscono. Ora si ode più chiaro l’appello...
A notte son partiti tutti.
O donne ignote, che li riceverete alla vostra volta, accoglieteli, assisteteli, con intelletto d’amore. Trovino in voi aiuto e conforto non solo, ma fede, altresì, e volontà, e fortezza, per la nuova ora del dovere.