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belle nei diari le temperature, messe a posto le cartelle cliniche, cominciai a interrogare quelli che erano svegli. C’è un toscano che si lamenta nel modo più grazioso, un veneto che mi ha già raccontati mezzi i fatti suoi, un sardo taciturno, un milanese che fa lo spiritoso in meneghino, un siciliano ansioso per quella benedetta licenza, perchè da oltre un anno non vede li picciriddi, e uno non lo conosce ancora. Mi duole perchè non riesco a capire tutto quello che mi dice. V’è pure uno nato e domiciliato in Francia, che usa più volentieri del francese, e parla della patrie con quel convincimento che purtroppo difetta ancora nell’educazione del popolo italiano.

Viene il registrante a interrogare ognuno: nome, paternità, luogo di nascita, classe, corpo ecc., per il biglietto d’ingresso. Poi viene il dottore, accorrono le suore, portando la cassetta del cotone e delle fascie, i pacchi delle garze e dei drenaggi, il vaso dei tubi, le bottiglie e i vasetti degli emollienti e dei disinfettanti, le bacinelle e i ripari, versano nei rispettivi catini l’acqua e l’alcool. Gli infermieri e le samaritane cominciano a sfasciare.

V’è un ginocchio sfracellato da una scheggia di granata, v’è una pallottola di shrapnell, rimasta in un torace, v’è una gamba crivellata da sedici ferite, v’è una testa nella quale si vede pulsare il cervello, v’è una mano deformata da una palla esplosiva, v’è un femore fratturato. E molte congelazioni di 1°, 2°, 3° grado, qualche contusione, qualche ustione.

Si comincia dai più gravi. Il piccolo sardo morde il fazzoletto, si dimena un poco, ma tace. Quello del ginoc-