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chio urla disperatamente e mi chiama perchè lo tenga, perchè gli faccia schermo. Il dottore — il sig. tenente — lo conforta con voce di giovane papà. L’infermiere mastica un’imprecazione contro la guerra, che tronca ad una mia occhiata severa. Il ferito chiude gli occhi sul mio braccio, e geme piano.

Ma tutta la sala, ormai, è in moto. Da parecchi altri letti si levano lamenti, gemiti, grida, suppliche, proteste; il triste mucchio multicolore delle medicazioni levate e buttate va crescendo; s’incrociano, fra il personale assistente, le richieste e i servizi, — il dottore è già da un altro — allunga la mano per scegliere un ferro, porge il batuffolo alla bottiglia della benzina jodica, alza gli occhi per chiedere la doccia; strumenti, recipienti, pacchi di garze, falde di cotone, fascie, passano da un letto all’altro, rapidamente.

Poi, piano piano, tutto si va calmando. Si rimettono a posto gli archetti per i feriti alle gambe e i congelati di terzo grado, si rimboccano le coperte, si aggiustano i guanciali tormentati sotto le teste stanche e tranquille.

Immaginando che il povero ferito ad entrambe le braccia e le mani (lo scoppio di una bomba a mano gli ha, fra l’altro, amputate tre dita e ha il viso tempestato di escare), avesse da scrivere a casa, gli offersi di farlo per lui. Egli accettò felice, tanto più che doveva dare ai suoi la notizia d’essere stato ferito. Volevo mi dettasse. Cominciava: «Miei amatissimi Genitori! Una buona signorina si degna...» — «Niente, niente, figliuolo, di questa roba». Allora facciamo, invece, una piccola combinazione, per non spaventare i genitori: «Ferito alle ma-