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cava da mangiare, e in certi altri da bere. Ma noi si faceva sagra lo stesso». — «Come oggi, che sei digiuno per l’operazione?» disse l'infermiere.

La barella saliva, e disopra suor Terenzia chiamava: «Presto, chè i dottori hanno a momenti finito di lavarsi le mani».

Finalmente siamo in alto. Beppone, l’altro infermiere, lo avvolge nella coperta, e lo porta in braccio verso il gabinetto operatorio. Io seguivo così distratta dalle parole generose di Rotilli, che, a tutta prima, non notai il gesto del primario il quale, sulla porta del lavabo, mi porgeva la nuca perchè gli legassi la maschera. Poi, mi misi a reggere il capo del ferito, finchè fu potuto abbandonare sul letto operatorio.

Suor Plautilla, la specialista delle narcosi, cominciava il suo lavoro col cloroformio. Dopo pochi gesti di ribellione, il bravo figliuolo è vinto, il grosso respiro s’è fatto regolare.

Il primario e il «signor tenente», nella loro lunga veste d’incerato giallo, le braccia nude, i guanti lunghi, e la maschera, che li fanno sembrare sacerdoti di qualche rito orientale, lavorano con calma sicura; le suore e gl’infermieri circolano silenziosi, obbedendo ad un cenno, ad un’occhiata; io reggo le vaschette dei ferri e dei tamponi, che vanno e vengono rapidamente.

Un quarto d’ora, mezz’ora, quaranta minuti... finalamente la scheggia è sul vassoio. La ricucitura procede sollecita, è finita. Presto, il letto si snoda, si solleva sul troccolo il torso, presto la garza, il cotone, la fascia, presto la barella. Io precedo di corsa per spalancare le porte